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Le transizioni gemelle

Il capitalismo sui binari del verde e del digitale. Parte prima.

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Secondo un’opinione ormai diffusa, alimentata dalle istituzioni di governo dell’economia globale, l’uscita dalla crisi generata dal Covid 19 può inaugurare una nuova fase di sviluppo del capitalismo, di ampio respiro, trainata dalle ondate di innovazioni tecnologiche intitolate alla transizione ecologica e ai prossimi passi della rivoluzione digitale. L’articolo si interroga sulla credibilità di questa prospettiva: quanta strada può fare il capitalismo sui binari del verde e del digitale? A quale velocità può andare? E quanto si può sperare che il viaggio risulti confortevole?

1. I piani di recovery destinati a portarci fuori dalla crisi generata dal Covid 19 hanno sancito due orientamenti già rilevabili quando la pandemia doveva ancora insorgere.

Il primo consiste in un mutato atteggiamento nei confronti delle politiche ‘fiscali’, di spesa pubblica. Verso la metà degli scorsi anni Venti, complice la debolezza della ripresa dopo la crisi del 2008, il lungo dominio delle strategie di tipo monetario ha cominciato a essere contestato a vantaggio di cospicui interventi a sostegno della domanda aggregata, destinati a fare la differenza rispetto agli equilibri che stanno nelle corde dei mercati. Per la verità, sviluppi del genere si sono registrati soprattutto negli Stati uniti, dove la necessità di un nuovo fiscal activism, di stampo keynesiano, è tornata alla ribalta nel vivo del dibattito innescato alla fine del 2013 da Lerry Summers circa la possibilità di una futura, ma già iniziata, Secular Stagnation1. Non così in Europa, dove soltanto la pandemia, in effetti, è riuscita a rompere la gabbia del fiscal compact, e soltanto pro tempore, in chiave emergenziale: convintamente quanto all’entità delle risorse messe in campo nel fuoco della crisi, ma non esattamente in linea di principio.

Ben chiaro da entrambi i lati dell’Atlantico, invece, il ruolo di assi portanti della crescita che i piani recovery hanno accordato al verde e al digitale, in virtù dei rispettivi giacimenti di innovazioni tecnologiche pronte per essere (ulteriormente) sfruttate, dalle renewables all’Intelligenza Artificiale; è chiaro anche, però, il collegamento che in tal modo si è venuto a stabilire con la funzione di rescue narratives che tanto il verde quanto il digitale svolgono almeno da vent’anni – precisamente a fronte delle incertezze che il capitalismo, da altrettanto tempo2, fa registrare quanto alla consistenza delle proprie capacità espansive.

Così, nel complesso, le prospettive di uscita dalla crisi generata dal Covid 19 sono venute a sovrapporsi a questioni di più lungo periodo. In effetti, data l’entità delle risorse che i piani hanno messo in campo e la consistenza delle ondate di innovazioni tecnologiche sulle quali è lecito contare, la situazione contiene gli estremi per interrogarsi circa la possibilità di una stagione nuova, in grado di sconfessare i timori di un rallentamento del ritmo di crescita delle economie occidentali, già pervenute a un elevato grado di maturità; e per chiedersi quali caratteristiche, se del caso, la ‘ripresa’ di un processo espansivo più intenso e più vivace possa assumere.

Nel seguito di questo testo l’argomento sarà affrontato dal punto di vista della cosiddetta ‘transizione ecologica’; in un prossimo contributo prenderemo in esame le attese che si appuntano sui più recenti sviluppi della rivoluzione digitale.

2. A proposito della transizione ecologica, la prima cosa da segnalare è il peso accordato alle questioni che vertono sulla produzione e sul consumo di energia, le quali, complice la gravità della crisi climatica3, godono in effetti di un’attenzione pressoché esclusiva. E la strategia destinata ad affrontarle, ridotta proprio all’osso, suona come segue: (i) elettrifichiamo tutto, o quasi tutto, trasformiamo tutti o quasi tutti i consumi di energia in consumi di energia elettrica, e (ii) produciamo tutta o comunque la parte di gran lunga prevalente dell’energia elettrica che serve per mezzo di fonti rinnovabili (solare, eolico, marino, ecc.)4.

Così, con le questioni energetiche messe al centro della scena, si capisce bene come alla transizione ecologica possa essere attribuita la funzione di driver della crescita. Elettrificare tutto o quasi tutto e produrre tutta o quasi tutta l’elettricità che serve per mezzo di fonti rinnovabili significa costruire enormi quantità di impianti e di dispositivi nuovi, auto elettriche comprese: quindi grandi quantità di domanda (sostenuta appunto dalla mano pubblica), di investimenti, di lavoro, di reddito, ecc. Come pure è il caso di notare che le fonti rinnovabili, in tal modo, vengono a configurare una sorta di quadratura del cerchio: non soltanto promettono di disaccoppiare crescita e produzione di CO2, ma anche di stimolare la crescita, di promuoverla, proprio mentre la riconciliano con le ragioni dell’ambiente, rendendola pulita, carbon free.

In questo, per la verità, non c’è moltissimo di nuovo, perché l’interpretazione dell’ecologia come ‘opportunità di crescita’ non è estranea alla retorica main stream dello ‘sviluppo sostenibile’, in circolazione, come accennato, almeno da vent’anni. Ma non c’è dubbio che i recenti piani di recovery, e i ‘discorsi’ che li accompagnano, segnino un salto di qualità degno di essere notato. Non soltanto per l’inedita quantità di mezzi finanziari resi disponibili, ma anche per la consapevole e insistita elezione del progresso tecnologico di contenuto ambientale, insieme al suo gemello di matrice digitale5, a baricentro dell’intero processo di accumulazione – non tanto diversamente, poniamo, da come il complesso casa-automobile –elettrodomestici costituì il nucleo trainante dello sviluppo negli anni della Golden Age. D’altra parte, a essere sinceri, è difficile evitare il sospetto che la stessa preminenza accordata alla transizione energetica abbia qualcosa a che fare con la misura in cui l’argomento si presta a essere interpretato in termini di investimenti, affari e lavoro – certamente, per dire, più della difesa della biodiversità dai danni legati alle attività di direct exploitation.

