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Populismo penale

“In galera, gettate la chiave, fateli marcire in cella”. Il piacere della gogna e del supplizio aizzato da schiumanti ministri contro gli esuli politici dagli anni Settanta, capitane delle navi delle Ong o migranti sopravvissuti ai naufragi e ai lager in Libia, è l’espressione del populismo penale. L’uso demagogico e punitivo del diritto oggi trasforma i dissenzienti, e non solo i responsabili di un reato, in criminali, nemici dell’umanità, colpevoli di condotte contrarie al volere del potere, indipendentemente dal fatto che le sue leggi rispettino i diritti fondamentali delle persone.

L’idea di sicurezza collegata al diritto penale è il ponte che mette d’accordo da alcuni decenni tutte le forze politiche. Che sia l’amministrazione di un Comune o quella di una Regione, come quella dello Stato, l’impianto di governo è il medesimo. Leggi speciali, regolamenti di polizia urbana, decreti sicurezza (rivisitati o meno) viaggiano di pari passo con uno sviluppo delle città incentrato sul controllo coattivo ed escludente della povertà, del non gradito dai piani di estrazione del valore del capitale.

Nonostante le statistiche sulla criminalità descrivano nel complesso una diminuzione costante dei reati nell’ultimo decennio1 (escludendo i reati ricadenti nel campo della violenza di genere), la percezione di insicurezza e paura – alimentate da politica e media – genera consenso verso chi si propone come giustiziere. Ma non è la morte della politica, come qualcuno sostiene, bensì la proliferazione della politica panpenalista: è una giustizia emotiva amministrata per soddisfare gli umori del popolo. Il populismo penale ha la sua forza principale, oltre che nella paura, nella carica emotiva che può vantare verso l’opinione pubblica attraverso la strumentalizzazione delle vittime.

Individuo colonizzato

Gli strumenti governamentali applicati negli ultimi decenni, uniti a un processo di continuo impoverimento del pensiero critico in ambito scolastico-accademico e sociale, hanno contribuito alla creazione dell’“individuo colonizzato”. Acritico, sganciato dal corpo sociale, dal territorio (sempre più non luogo), consumatore, esso è il depositario/protagonista del populismo penale. La campagna mediatica e culturale del legalitarismo e della delega continua, la spettacolarizzazione del reale e le riforme distruttrici dei saperi hanno, in larga parte, contribuito alla creazione di questo soggetto sociale. Esso ingloba e interiorizza la non appartenenza, o l’appartenenza adattiva standardizzata, la paura, la rabbia piena di livore e svuotata del conflitto, l’assenza di riconoscimento e condivisione. Che si tratti di distruzione del welfare, di assenza di sanità pubblica e di servizi, licenziamenti, inquinamento ambientale o infortuni sul lavoro, l’individuo colonizzato, vive e affronta i fenomeni e le problematiche con le modalità tipiche del consumatore. Il cambiamento non è politico, ma antropologico, potrebbe dire Mario Tronti nell’argomentare la crisi del modello homo democraticus e il passaggio verso il modello depoliticizzato homo oeconomicus.

Grande Inquisitore

La storia del populismo penale nel nostro paese è relativamente breve. Infatti, è con la fine degli anni ’80 che cresce, si afferma e infine trionfa. È in quel periodo che, da iniziale sentimento di rivalsa, inizia poi a trovare i suoi obiettivi e bersagli, i suoi leader e la sua capacità di mobilitazione di massa. Possiamo definirlo come un “populismo dell’invidia sociale”, che sostituisce la lotta di classe nel superamento delle contraddizioni, e diventa appoggio alla macchina giudiziaria innescatasi poi intorno alle inchieste giudiziarie di Tangentopoli. È la fase della creazione della “piazza virtuale” nel suo duplice senso di canale di rappresentazione immediata della crisi sociale e di processo pubblico mediatico alle élite. Una sinergia perversa tra partiti politici, stampa e opinione pubblica sostenitori di questa “rivoluzione giudiziaria”, che ha permesso di ridurre ad eresia tutte quelle posizioni critiche, anche all’interno dei grandi partiti, consolidando l’idea che la giustizia penale fosse l’unica soluzione ai mali della democrazia. Si formarono movimenti collettivi che allargarono la base di consenso del populismo penale. Organizzazioni come la Rete e l’Italia dei Valori al cui interno si ritrovarono tutti (magistrati, opinionisti, giornalisti, militanti politici) alimenteranno la cultura giustizialista e il populismo penale attraverserà la vita politica, condizionando le scelte dei governi, darà vita a nuove organizzazioni politiche (M5S).

