Il libro di Maria Luisa Boccia è pubblicato ad un anno dall’invasione russa in Ucraina, ma raccoglie le sue riflessioni sulla guerra iniziate a partire dal 1999, durante la guerra del Kosovo.

Il discorso viene articolato lungo tre snodi principali, che possono essere così descritti: il primo è la constatazione del ritorno prepotente della guerra come attività ineluttabile e necessaria ai fini della risoluzione dei conflitti; il secondo è l’analisi filosofica sulla matrice culturale e ideologica che sostiene la guerra e ogni sua forma di legittimazione; il terzo è l’adozione, per queste riflessioni, della prospettiva femminista intesa come sguardo capace di rovesciare il paradigma della guerra e di pensare la pace in modo positivo, e non soltanto nella forma negativa della semplice assenza di guerra. Si tratta dunque di una riflessione filosofica, politica e femminista, la cui finalità è ben esplicitata nell’ultimo capitolo dedicato alla guerra in Ucraina, Pensare la guerra, lottare per la pace1.

Per introdurre il suo stato d’animo e lo spirito della proposta che intende avanzare, Maria Luisa cita una densa frase del saggio di Virginia Woolf Pensieri di pace durante un’incursione aerea, scritto nel 1940:

“Questa guerra mi riguarda e non posso non pensare a come impegnarmi in questa lotta. Senza armarmi ma, al contrario, per silenziare le armi e le voci che le accompagnano”2.

Sono parole che faccio anche mie, perché fin dall’inizio della guerra in Ucraina sono presa dallo stesso assillo del coinvolgimento personale e dell’impegno a fare qualcosa, aggravato dalla pesante percezione di una condizione di radicale estraneità, sia dalla comunità politica alla quale ho appartenuto per più di trent’anni, sia dalla comunità scientifica e intellettuale, che poco, troppo poco, si sta occupando di ciò che accade con questa guerra, non soltanto ora e nella terra martoriata ucraina, ma anche per il futuro e in tutto il pianeta. Penso che questa percezione di estraneità sia condivisa da tutte/i coloro che hanno immediatamente capito l’impatto terribile e profondo che questa guerra ha già ora e avrà sul mondo, sulle nostre vite.

In queste pagine tenterò di formulare qualche commento e sollevare alcune domande su ciascuno dei tre punti che sopra ho enucleato.

In primo luogo, sul ritorno della guerra. Non di una guerra qualsiasi, ma di una “guerra giusta” che è necessario combattere, per entrambi i fronti: per l’Ucraina e l’insieme dei paesi del Gruppo di Ramstein guidato dalla NATO, si combatte la guerra giusta contro l’invasore russo, che con il suo regime dispotico e autocratico offende, oltre al territorio ucraino e al diritto internazionale, i valori occidentali della democrazia e della libertà; per la Russia si combatte per riunificare il popolo russo, garantire la sicurezza al proprio paese e riscattare l’umiliazione subita con l’allargamento a est della NATO. Sono due narrazioni che rendono inconciliabile il dialogo e costringono ad affidare alla prova di forza il prevalere delle rispettive ragioni, secondo la logica del diritto del più forte. Si tratta anche dell’ennesima dimostrazione, già evidenziata da Norberto Bobbio, del fatto che parlare di guerre giuste è diventato oggi estremamente confusivo, perché ogni parte avrà da accampare “giuste” ragioni in nome delle quali usare la forza3.