3. Affinché quest’ultima osservazione non generi equivoci, diciamo subito che la strategia sommariamente richiamata merita senz’altro di essere approvata: l’uso dei combustibili fossili va abbandonato definitivamente, quanto più in fretta sia possibile, e non vi è altro modo per farlo che grazie a una massiccia elettrificazione del consumo di energia, civile e industriale, realizzata con l’impiego di dosi massicce di fonti rinnovabili. La crisi ecologica, però, non consiste soltanto del climate change,delle decine di miliardi di tonnellate di CO2 che ogni anno consegniamo all’atmosfera bruciando carbone e petrolio; la questione energetica, per quanto cruciale, è soltanto una di quelle che meritano attenzione. E soprattutto, c’è da dire che l’operazione di ‘assolutizzarla’ significa aprire la strada al paradosso che il suo affrontamento – sacrosanto com’è, in vista dell’obiettivo di completa decarbonizzazione che occorre perseguire – possa tuttavia generare esiti perversi a scala planetaria6.

In questo, nel paradosso appena detto, è al lavoro una ragione stringente. Quando si tratta di ambiente, forse più che in ogni altro caso, tutto si tiene: l’ambiente, l’ecosfera, è appunto una totalità, un hólos, un ‘intero’, sicché non è possibile intervenire su una qualsiasi delle sue parti senza che ognuna delle altre abbia a subire effetti rilevanti. O almeno, ‘metodologicamente’: non è lecito intervenire su una qualsiasi delle sue parti senza rappresentarsi la necessità di controllare (cercare di capire) gli effetti che direttamente o indirettamente, con diversi gradi di probabilità, si possono produrre su ognuna delle altre. Più alla radice, si tratta della circostanza, a suo tempo già vista da Bateson, che le questioni di natura ecologica mal sopportano approcci di tipo problem solving, implicando piuttosto mutamenti ‘profondi’, riguardanti il ‘metabolismo di base’, se non proprio le ‘identità’, dei sistemi chiamati in causa dai loro contenuti.

Per insistere, l’argomento presenta motivi di interesse epistemologico (se basta) che difficilmente potrebbero essere maggiori, e veramente meriterebbe considerazioni di diversa ampiezza, che ruoterebbero intorno alle nozioni di complessità, incertezza, responsabilità e simili. Qualcosa aggiungeremo7, ma a questo punto non è il caso di complicare troppo una cosa che pure può essere detta in modo semplice: dacché prevede la produzione di grandi quantità di impianti, la strategia sommariamente richiamata, sebbene riguardi l’energia, comporta l’impiego di grandi quantità di materia,di materiali, soprattutto metalli, delle quali si tratta appunto di ‘controllare’ se, come e quanto possono essere prelevate, usate, magari più volte, e infine restituite all’ambiente in modo sostenibile.

4. In questo, la transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili si colloca lungo una linea evolutiva che da sempre, si può dire, ha riguardato la trasformazione dell’energia primaria, presente in natura, nell’energia che serve ai nostri scopi. Il profilo del trend è già visibile nel numero delle diverse specie chimiche contenute nelle tecnologie di volta in volta prevalenti in età moderna: come si vede dalla figura che segue, si è trattato di un incremento cospicuo e cumulativo.

Figura 1

Fonte: cfr. Allegato 1

Ai fini di questo contributo, però, la questione da affrontare è meno grata di così, riguardando soprattutto, come accennato, le quantità di materiali (compresi nel quarto insieme) che devono essere messe a disposizione dei costruttori di impianti e di dispositivi: si può affermare che il loro necessario aumento è ‘sostenibile’?

Tipicamente, valutazioni del genere – in effetti tutte le valutazioni di sostenibilità – prendono le mosse da una determinata ipotesi circa l’andamento del Pil globale fino al 2050 (l’anno dell’auspicata piena decarbonizzazione), talvolta distinguendo tra economie più o meno avanzate; e l’ipotesi che tipicamente viene adottata è quella di un saggio di aumento intorno al 3% all’anno, talvolta articolandola in scenari più o meno ottimistici. Per esempio, lo Special Report di IEA che abbiamo già citato8 contiene un valore complessivo del 3,1%, mentre nell’ultimo Outlook EIA9 troviamo il quadro che segue:

Fonte: EIA10

L’operazione successiva consiste nel collegare all’andamento dell’attività economica un determinato andamento del consumo di energia in termini aggregati, che in genere incorpora ipotesi più o meno ottimistiche circa la riduzione della quantità di energia consumata per ogni unità di Pil – ed è precisamente all’altezza di questo secondo passaggio che le implicazioni della strategia che abbiamo detto, di elettrificazione massiccia dei consumi e produzione dell’elettricità che serve per mezzo di fonti rinnovabili, possono cominciare a essere messe sul banco di prova della loro sostenibilità.

Per cominciare, una buona notizia. Di per sé, l’elettrificazione dei consumi comporta un forte miglioramento del rapporto tra energia impiegata e lavoro prodotto, sicché, a parità di risultato utile, il consumo della prima subisce una diminuzione che in effetti può dirsi ‘drammatica’. Per esempio, sulla base del già citato rapporto IEA, possiamo addirittura assumere che si tratti di una riduzione di oltre la metà, sicché, nel 2050, con un Pil aumentato di un fattore 2,4, ci troveremmo ad avere bisogno di una quantità di energia addirittura un po’ inferiore a quella che impieghiamo oggi.

