Democrazia, Politica, Temi, Interventi

Siamo di fronte a un bivio come paese e purtroppo una volta intrapresa la strada della c.d. autonomia differenziata, consentita dal terzo comma dell’art. 116 della Costituzione tutto suggerisce che sarà pressoché impossibile tornare sui nostri passi. Impediranno di tornare indietro ragioni non solo giuridiche, ma di ordine politico-costituzionale che dovrebbero allarmarci sulla possibilità stessa di risolvere tramite il diritto conflitti che nel tempo potrebbero esacerbarsi al punto da non essere più componibili giuridicamente.

Sì, sono allarmata, non solo inquieta guardando agli scenari futuri di lungo periodo. La devoluzione in massa di tutte le materie, cui rinvia il terzo comma dell’art. 116, significherebbe per singole Regioni sopprimere la competenza concorrente, configurando una Regione che legifera e amministra a titolo esclusivo un numero di materie maggiore (23) di quelle che, sempre a titolo esclusivo, resterebbero allo Stato (14). Al di là dei numeri, tale ipotesi restituisce anche plasticamente l’idea del rifiuto di ogni forma d’interdipendenza, di collaborazione e sinergia tra Regione e Stato: se la competenza legislativa concorrente rispecchia relazioni istituzionali, per quanto conflittuali, di convergenza verso l’unità e l’integrazione, quella esclusiva è in qualche modo autoreferenziale e spinge nel lungo periodo nella direzione della separazione degli interessi, sordi alle esigenze dell’interesse nazionale. Viceversa, l’interesse nazionale si nutre di politiche pubbliche complesse difficilmente scomponibili in singole materie, attribuibili a titolo esclusivo a un ente o all’altro.

È facilmente prevedibile, inoltre, che lo Stato si pentirà in futuro di aver acconsentito a tale significativa perdita di ambiti d’incidenza e rivendicherà con determinazione l’interpretazione più ampia possibile di ogni sua restante competenza, come già è avvenuto in seguito alla revisione del 2001. Si determinerà, quindi, un riacuirsi della conflittualità di fronte alla Corte costituzionale proprio quando i giudizi in via diretta tra Stato e Regioni erano finalmente diminuiti.

In questo scenario temo che potrebbe non essere più sufficiente affogare la Corte costituzionale con il contenzioso Stato-Regione. Il mio allarme nasce dalla considerazione che, dopo anni di perseguimento nel mero interesse regionale, scisso se non contrapposto a quello nazionale, difficilmente esisterà ancora un barlume di responsabilità verso quel processo di integrazione nazionale che, lungi dal poter essere dato una volta per tutte, necessita di essere permanentemente alimentato.

Il dibattito pubblico dedicato alle«ulteriori forme e condizioni particolari» di autonomia consentite dal terzo comma dell’art. 116 Cost. risente, quindi, di un grave travisamento dell’idea costituzionale di autonomia, confusa con e sovrapposta all’indipendenza, alla separatezza, all’autosufficienza dal resto della Nazione, invece di venire correttamente intesa come autogoverno nella consapevolezza dell’interdipendenza tra gli enti della Repubblica nel suo insieme.

Il nostro principio autonomistico proclamato nell’art. 5 della Costituzione, infatti, con le sue fondamentali «esigenze dell’autonomia» che devono essere motore dal basso del processo di unificazione nazionale, va letto alla luce dei principi fondamentali che lo anticipano, con particolare riferimento al principio personalista ex art. 2 e al principio di eguaglianza di cui all’art. 3.