È in questo contesto che nasce la figura del Grande Inquisitore in funzione di contro-potere, rafforzata dall’atteggiamento delle forze politiche che individuarono nella magistratura un alleato nel processo di moralizzazione del paese. L’inchiesta “Mani Pulite” non ha rafforzato solo la cultura giustizialista (con la spettacolarizzazione degli arresti e l’abuso della custodia cautelare), ma anche l’offerta populista. Da quel momento, la sicurezza diventa uno slogan universale, “né di destra, né di sinistra”, un mantra rinnovato a ogni campagna elettorale. Dal 1994 in poi quasi ogni governo ha introdotto inasprimenti di pena e nuovi reati per alcuni fenomeni sociali, mentre ha alleggerito procedimenti e pene per quelli societari e datoriali. Una trasformazione del giustizialismo da corrente di opinione e comunicazione mediatica in campo politico a fenomeno in grado di esercitare un’egemonia culturale. Uno stato d’ansia diffuso che ha fatto chiedere a gran voce misure eccezionali per far fronte alla situazione. Ad esempio, la notizia di due o tre sbarchi di barconi carichi di migranti in una sola settimana, danno la stura ai media per generare una campagna di allarme in nome dell’invasione. La descrizione della situazione in termini di emergenza e fuori controllo ottiene una richiesta di sicurezza. L’intervento politico riconosce la gravità della situazione e assume solennemente l’impegno ad affrontare il problema. Nasce così la retorica del “fare qualcosa al più presto”, legittimando l’eccezionalità e l’emergenzialismo.

L’emergenza

L’emergenza, quindi, non è altro che una costruzione sociale, la produzione di panico per determinare un’intensificazione del controllo sociale e un ulteriore legittimazione del potere costituito e delle istituzioni del controllo.

L’emergenza (e la paura che la legittima) si costruisce sui nemici, o meglio sulla rappresentazione di determinati soggetti come “nemici pubblici”. Proprio in tal senso, sono finiti in questo mirino i migranti, i marginali, i tossicodipendenti, gli ultras, i no tav, i poveri, i senzatetto, i mendicanti, i lavavetri, i malati psichici. Questo specifico strato sociale, stigmatizzato come disturbo a livello percettivo-mediatico, è stato quindi criminalizzato a colpi di leggi speciali, misure cautelari (fogli di via, obblighi di dimora, sorveglianza speciale) decreti-sicurezza, di polizie municipali e di “daspo urbani”. Dal florilegio di ordinanze dei sindaci, nella metà degli anni Novanta, si è giunti così alle più recenti norme Minniti-Orlando e ai decreti Salvini e Lamorgese. Inoltre, da più di 10 anni assistiamo a un abuso della decretazione d’urgenza in tema di “pubblica sicurezza”. Ben 4 ministri (Maroni, Minniti, Salvini, Lamorgese) hanno impropriamente utilizzato la formula del decreto-legge per introdurre all’interno del nostro ordinamento norme finalizzate a sacrificare in nome del “decoro” della “sicurezza” e “dell’ordine pubblico” principi costituzionali, comportando una preoccupante flessibilizzazione dei diritti fondamentali.

Oppio Giustizialista

Quest’oppio giustizialista ha contaminato anche buona parte delle culture della sinistra, mutandone profondamente l’universo simbolico. Alla costruzione d’ideali carichi di prospettive e speranze si è opposto il culto della vendetta e la furiosa libidine dell’azione penale. L’ideologia giudiziaria è apparsa come una risposta al disincanto di un mondo ormai percepito come decaduto e corrotto. Abbandonando i luoghi di lavoro, i quartieri periferici e le piazze la sinistra si è arruolata a piene mani nel Partito delle Procure, e chi ha continuato ad agire fuori da questo schema, come soggetto di trasformazione sociale è stato criminalizzato e classificato come pericoloso “nemico pubblico”. Il ricorso sfrenato alle scorciatoie giudiziarie ha cristallizzato umori forcaioli e reazionari. Il conseguente abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche e il rafforzamento dei pregiudizi culturali nei confronti di specifiche categorie sociali hanno indubbiamente danneggiato le classi più deboli, che storicamente possiedono minori mezzi e strumenti di difesa. Ciò ha generato un aumento della popolazione carceraria e ha contribuito a edificare una legislazione sempre più minacciosa, soprattutto per le fasce sociali più deboli.

Pensiero critico e appartenenza

L’impoverimento del pensiero critico e di appartenenza, sostituito da opinioni, il non riconoscersi nel pari condizione, impediscono l’identificazione del nemico e precludono la comunanza di interessi con il proprio gruppo sociale, garantendo così l’attivazione di processi psicologici e sociali appartenenti alla sfera del marketing. Fidelizzazione, delega e alienazione dall’esistente sono i principali sottoprocessi che investono questo soggetto sociale contemporaneo. Esso è vittima e carnefice di sé stesso e dei propri simili, è incapace di leggere la realtà che lo circonda, adottando i giusti filtri di lettura di fronte ai processi trasformativi in atto. In tal modo, spesso si fa complice di quei dispositivi utili ai processi di trasformazione e distruzione degli spazi di vita collettivi, messi in atto dalle politiche neoliberiste. L’utilizzo crescente del Codice penale e dei dispositivi giuridico-amministrativi per reprimere il dissenso, stanno contribuendo alla creazione di una percezione del reale consolidata, identificabile con lo stesso processo che impoverisce e depriva. Sotto altri aspetti, tali dispositivi, creano i presupposti per sigillare questi processi di trasformazione del territorio e della vita sociale dentro la cassaforte degli interessi del capitale.