Tuttavia, a parte le possibilità collegate alla cosiddetta economia circolare, delle quali diremo tra poco, le buone notizie finiscono qui. E non bastano a evitare che la domanda che ci siamo posti riceva una risposta di segno negativo: anche a tener conto di consumi di energia drasticamente abbattuti dalla loro elettrificazione, la realizzazione degli impianti e dei dispositivi necessari al fine di impiegare (quasi) soltanto fonti rinnovabili richiede quantità di materiali che possono essere rese disponibili soltanto a prezzo di nuove violazioni dei planetary boundaries, certamente diverse dall’effetto serra, ma non per questo più ‘sostenibili’, meno inaccettabili.

Nell’Allegato 1 sono contenute le basi analitiche che giustificano questa affermazione, di certo molto impegnativa. Qui, nel paragrafo che segue, si richiamano i punti principali dell’argomentazione.

5. Che sono tre.

A. Innanzi tutto, una considerazione di carattere preliminare-prospettico. Per definizione, l’operazione di elettrificare tutto, virtuosa com’è dal punto di vista del rapporto lavoro/energia, si può fare una volta sola. Ammesso di essere riusciti nell’impresa eroica di completarla entro il 2050, tutti i successivi aumenti del PIL, non potendo più godere dei suoi effetti, neppure potranno evitare di tradursi (più o meno linearmente) in conseguenti aumenti dei consumi di energia per usi finali, e inevitabilmente, però, in maggiori quantità di materiali richiesti. Naturalmente, guadagni di efficienza (riduzioni dell’intensità di energia per unità di reddito) resteranno sempre possibili, ma nulla di paragonabile al drammatico abbattimento connesso all’elettrificazione in quanto tale.

Il fatto è che le fonti rinnovabili, a dispetto del carattere inesauribile dell’energia solare, dalle quali quasi tutte dipendono, non valgono affatto a togliere la finitezza del mondo in cui viviamo – e però neppure valgono a sconfessare il celebre aforisma di Boulding, secondo il quale “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista”.

B. Comunque, per nutrire motivi di preoccupazione, non c’è bisogno di spingere lo sguardo tanto avanti. La figura che segue prende in considerazione l’insieme dei materiali più ampiamente chiamati in causa dall’espansione delle low carbon energy technologies. Le colonne blu e gialle indicano il rapporto percentuale tra la domanda cumulativa al 2060 e, rispettivamente, le riserve note e le risorse delle quali si presume l’esistenza10. Come si vede, nel primo caso, soltanto quattro materiali (Gallio, Disprosio, Neodimio, Alluminio) fanno registrare un rapporto inferiore al 100%, corrispondente alla soglia dell’esaurimento, e il superamento di quest’ultima, perloppiù, quando avviene, si segnala per l’alto numero di volte che prevede. Inoltre, anche a prendere in considerazione i più elevati valori delle risorse, la domanda cumulativa supera le disponibilità stimate di ben sei elementi – Indio, Selenio, Tellurio, Argento, Nickel, Platino – e approssima (al 2060) quelle di Cobalto, Ferro e Rame.

Figura 2

Fonte: cfr. Allegato 1

Legenda:
In: Indio. Ga: Gallio.

Se: Selenio. Te: Tellurio.

Cd: Cadmio. Ag: Argento. Dy: Disprosio. Li: Litio.

Nd: Neodimio. Co: Cobalto. Ni: Nickel. Pt: Platino.

Fe: Ferro. Al: Alluminio.

Cu: Rame.

Quest’ultima circostanza è di particolare rilievo, consentendo di mettere in evidenza un dato finora trascurato. In breve, non è soltanto questione di terre rare (nella figura rappresentate dal Neodimio e dal Disprosio) e neppure, soltanto, di materiali ‘specifici’: oltre a questi ultimi, le tecnologie legate allo sfruttamento delle renewables non mancano di chiamare in causa materiali senz’altro ‘comuni’, già largamente impiegati nella produzione dell’intero complesso di beni e di servizi noto come Pil, e come tali già sottoposti a livelli di pressione che di per sé coincidono con serissimi problemi di sostenibilità11. Da questo punto di vista, può ben dirsi che la situazione è del tipo ‘piove sul bagnato’ – e come risultato, però, il quadro delle prospettive di depletion diventa tanto più severo.

C. Ma neppure, in effetti, è soltanto una questione di depletion. Ben si comprende che quest’ultima – nella forma di paventate strozzature dal lato dell’offerta – sia quella che soprattutto preoccupa il mondo degli affari e le istituzioni rappresentative dell’establishment economico. Né, per parte nostra, vogliamo certo negarne l’importanza. Ma quand’anche, per ipotesi astratta, nessun vincolo esistesse in termini di disponibilità, resterebbero ancora intatti tutti i problemi di impatto ambientale (e sociale) generati dalle attività di mining – da attività di mining drammaticamente intensificate in ragione di un aumento della domanda tanto tumultuoso quanto quello che si deve immaginare. Già oggi, del resto, senza bisogno di ipotesi astratte, il caso del litio mostra con tutta chiarezza che l’assenza di vincoli dal lato delle disponibilità (cfr. figura 2) non significa affatto che le cose, allora, vadano bene, dacché l’estrazione e la lavorazione del minerale, disponibile com’è, comporta alterazioni ecosistemiche, danni alla salute umana e impatti negativi su altre attività antropiche che possono ben dirsi ‘insostenibili’ (cfr. Allegato 1).

La figura che segue riassume gli effetti di cui si tratta con particolare riguardo a quelli di inquinamento, mostrando tra l’altro come non si tratti affatto di problemi limitati alla fase specificamente estrattiva dell’attività mineraria. Ai fini di un quadro più completo, rinviamo ancora all’Allegato 1; qui, per suggerire la gravità dell’argomento, accenniamo soltanto all’impatto dell’industria mineraria nei riguardi delle risorse idriche, in termini sia di assorbimento (tra l’altro in competizione con il consumo umano), sia di danneggiamento della qualità. In genere, le cose di cui stiamo parlando sono troppo serie per indulgere a frasi a effetto, ma se un’eccezione è consentita, è questa: davvero, il rischio che si profila è quello di salvare l’aria, l’atmosfera, al prezzo di condannare l’acqua.