Non è la prima volta, in questa epoca post-Guerra fredda, che ci troviamo di fronte alla riabilitazione del teorema della “guerra giusta”. Maria Luisa enumera tutte le precedenti occasioni, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, in cui la guerra è stata considerata la via necessaria per ristabilire l’ordine, il diritto internazionale, il rispetto dei diritti umani. Dimenticando la ricca elaborazione filosofico-politica che durante la Guerra fredda, sotto il rischio incombente di una terza guerra mondiale combattuta con armi nucleari distruttive al punto da poter provocare l’estinzione del genere umano, aveva concluso che la guerra fosse ormai una “via bloccata”, pressoché tutti i politici, tutti gli opinionisti e tutti gli intellettuali “integrati” hanno riammesso la guerra in un mondo non più contrapposto nel bipolarismo est-ovest, ma diviso tra un’unica superpotenza, gli Stati Uniti, campione di democrazia e di mercato, e altre aree continentali o sub-continentali attraversate da subbugli e contraddizioni politiche, sociali, economiche e culturali. In questo dis-ordine mondiale nel quale viviamo da trent’anni, l’Occidente ha ritenuto di dover usare le armi per “guerre umanitarie”, così chiamate perché volte a ripristinare diritti violati di popoli, “guerre democratiche”, promosse per esportare la democrazia in paesi autoritari scossi da conflitti interni, e addirittura “guerre preventive”, come l’attacco degli Stati Uniti all’Iraq nel 2003 sul presupposto – poi rivelatosi falso e sbagliato – della presenza di armi di distruzione di massa pericolose per le democrazie occidentali. Tutte queste “guerre giuste” hanno avuto bisogno di una diversa aggettivazione che non faceva altro che aggravare l’ossimoro da esse rappresentato; fino ad arrivare oggi a un livello ossimorico forse insuperabile, che è quello della “guerra pacifista”, ovvero della guerra combattuta per ottenere la pace4. Che non è altro che il ritorno all’antico adagio latino “si vis pacem, para bellum”.

Maria Luisa rileva che il termine “guerra” viene usato tecnicamente con una qualche cautela, fino anche a essere accuratamente aggirato. La Russia non ha “dichiarato guerra” all’Ucraina, ma ha mosso nei suoi confronti “un’operazione militare speciale”; l’Occidente a fianco di Kiev parla di “aiuti militari” per sostenere la resistenza ucraina, che ogni paese decide e approva con gli stessi atti in cui si deliberano gli aiuti umanitari alla popolazione. Solo l’Ucraina e il suo presidente Zelensky parlano apertamente di guerra, come effettivamente è il conflitto che segue all’attacco di uno Stato verso un altro Stato. Non si tratta di linguaggi reticenti o pudichi nel nominare lo stato più terribile nel quale possano trovarsi i paesi, bensì di artificio retorico tecnicamente utile a porre – almeno per ora – degli ostacoli all’escalation mondiale del conflitto e all’uso degli arsenali nucleari. Ma è retorica, perché nei fatti quella in Ucraina è una guerra tra due Stati, uno dei quali combatte con le armi di altri Stati i quali, secondo il lessico del diritto internazionale, sono a tutti gli effetti co-belligeranti. Basterebbe che un giorno la Russia decidesse di modificare la definizione del suo intervento da “operazione militare speciale” a “guerra” e ci troveremmo d’un colpo nella terza guerra mondiale.

Per questo Maria Luisa invita a nominare e a pensare la guerra, sottoporla a critica e comprenderne le radici, le movenze, i nessi con le altre dimensioni della vita sociale e organizzata. Occorre secondo lei rovesciare il ragionamento che Norberto Bobbio proponeva negli anni Sessanta. Allora, il filosofo torinese si incaricò di mettere ordine sulla materia scrivendo il saggio Il problema della guerra e le vie della pace5; oggi si tratta invece di analizzare il problema della pace e le vie della guerra6.

Il posto della guerra

Il primo elemento emergente di questo ritorno della guerra è di carattere storico ed è rappresentato dalla generale rimozione delle guerre nella ex Jugoslavia della prima metà degli anni Novanta del secolo scorso e dell’intervento della NATO in Serbia del 1999. Secondo la narrazione dominante del conflitto tra Russia e Ucraina, la guerra sarebbe tornata in Europa dopo settant’anni, cioè dopo la fine della Seconda guerra mondiale, come se i Balcani si trovassero altrove. Si tratta di una rimozione molto significativa, che ha bisogno di essere tematizzata perché ha a che fare con l’approccio dell’Unione europea nei confronti di questa guerra. Lo si capisce molto bene leggendo chi ha non solo affermato ma anche teorizzato questa ricostruzione storica del conflitto. Mi riferisco in particolare a Vittorio Maria Parsi e al suo saggio Il posto della guerra e il costo della libertà7, che ha il merito di nominare la guerra in tutta la sua realtà attuale e l’ideologia che la sostiene, senza nascondersi dietro infingimenti. A suo avviso, l’ordine internazionale liberale che si è costituito dopo il 1945 è fondato sui valori occidentali della libertà e della democrazia, e l’attacco ad esso sferrato dalla Russia autocratica e dispotica minaccia tutti noi. Per questo l’Occidente non solo deve ringraziare l’Ucraina per la sua resistenza e sostenerla per la vittoria, ma deve essere pronto a combattere anche direttamente nel nuovo conflitto bipolare che si sta preparando nel mondo tra le democrazie e le autocrazie (il riferimento è alla Cina). E poiché, come sostengono tutti i liberali realisti, la pace passa dalla democrazia e non viceversa, l’Occidente deve assumersi la responsabilità di difendere la propria civiltà nel punto geopoliticamente più vicino agli altri sistemi politici, cioè in Europa. Di qui, afferma Parsi, l’Europa non può più pensarsi come “il posto della pace”, secondo gli auspici irenici del secondo dopoguerra, ma come “il posto della guerra”, della guerra giusta per la difesa della nostra libertà. Dunque si spiega perché i conflitti nella ex Jugoslavia non meritano di essere definiti guerre; essi nascevano da odi locali, certo destabilizzanti un’area importante al centro dell’Europa, ma non direttamente minacciosi dell’ordine mondiale che in quel momento era unipolare. Ora in campo c’è la Russia, “nemica” di sempre dell’Occidente, e sullo sfondo si alza la Cina; il mondo non è più unipolare, e ogni conflitto che possa nascere dalle tensioni tra queste diverse aree è legittimamente definibile come guerra.