L’individuo diventa una riproduzione in piccola scala del modello di sviluppo contemporaneo. All’interno di uno squilibrio disfunzionale tra territori economicamente differenti esso diventa “l’abitante modello” a seconda della tipologia di territorio in cui si trova a vivere, incagliato all’interno di processi economici, urbanistici esso è invitato alla “resilienza” (parola da distruggere e rinviare al campo di pertinenza, quello dei materiali!). Illudendosi e vivendo con una logica inconscia di autosufficienza e separato dal suo corpo sociale di appartenenza, o se ci piace di più, dalla sua classe sociale, sviluppa una percezione incapace di mettere in discussione fenomeni, problematiche sia complessi che più prossimali, restando al tempo stesso, spettatore distante da ciò che gli accade intorno e consumatore dello spettacolo della colpa e della pena. Aumento dei prezzi, caro affitti, mancanza di servizi e infrastrutture, tasse inique, perdita del potere d’acquisto salariale, e qualsiasi aspetto economico e sociale che investe il proprio gruppo sociale, generano una reazione istintiva, fatta di lamento rabbioso momentaneo, che cede subito il posto al sospetto nei confronti di quelle poche soggettività che osano opporsi, o a quei gruppi poco graditi alla produttività diffusa. Una trappola che si autoalimenta, perché vista con gli occhi sganciati dai bisogni diretti. È l’alienazione sociale.

Istituzioni penitenziarie e controllo sociale

Assieme allo smantellamento progressivo del welfare state abbiamo assistito a un intervento sempre più massiccio dello Stato nella gestione della sicurezza pubblica. In poche parole, lo Stato neoliberista si sottrae dall’ottemperare ai suoi compiti nei confronti della “res publica” per liberare da lacci e laccioli l’indole più selvaggia del mercato, affinché sia possibile l’espandersi dei dispositivi penali per gestire le conseguenze sociali generate dalla disfunzionalità del mercato. A partire da questa situazione, emerge una nuova moralità pubblica, riflessa nelle logiche della punizione e dell’incarcerazione, che vede i gruppi meno abbienti come soggetti falliti nei loro progetti personali, individui parassitari e pericolosi per la coesione pubblica.

Dentro questo tracciato, lo Stato neoliberista esonera sé stesso dalle responsabilità di non aver saputo contenere la galoppante ineguaglianza socio-economica, poiché è la punizione dei poveri che diventa autentica “politica sociale”. Nelle prigioni si moltiplicano le “vite di scarto” escluse dal magico mondo del mercato. L’imperativo assoluto è far scomparire dagli occhi del cittadino-consumatore quelle marginalità che si potrebbero incontrare nello spazio pubblico, nelle strade e nelle piazze.

Così l’uso delle istituzioni penitenziarie e del controllo sociale coattivo, come l’uso dei dispositivi amministrativi, compensano la fragilità dello Stato sociale e contribuiscono allo sviluppo dei processi di gentrificazione, di espulsione dai centri storici e cittadini di tutta quella schiera di non graditi per gli standard economico sociali della pianificazione neoliberista.

Nelle periferie metropolitane e rurali, l’assenza o forse l’incapacità temporale di organizzazione rispetto ai mutamenti di forze politiche antagoniste aumentano il vuoto per chi affonda nella solitudine della povertà e dell’abbandono. I quartieri mutano e vengono risucchiati in nuove trasformazioni urbane, la distanza casa lavoro (per chi ce l’ha) aumenta, i territori delle province vivono uno stato di abbandono in netto aumento sia in termini economici che di servizi. Ma qualcosa forse in silenzio si muove. Nonostante il senso di abbandono materiale, le trasformazioni che ci investono, la nascita di nuove e future azioni spontanee di riappropriazione oggi imprevedibili, nasceranno, perché l’atmosfera sociale è irrespirabile. Saremo in grado di spingerle con la complicità necessaria del conflitto?

Note

1 https://www.adnkronos.com/delitti-e-reati-i-numeri-indicano-un-calo-costante-negli-ultimi-tre-anni-pre-pandemia_3TRJj2BX5yHhAC7H7qM9VR;
http://www.ristretti.it/commenti/2021/gennaio/pdf5/rapporto_istat.pdf

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