Prospetto 1

6. Adesso, forse, si comprende meglio la fallacia dell’operazione di ‘assolutizzare’ le questioni legate all’energia, quasi che la crisi ecologica coincida in tutto e per tutto con il Global Warming. Mettiamola così: non è un caso che non esista soltanto l’IPCC, l’ormai notissimo Intergovernamental Panel on Climate Change, ma anche l’IPBES, che significa Intergovernamental Platform on Biodiversity and Ecosystem Servicies; come non è un caso che dal 2007, all’interno dell’UNEP-United Nations Environment Programme, esista un gruppo denominato IRP-International Resource Panel. Per dire – certo, in modo allusivo – che ‘metà’ della crisi ecologica consiste di questioni diverse dall’effetto serra, riguardando piuttosto lo sfruttamento diretto degli ecosystem servicies e le sue conseguenze in termini di biodiversità, di qualità dei suoli e delle acque, di migrazioni di specie viventi che non dovrebbero avvenire (virus compresi), ecc.; e per ribadire che già oggi, al netto di qualsiasi necessità aggiuntiva connessa alla transizione energetica, il costante aumento del consumo di ‘risorse’ presenta profili di insostenibilità non meno gravi, né meno ostici, difficili da aggredire, della quantità di CO2 presente nell’atmosfera12. Con il nesso energia-materia a completare il quadro – nel segno, per non ripetere la metafora della pioggia che cade sul bagnato, del proverbiale rientro dalla finestra di un problema cacciato dalla porta. Talvolta, nella letteratura sulla transizione energetica, per segnalare la portata del cambiamento che serve, ci si compiace di utilizzare la metafora del leap frog, del salto della rana: bene, però bisogna stare attenti che la rana, per fuggire il caldo della padella, non salti nella brace.

D’altra parte, siccome tutto ciò non è certo detto per negare la necessità della transizione energetica, né per suggerirne un impianto diverso da quello che verte sul binomio elettrificazione-rinnovabili, è fin troppo chiaro che a questo punto si profila il rischio di un esito aporetico. E già a questo punto, però, si può forse intendere che la possibilità di evitarlo passa per una spregiudicata messa in questione del bench iniziale di tutto il ragionamento, costituito, si ricorderà, dal tasso di crescita del Pil ‘incorporato’ nei calcoli in materia di (consumo di) energia. Di preciso, si tratta di sbarazzarsi dell’assillo della crescita che visibilmente domina il discorso pubblico dell’economia, e che fin troppo chiaramente è riflesso nel modo di concepire la transizione energetica, per adottare piuttosto, nei confronti della crescita, un atteggiamento altamente riflessivo, in tutti i sensi che il termine può assumere – particolarmente, si capisce, nei paesi ricchi, per poco che si voglia applicare con coerenza il principio delle Common but Differentiated Responsabilities.

Insomma, si tratta proprio di non concepire la transizione energetica alla stregua di un driver della crescita – di sottrarre la transizione energetica alla presa della narrativa che verte sulla necessità di crescere. Tuttavia, prima di provare a stingere su questo punto, bisogna dire qualcosa dell’argomento lasciato in sospeso verso la fine del paragrafo 4.

7. A discutere di economia circolare, ci si trova in una posizione scomoda. Senza dubbio, l’argomento è di importanza cruciale: tutto quello che precede torna a dire che qualsiasi possibilità di ridurre le quantità dei materiali da estrarre ex novo dalla crosta della terra (o dal fondo dei mari…) va tenuta nella massima considerazione. Al tempo stesso, nel dibattito corrente, l’economia circolare è oggetto di un’enfasi davvero spropositata, ignara di troppe cose, o peggio, reticente nel comunicarle. Così, inevitabilmente, bisogna innanzi tutto assolvere a un compito (non grato) di demistificazione.

In primo luogo, va detto che le attività di riciclo non sono esenti da limiti strutturali, legati alle proprietà della materia: esse stesse, in effetti, richiedono l’impiego di energia e altra materia, talvolta in quantità non piccole (in qualche caso perfino superiori a quelle necessarie alle attività di estrazione o prima produzione di un composto).

I limiti appena accennati operano in modo altamente differenziato: più laschi nel caso dei materiali ‘comuni’ (alluminio, ferro, rame), risultano più stringenti proprio nel caso degli elementi chimici ‘specifici’, a più alto contenuto tecnologico, il cui recupero può effettivamente comportare oneri severi, soprattutto in termini energetici.

Contrariamente a quello che si è detto a proposito dell’elettrificazione, logica vuole che i principi dell’economia circolare possano dare il meglio di sé avanti nel tempo, non in fase di primo investimento. Vale a dire non presto, visto che le low carbon energy technologies utilizzano impianti che perlopiù fanno registrare una vita utile di 20-30 anni (e siamo già al 2050…).

Infine, almeno un cenno merita la circostanza che tanta enfasi sulla possibilità di allungare la vita utile dei materiali non è confortata da altrettanta attenzione nei riguardi della vita utile dei prodotti, la cui rapidissima obsolescenza (programmata o meno) costituisce in effetti una delle principali fonti di pressione sui planetary boundaries. E talvolta, per la verità, si ha l’impressione che l’insistenza sulle possibilità di riciclo finisca, essa stessa, per avallare il vorticoso avvicendamento di ogni tipo di device.