Gli obiettivi ultimi del principio di eguaglianza sostanziale – il pieno sviluppo della personalità di ciascuno e l’effettiva partecipazione di tutti alla vita economica, politica e sociale del paese – sono il collante che consente alla Repubblica di essere una e restare indivisibile, di rendere permanente il processo di unificazione nazionale tramite la lotta alle diseguaglianze tra persone, tra gruppi e tra territori. Come? Garantendo i diritti inviolabili alla persona in quanto tale, a prescindere dalla sua residenza, ed esigendo quei doveri di solidarietà politica, sociale ed economica che impongono di percepire ed esercitare la propria autonomia nella consapevolezza dell’interdipendenza che lega gli uni agli altri/e. In questa ottica l’autonomia e le autonomie territoriali sono un modo, uno strumento, una forma per perseguire un permanente processo di integrazione nazionale territoriale e interpersonale.

Il terzo comma dell’art. 116 certamente è una forma prevista in Costituzione, ma la Parte II della Costituzione deve essere interpretata alla luce dei principi fondamentali che ho richiamato, al fine di contribuire alla garanzia dell’esercizio dei doveri inderogabili di solidarietà che sono imprescindibili per assicurare i diritti inviolabili della persona, come singolo ma anche nella formazione sociali ove si svolge la sua personalità, tra cui le autonomie territoriali. Queste inoltre, sono già oggi in gran parte responsabili di quei diritti sociali che la Costituzione dichiara inviolabili proprio sulla base del nostro principio di eguaglianza, di natura sostanziale. Qualunque forma di autonomia differenziata quindi è legittima soltanto nella misura in cui si dimostri parte della lotta alle diseguaglianze e non strumento moltiplicatore di queste.

Ora, questa norma è stata inserita in Costituzione nel 2001 quando, in un momento di spensieratezza, si è voluto ritenere superata la questione meridionale, eliminando dal Titolo V ogni riferimento al Mezzogiorno rispetto all’unità nazionale. Oggi, nel 2023, sappiamo che vent’anni di regionalismo competitivo in un contesto di pesante smantellamento dello Stato sociale e di privatizzazione dell’intervento pubblico, nonché di iniqua distribuzione territoriale delle risorse e dei servizi, ha enormemente aumentato le diseguaglianze territoriali e interpersonali. Questo divario si è ampliato al punto addirittura da determinare una netta ripresa di migrazioni interne al Paese dal Sud verso il Nord, con ulteriore e progressivo impoverimento socio-economico-demografico delle aree più in difficoltà.

A queste migrazioni unidirezionali per di più molte regioni del Nord hanno risposto con illegittime restrizioni all’accesso ai servizi e alle prestazioni da parte nei nuovi residenti, subordinandolo a una residenza pluriennale sul territorio regionale. Da quando la Corte costituzionale ha cominciato a condannare questa illegittima selezione dei destinatari delle politiche sociali, in queste stesse regioni è diventata sempre più insistente la rivendicazione di mantenere sul proprio territorio la “ricchezza lì prodotta”. L’idea di fondo è la stessa: il criterio della territorialità regionale del gettito, così come il criterio della residenza prolungata nella Regione per accedere ai servizi pubblici, esprime l’idea “prima noi corregionali, poi gli altri”, in chiara violazione del principio di uguaglianza tra le persone a prescindere da dove vivano ma anche da dove provengano.

Da qui nasce l’obiezione più significativa alla devoluzione di nuove competenze alle Regioni: se non si hanno prestazioni omogenee su tutto il territorio nazionale in base ai bisogni e alle necessità come si può attribuire risorse ulteriori proprio alle comunità meno bisognose, come quelle del Nordest?

In risposta a tali critiche il ddl Calderoli si mostra sensibile alla questione dei c.d. Livelli essenziali delle prestazioni, la cui determinazione è competenza statale, non esercitata in vent’anni, sebbene si riferisca a standard di base minimi dei diritti civili e sociali. Il ddl Calderoli ne prevede la “determinazione” appunto, che è concetto del tutto formale rispetto alla effettiva sussistenza degli stessi su tutto il territorio nazionale. Se è vero, poi, che si subordina l’attribuzione di funzioni nuove alla semplice “determinazione” dei LEP, in modo sibillino questa determinazione può essere fatta anche sulla base della “legislazione vigente” oltre che con il procedimento ad hoc previsto nello stesso ddl.