Detto questo, resta vero che l’economia circolare non manca di modificare il quadro in modo significativo. Appena più in particolare, formuliamo qui l’ipotesi che una rigorosa applicazione dei suoi principi consenta di affermare l’esistenza di qualche spazio di crescita (eco-compatibile) anche all’interno dei paesi ricchi, dove altrimenti sarebbe il caso di non prevederne alcuno. Soltanto, affinché questo accada, bisogna che l’economia circolare, lungi dal presumere troppo di se stessa, formi parte integrante, o meglio, sia messa a servizio dell’atteggiamento peculiarmente riflessivo che sotto ogni aspetto, abbiamo sostenuto, deve governare la ‘volontà di crescere’. Si tratta appunto della necessità di scrutare in ogni direzione le possibilità risparmiare entrambe, energia e materia, combinando opportunità di stampo tecnologico e ripensamenti delle forme e degli stili di consumo – e però di guardare alle variazioni del Pil come a un ‘sottoprodotto’, cioè una grandezza ‘seconda’, derivata, delle cose che sembrano buone e giuste, civili, ragionevoli. Il caso del trasporto discusso nell’Allegato 2 – ovvero la ‘critica’ delle auto elettriche, se così si può dire – costituisce probabilmente il migliore esempio di ciò di cui tratta.

8. Qualche spazio di crescita, abbiamo detto. L’espressione lascia intendere un valore contenuto, che non cercheremo, adesso, di tradurre in un numero preciso. Per farlo, servono mezzi di cui non disponiamo. Ma non per questo rinunceremo a una riflessione di carattere quali-quantitativo, destinata a rendere l’intero argomento un poco più stringente.

Sono molti, ormai, e di diverso orientamento, gli autori convinti che i paesi ricchi debbano mettere in conto a new normal, una nuova normalità, fatta di saggi di aumento del Pil decisamente inferiori al trend secolare del 2,5-3,0%13. In questa direzione, entro certi limiti, lavora anche la letteratura sulla Secular Stagnation citata nel paragrafo 1; tuttavia, rispetto al suo tenore, l’idea di una nuova normalità verte su dati di carattere più strutturale, meno accessibili a interventi di politica economica. In breve, per citare il termine ormai di moda, si tratta di headwinds, di ‘venti contrari’ alla crescita, destinati a spirare sulle economie occidentali in ragione del loro stesso grado di maturità. Questioni riguardanti la disponibilità delle risorse naturali, o altri vincoli ambientali, formano sempre parte dell’elenco, ma accanto ad altri argomenti di analoga importanza: vale a dire a questioni riguardanti la dinamica demografica, i livelli di partecipazione al lavoro, l’andamento della produttività14. Del resto, si ricordi quell’1,1% che nello scenario ‘low’ delle proiezioni EIA quantifica l’aumento del Pil all’interno dell’area OCSE: non è forse un segno del fatto che saggi di crescita convenzionalmente giudicati ‘bassi’ hanno ormai acquistato un certo carattere di ‘normalità possibile’, visto si tratta di proiezioni di qui al 2050?

Tutto questo per dire che soltanto in parte si tratta di volere risultati diversi da sviluppi che in certo modo stanno nelle cose. Sarebbe già molto se i paesi ricchi comprendessero la necessità di non inseguire un ideale della crescita che comunque ha fatto il proprio tempo, e il cui perseguimento è pertanto destinato generare disordine e squilibri, rappresentandosi piuttosto il compito di ‘organizzarsi’ per distribuire meglio le enormi ricchezze di cui già dispongono e per goderne in modo più alto e più civile15. E se poi, su un mood del genere, si innestassero riflessioni convenientemente severe circa i termini di una transizione energetica davvero sostenibile e circa le differentiated responsabilities che bisogna contemplare per ragioni di equità globale, il risultato nello ‘spazio’ del Pil non sarebbe lontano dal suddetto 1,1% – un po’ corretto verso il basso. Comunque, per concludere, qualunque valore sembri plausibile, il suo livello è meno importante del modo di determinarlo – vale a dire del principio, intriso appunto di riflessività, secondo il quale il ritmo di crescita dell’economia deve diventare materia disponibile al vaglio della critica, tanto per ragioni ecologiche quanto per altre ancora, che pure avremo modo di vedere quando ragioneremo del driver digitale.

Volendo, si tratta ancora del leap frog che la rana è chiamata a compiere, di quale sia sua portata: se esso debba avvenire all’interno del ‘programma fondamentale’ iscritto nelle strutture portanti del nostro ordinamento sociale ed economico, risolvendosi dunque in un diverso volto del capitalismo (per la verità destinato a una coloritura più metallica che verde); oppure se non sia proprio dal tenore di quel programma che bisogna saltar fuori.

9. Per tutt’altro aspetto, considerazioni abbastanza importanti si connettono a un argomento tanto poco attraente quanto gli stati di ammortamento degli impianti attualmente in funzione. In breve, per non mancare gli obiettivi di de-carbonizzazione al 2050, le nuove installazioni (pannelli solari, pale eoliche, motori elettrici, ecc.) devono sostituire quelle vecchie senza aspettare il termine dei loro cicli di vita. In parole povere, devono sostituirle quando ancora potrebbero funzionare per uno o più anni – il che, intuitivamente, non può essere cosa priva di effetti. Infatti non lo è. In termini economici standard,le perdite patrimoniali appena venute in discussione significano che l’uscita dai fossili è pagata al costo-opportunità di tutte le altre cose che si potrebbero fare con le risorse assorbite dalla sua realizzazione.

Né si tratta soltanto della sorte riservata alla vita degli impianti. Se dismetto un’auto a benzina che funziona ancora bene per sostituirla con un’auto elettrica, il mio livello di consumo, ceteris paribus, conosce un aumento, come aumenterebbe, poniamo, se usassi gli stessi soldi per pagarmi una lunga vacanza – ma non così il mio ‘benessere’, visto che quello che posso fare, l’insieme delle mie possibilità di ‘funzionamento’, resta invariato. In breve, sempre in termini economici standard, un’operazione come quella immaginata appartiene alla classe dei consumi ‘difensivi’, che non perdono questo carattere, di per sé ‘negativo’, poco esaltante, per il fatto di essere variamente doverosi, meritori o semplicemente inevitabili16.

Nei numeri, tutto questo non si vede perché i sistemi di contabilità nazionale mancano di registrare le variazioni degli stock di ricchezza (non soltanto di quelli naturali): ma che la cosa non si veda nei numeri non significa che non conti nelle cose, nella dinamica sociale. Tanto più che l’ipotesi di un benessere che non varia (a fronte di un consumo che cresce) è utile per fissare le idee, però in effetti bisogna complicarla. Fin qui abbiamo taciuto di una vistosa implicazione dell’impiego di quasi tutte le fonti rinnovabili, le quali non comportano soltanto il consumo di enormi quantità di materiali, bensì anche l’occupazione di determinate quantità di suolo, alle quali, ancora, si connettono determinati impatti paesaggistici (ben più ampi, si capisce, delle quantità di suolo direttamente occupate dagli impianti e dalle loro pertinenze). A tener conto di questo ordine di problemi, è chiaro che il quadro delle convenienze si può modificare: non è più, soltanto, che l’acqua calda o la luce elettrica prodotta per mezzo di un pannello solare restano pur sempre acqua calda e luce elettrica, e che invece di installare il pannello avrei potuto fare un viaggio; è anche che l’installazione del pannello può danneggiare la vista di cui godo dalla mia finestra.

Più che in altri casi, intorno alla questione del consumo di suolo e dei conseguenti impatti paesaggistici, è facile che sorgano contrasti. A partire dalla determinazione delle quantità di cui si tratta. Per esempio, secondo i risultati dell’esercizio 100% Clean and Renewable Wind, Water, and Sunlight All-Sector Energy di cui alla nota 5 (100%WWS), che ha il merito della completezza ma ha prestato il fianco a critiche durissime, il 2% del territorio italiano sarebbe sufficiente a fronteggiare tutte le necessità del Paese; secondo altre fonti il fabbisogno sarebbe assai maggiore; altre ancora, che però presentano pesanti limiti ‘tematici’, suggeriscono la possibilità di quantità minori17. Controverso è anche il termine di confronto che ha senso prendere in considerazione: l’intero territorio di un Paese oppure, come sembra ragionevole, una sua qualche parte ‘disponibile’? E quali criteri, però, adottare per stabilire quali parti di un territorio possono dirsi ‘disponibili’? Infine, ovviamente: quale peso accordare agli obiettivi di difesa del paesaggio (ma neppure è detto che si tratti solo di questo) rispetto all’insieme di quelli con i quali essi entrano in contrasto?

Indipendentemente dalle risposte che si vogliano dare, è chiaro che domande del genere stanno nelle cose (più che legittime, sono proprio inevitabili) e però formano parte integrante delle condizioni di consenso sulle quali la transizione energetica può contare. Il che, a sua volta, ha implicazioni profonde sul regime di regolazione sociale del quale essa ha bisogno. In breve: come richiede lo sviluppo di un’attitudine altamente riflessiva nei confronti dell’istanza di ‘crescere’, così, date le sue inevitabili proiezioni territoriali, la sua inevitabile ‘visibilità’ territoriale, l’uscita dai fossili grazie alle rinnovabili ha bisogno di assetti istituzionali – procedure, pratiche, esperienze – di tipo altamente partecipativo. Diversamente, i costi-opportunità che comunque implica colpiranno la società alle spalle, in modo incontrollato, dando luogo a situazioni conflittuali comunque destinate a esiti nefasti: vuoi a sviluppi più o meno apertamente repressivi (vale a dire a una qualche combinazione di mercato e autoritarismo); vuoi al risultato che della transizione energetica, alla fine, si faccia poco e niente, comunque meno del necessario, che in effetti è tantissimo.

10. Qualche valutazione di sintesi per concludere il discorso. La domanda iniziale verteva sulla plausibilità di una nuova stagione della crescita trainata dalla diffusione delle low carbon energy technologies. Il primo elemento di risposta che emerge dalle cose dette è che la transizione energetica, per poco che voglia restare fedele alle ragioni dell’ecologia, ha veramente poco in comune con il modo in cui il capitalismo, in tempi più o meno lontani, ci ha abituato a concepire il darsi di una fase espansiva – per non tornare troppo indietro, pensiamo al tumultuoso aumento dei consumi nel corso della Golden Age, o anche ai ‘ruggenti anni 90’ del secolo scorso, quando le ITC hanno cominciato a dispensare i propri frutti a scala popolare. L’immagine che sembra appropriata è piuttosto quella di un’economia che torna sui suoi passi, ripensa il modo di fare le cose, sottopone al vaglio della critica la stessa necessità di crescere. Appunto, più o meno il contrario dell’assillo espansivo – iscritto nell’insaziabile bisogno di valorizzazione del valore – che domina il capitalismo dal giorno in cui è venuto al modo.

Il riferimento alla Golden Age suggerisce però anche un diverso ordine di considerazioni. Tenuto conto delle cose dette sotto il titolo ‘consumi difensivi’, che naturalmente valgono anche per gli investimenti, in termini di mancato aumento della capacità produttiva, è difficile immaginare che la transizione energetica possa avvenire in un clima sociale analogo a quello dei primi decenni del secondo dopoguerra, quando il tumultuoso aumento dei consumi concretava appunto – a tutti gli effetti, nella percezione di milioni e milioni di famiglie – un inedito aumento del benessere (e benessere significava l’arrivo dell’acqua corrente nelle case…). Il capitalismo, in quella fase, ha dato il meglio di sé, mostrando un volto che a buon diritto può dirsi ‘democratico’ (almeno nel senso che è risultato compatibile con l’allargamento del quadro democratico). Ma il meglio di sé, appunto, l’ha già dato. Oggi, una fase di crescita trainata dall’impossessamento capitalistico delle low carbon energy technologies non è impossibile – ma oltre a tradursi in nuove e serissime violazioni dei planetary boundaries, non avrebbe comunque la ‘popolarità’ che non è mancata alla società opulenta, per quante critiche merito tanti dei suoi frutti18.