A quale titolo, poi, dovrebbe essere un ddl sull’autonomia differenziata di iniziativa del ministro per gli Affari regionali la sede opportuna per stabilire come si determinano LEP che sono competenza legislativa attribuita allo Stato? La cultura istituzionale di riferimento suggerisce di mostrare una qualche sensibilità democratica introducendo un passaggio in Conferenza (30 giorni) e, bontà sua, in Parlamento (45 giorni), ma chiarendo che, in caso tali organi non si esprimessero per tempo, si procederebbe “comunque” con DPCM.

“Comunque” è parola disseminata in tutto il ddl, a segnalare che qualunque procedimento previsto, anche quello per la legge prevista al terzo comma dell’art. 116, andrà avanti in ogni modo, a qualunque costo dovremmo dire, a leggere tra le righe. È sempre tra le righe che si scopre che le risorse da attribuire per esercitare le nuove funzioni, sebbene non si faccia più riferimento alla spesa storica che avrebbe cristallizzato le disparità esistenti, possono essere determinate sulla base della legislazione “vigente”. L’entità di tali quote di gettito erariale poi sarebbe decisa da Commissioni paritetiche Governo-Giunta previste dalle intese stesse, quindi, pretendendo che il Parlamento approvi le intese prima di conoscere l’effettiva quantità di risorse da travasare in un singolo territorio.

Il tema della percentuale del gettito erariale da dare a una Regione, che qualifica in modo saliente la condizione delle specialità, è centrale per comprendere l’idea di autonomia veicolata da questo processo. D’altra parte, un quesito referendario, approvato con legge dalla Regione Veneto, intendeva chiedere ai veneti se volessero “trattenere” sul territorio regionale otto decimi del gettito delle compartecipazioni erariali. Nella sentenza n. 118 del 2015 la Corte costituzionale spiega chiaramente che tale ipotesi avrebbe illegittimamente comportato «la distrazione di una cospicua percentuale dalla finanza pubblica generale, per indirizzarla ad esclusivo vantaggio della Regione (…) e dei suoi abitanti (…) incide[ndo] (…) sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica». È contra Costitutionem, dunque, sia la secessione territoriale che quella sostanzialedi parte del popolo sovrano dai doveri di solidarietà nazionale.

L’ultimo profilo di estremo allarme è collegato all’idea di Stato insita in questo progetto: quando si dice Stato si intende solo Governo o prima di tutto il Parlamento che si spoglia delle proprie competenze legislative? Gli atti di indirizzo delle Camere per esprimersi sull’intesa Governo-Regioni, previsti dal ddl Calderoli esprimono la degenerazione di una forma di governo parlamentare in cui il Parlamento, titolare della funzione legislativa, in quanto espressione della rappresentanza politica generale, è del tutto ancillare rispetto al Governo. Per di più tutte le competenze passerebbero dall’essere determinate in una forma di governo, per quanto degenerata, tuttora parlamentare a una, quella regionale, iperpresidenzialista in cui i Consigli regionali sono in tutto e per tutto subordinati al Presidente direttamente eletto. Eletto, peraltro, anche in una delle regioni protagoniste di questa vicenda, con un’affluenza alle urne risibile per una democrazia effettiva.

Gli elettori evidentemente sanno che non godono più di pieni diritti politici per colpa di sistemi elettorali e forme di governo non coerenti con il principio di eguaglianza del voto e con il suo significato per la rappresentanza politica. A conclamata diseguaglianza del voto si vuole ora cristallizzare, se non peggiorare, la diseguaglianza sociale e territoriale. Abbiamo così la conferma che alla mancanza di eguaglianza nei diritti politici seguono sempre le diseguaglianze economiche sociali e territoriali. La diseguaglianza limita la libertà. Oggi come non mai libertà, eguaglianza e solidarietà dovrebbero tornare a essere i nostri fari per capire quale tipo di paese vogliamo.

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Un commento a “No all’autonomia delle diseguaglianze”

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