Difficilmente, del resto, potrebbe essere altrimenti. Per un aspetto essenziale, l’affrontamento della crisi ecologica significa rimediare a danni (disastri) prodotti nel passato. Significa ‘riparare’. Pensare che questo possa avvenire gratis – senza essere in alcun modo chiamati a rispondere del fatto di avere devasto il mondo in cui viviamo, come possiamo appunto interpretare i suddetti costi-opportunità – è una gravissima (e in verità evidente) mistificazione. Argomento, si capisce, che non è messo in chiaro con l’intenzione di crogiolarsi nei sensi di colpa, ma perché mancare di riconoscerlo significa insistere pervicacemente nel reato, appunto reiterarlo, sia pure in forme diverse da quelle del passato.

11. Detto questo, non è il caso che il discorso finisca con una nota negativa. A dispetto di ogni difficoltà – e certamente le questioni legate all’energia non sono le più facili – l’affrontamento della crisi ecologica è una cosa bellissima. E a conforto di questa convinzione, per concludere, due degli argomenti proposti in quello che precede si prestano a essere come intensificati, portati un passo avanti.

Il primo è ancora il grado di riflessività del quale vi è bisogno quando si tratta della crescita. Al fondo, la sua acquisizione dipende proprio dal tipo di cambiamenti – profondi, di identità – ai quali abbiamo già accennato. Appena più in particolare, si tratta di una diversa ‘intuizione’ del mondo in cui viviamo, incentrata sulla percezione di una fondamentale co-appartenenza degli esseri umani e del loro ambiente, piuttosto che su quella di una fondamentale estraneità reciproca, premessa di dominio. Sul senso di un’‘alleanza’, si potrebbe anche dire – per aggiungere che l’instaurazione un simile rapporto significherebbe di per sé il darsi di un acquisto netto, di un bene nuovo e preziosissimo. Da questo punto di vista, l’idea di un’attività riparativa non deve condurre fuori strada, perché proprio la riparazione, nel nostro caso, può dirsi generativa di una condizione inedita – di una diversa intelligenza e di un diverso sentimento di ciò che viene salvato dal degrado o dalla distruzione. Così, come una salute ritrovata possiede una sua speciale bellezza, della quale non vogliamo dire che sia maggiore di quella di una salute mai perduta, ma certamente vale moltissimo, forse potremmo anche parlare di un ‘ambiente ritrovato’ – e lasciare che l’espressione evochi motivi di maturità e al tempo stesso, come ci sembra possibile, di originalità e freschezza.

A tutto ciò, l’espressione ‘transizione ecologica’ va senz’altro stretta. ‘Transizione energetica’ va bene, nello stesso senso in cui, per esempio, si parla di transizione demografica o di transizione epidemiologica. Ma in quanto la crisi ecologica sia affissata e affrontata in tutta la sua ampiezza, il termine diventa davvero insoddisfacente – e può anche venire in mente che si debba piuttosto parlare di una ‘conversione ecologica’19.

Per tornare all’energia, vale la pena di osservare che la possibilità e la necessità di un profilo dei consumi finali convenientemente misurato, riflessivo, ricordano da vicino la possibilità e la necessità di sottrarre la quantità delle calorie assunte con il cibo agli esiti di un rapporto compulsivo con quest’ultimo – tanto significativamente, oggi, diffuso soprattutto presso i poveri. Appunto una questione di ‘metabolismo’, che d’altra parte, più che agli individui, bisogna riferire al sistema economico-sociale: difficilmente un mutamento dei profili di consumo all’insegna di un diverso senso del limite potrà essere conseguito senza mettere in discussione le istanze di massimizzazione iscritte nella prevaricazione esercitata dal mercato nei confronti di tutti gli altri tipi di rapporto, a sua volta frutto del dominio che gli interessi di stampo capitalistico esercitano sull’intera realtà economica e sociale. Il che introduce al secondo argomento che può essere portato un passo avanti.

In effetti, la necessità di assetti istituzionali di tipo partecipativo si presta a un’interpretazione ‘progressiva’, del genere che in giurisprudenza si dice ‘evolutiva’: partecipazione, cioè, non soltanto come coinvolgimento delle collettività interessate all’interno dei processi decisionali, in una logica negoziale, o anche come loro coinvolgimento in forme di democrazia ‘deliberativa’ (che comunque, si capisce, non sarebbe poco); ma come messa in opera di assetti produttivi che potremmo definire community based, all’interno dei quali le collettività assumano la veste di soggetti in grado di governare in proprio la formazione e la soddisfazione dei bisogni di energia che le riguardano.

Un’ipotesi del genere può anche trovare una sponda nel quadro normativo europeo, visto che l’articolo 22 della Direttiva del parlamento e del consiglio dell’11 dicembre 2018 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili (già recepita dal governo italiano) è intitolato appunto alla figura delle “Comunità di energia rinnovabile”. In breve, si tratta di immaginare soluzioni locali, decentrate, consentite dalla tecnologia delle fonti rinnovabili, che le rende potenzialmente efficienti, e però destinate a diffondersi soltanto se volute ‘politicamente’, come forme sociali (Marx) appropriate alla natura del bisogno di cui si fa questione. Da esse, ci sembra, è lecito aspettarsi una rottura radicale con la logica massimizzante (nei riguardi della produzione e dei consumi), e dunque tipicamente ‘estrattiva’ (nei riguardi dei sistemi naturali), che appartiene al cuore del capitalismo. E la loro formazione, però, può essere letta come un terreno di iniziativa dotato di molteplici motivi di interesse – sul quale, possibilmente, ridare fiato a qualche ‘lotta’, in chiave costruttiva, di innovazione sociale e crescita civile.

Note

1 Cfr. L. Summers, U.S. Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound, Business Economics, Vol. 49, No. 2, 2014. Vari interventi nel dibattito sono raccolti in C. Teuling e R. Baldwin (ed.), Secular Stagnation: Facts, Causes, and Cures, CEPR Press, Londra, 2014.

2 Cioè dalla crisi del 2001, puntualmente richiamata da Summers nel testo già citato. Volendo, però, si potrebbe risalire più indietro, alla brusca riduzione del tasso di crescita della produttività intervenuta nei primi anni ’70 del secolo scorso e alle caratteristiche della intensa ma breve fase espansiva dei tardi anni ’90. Torneremo sull’argomento quando ci occuperemo delle prospettive di crescita legate al corso della rivoluzione digitale. L’espressione rescue narratives è tratta da T. Jackson, The Post-Growth Challenge: Secular Stagnation, Inequality and the Limits to Growth, CUSP Working Paper No 12, Guildford: University of Surrey, 2018. Online su: www.cusp.ac.uk/publications.

3 Che essenzialmente, in effetti, dipende dal modo in cui oggi, rectius da 200 anni a questa parte, provvediamo ai nostri bisogni di energia.

4 Tale, per esempio, la logica adottata nello Special Report IEA, Net Zero by 2050. A Roadmap for the Global Energy Sector, Francia, maggio 2021 (https://www.iea.org/reports/net-zero-by-2050), dove comunque si prevede che il mix energetico mondiale comprenda ancora una quota di energia nucleare dell’11%. Altri esercizi sono più radicali, escludendo senza eccezioni qualsiasi fonte diversa dalle renewables: cfr. per esempio Jacobson et al, 100% Clean and Renewable Wind, Water, and Sunlight All-Sector Energy Roadmaps for 139 Countries of the World, 1 luglio, 108–121, 6 settembre, 2017 (d’ora in poi 100% WWS).

5 I due, del resto, presentano anche molteplici connessioni di tipo funzionale.

6 Naturalmente, non si tratterà mai di una assolutizzazione dichiarata, esplicita. Piuttosto, quello che accade, ed è sufficiente a generare esiti perversi, è che la necessità di ‘abbandonare i fossili’ sia di fatto mandata avanti a qualsiasi altra.

7 Nel paragrafo 10 e alla fine dell’Allegato 1.

8 Cfr. Nota 5.

9 U.S. Energy Information Administration, International Energy Outlook 2019 with projections to 2050, U.S. Department of Energy, Washington DC, settembre 2019, p.15. (https://www.eia.gov/ieo).

10 Vale la pena di segnalare che le valutazioni fanno riferimento allo scenario contenuto in IEA, Energy Technology Perspectives 2017, Parigi, 2017, che prevede una strategia di decarbonizzazione meno esigente di quella contemplata nello scenario “Net Zero Emissions by 2050” dell’Outlook più recente.

11 Su questo punto, di cruciale importanza, cfr. UNEP (2017) Resource Efficiency: Potential and Economic Implications. A report of the International Resource Panel. Ekins, P., Hughes, N., et al., soprattutto, p. 287 e sgg..

12 Cfr. nota precedente.

13 In questo senso – e in ordine di radicalità crescente, per così dire – si possono citare Robert Gordon (Is U.S. economic growth over? Faltering innovation confronts the six headwinds, National Bureau of Economic Research, Working Paper 18315, Cambridge, MA, August 2012, http://www.nber.org/papers/w18315; The demise of U.S. economic growth: restatement, rebuttal, and reflections, National Bureau of Economic Research, Working Paper 19895, Cambridge, MA, February 2014, http://www.nber.org/papers/w 19895), James Galbraith (Can Trump deliver up growth?, Dissent Magazine, Spring 2017) e Tim Jackson (cfr. nota 3).

14 Torneremo su questi aspetti quando discuteremo delle innovazioni tecnologiche di matrice digitale.

15 Giusto il monito secondo il quale “a failed growth economy and a steady-state economy are not the same thing; they are the very different alternatives we face”. Così suona il titolo di un intervento presentato da H. Daly alla Sustainable Development Commission, UK, nell’aprile del 2008, ricchissimo di indicazioni condivisibili anche da parte di chi non accetti alla lettera, senza riserve, l’idea di una steady-state economy.

16 Ci sentiamo di dire che questo argomento è largamente sottovalutato. Un’eccezione notevole nel testo di Galbraith citato in nota 14: “Solar is indefinitely sustainable. But for this to help with global warming, we must also forego coal and oil options and accept a diversion of resources away from consumption and toward the investments in renewable energy that are required. In this case, growth and the material living standards we can support under sustainable energy will be lower, and this will be experienced by the population as less (immediate) prosperity than they would have otherwise had”.

17 Una rapida ricostruzione delle critiche a 100%WWS in https://www.econopoly.ilsole24ore.com/ 2021/07/09/transizione-ecologica-italia/; per un esempio di valutazioni poco ottimistiche si veda Iñigo Capellán-Pérez, Carlos de Castro e Iñaki Arto, Assessing vulnerabilities and limits in the transition to renewable energies: Land requirements under 100% solar energy scenarios, in “Renewable and Sustainable Energy Reviews”, settembre 2017; un chiaro esempio della tendenza a enfatizzare il contenuto di possibilità parziali è M. Mazzer e D. Moser, How solar energy could power Italy without using more land, Nature Italy, aprile 2021 (https://www.nature.com/articles/d43978-021-00048-z).

18 Per finire di descrivere il regime di regolazione del capitalismo nell’età della transizione energetica bisognerebbe aggiungere l’esame delle questioni legate alla dislocazione geografica delle risorse destinate ad assumere valore strategico, dal rame alle terre rare, e dei rapporti tra governi e imprese più o meno congeniali al loro sfruttamento. Lo diciamo ‘per memoria’, in vista di futuri lavori.

19 Come nel corso del già citato convegno Rileggere il Capitale (cfr. nota 1) ha suggerito Elena Gagliasso, Un suo testo – E. Gagliasso, Per un’epistemologia critica e autocritica, in E. Gagliasso, M. Della Rocca, R. Memoli (a cura di), Per una scienza critica. Marcello Cini e il presente: filosofia, storia, politiche della ricerca, p. 129, Edizioni ETS, Pisa, 2015 – ci ha anche fornito la prima sollecitazione a valorizzare il concetto di ‘riparazione’.

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