Il secondo elemento di questo ritorno della guerra riguarda la sua genesi. Maria Luisa attribuisce alla guerra del Kosovo del 1999 il carattere costituente della fase storica che rilegittima la guerra, perché ha operato un vero e proprio rovesciamento radicale del ripudio alla guerra depositato nell’articolo 11 della Costituzione italiana. È questo, secondo Maria Luisa, il passaggio decisivo, “non solo perché sono stati i governi da essa diretti [dalla sinistra europea] ad averla decisa e fatta, definendola ipocritamente un’operazione di polizia internazionale ma perché ha attivamente contribuito a modificare il senso comune sulla guerra, per legittimare l’intervento e ottenere il consenso”8.

Quanto pesa, in questa affermazione, il duplice fatto che in Kosovo l’Italia è intervenuta direttamente con i paesi NATO e che a decidere sia stato un governo di centro-sinistra? Io penso molto; come penso che legittimamente si sia condizionati nel giudizio per il più forte coinvolgimento personale e politico che quel passaggio ha rappresentato. Ma penso, al tempo stesso, che, se vogliamo attenerci più strettamente su un piano teorico-politico, lo spartiacque del ritorno della guerra, come guerra giusta secondo la rappresentazione politica e guerra giustificata con il consenso delle opinioni pubbliche, sia stato segnato dalla prima Guerra del Golfo, quella seguita all’invasione dell’Iraq in Kuwait. È vero che l’intervento militare aveva la copertura del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma non furono i caschi blu delle Nazioni Unite a indossare le armi per imporre il ritiro iracheno, bensì gli eserciti di una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Non si tratta di una sottigliezza, ma di un punto fondamentale. Fin subito dopo l’invasione irachena del 2 agosto 1990, gli Stati Uniti anticiparono gli atti dell’ONU, iniziando a lavorare per un’ampia alleanza anti-irachena e installando nel Golfo l’operazione Desert Shield, scudo militare a difesa dell’Arabia Saudita. Quando l’alleanza fu pronta, il 29 novembre 1990, l’ONU approvò la risoluzione n. 678 che per la prima volta faceva esplicito riferimento alla possibilità dell’uso della forza da parte degli eserciti della coalizione internazionale se l’Iraq non avesse ritirato le sue truppe dal Kuwayt entro il 15 gennaio 1991. Come noto, il 16 gennaio partì l’operazione militare Desert Storm, conclusasi, dopo bombardamenti a tappeto sull’Iraq e l’impiego anche di truppe di terra per liberare il Kuwait, il 28 febbraio 1991.

Le guerre successive del Kosovo (1999), dell’Afghanistan (2001), ancora del Golfo (2003) e infine della Libia (2011) sono state promosse, giustificate e sostenute come conseguenza di quel passaggio, che aveva sostanzialmente contribuito allo sdoganamento della guerra come mezzo per risolvere i conflitti, a prescindere da, se non in alcuni casi nonostante, gli atti ufficiali dell’ONU.

Al fine di ripensare e sottoporre a critica la matrice culturale che legittima la guerra, Maria Luisa richiama l’antropologia politica hobbesiana, secondo la quale l’uomo è lupo all’uomo e lo stato di natura, quello senza leggi positive, è lo stato della guerra di tutti contro tutti9, e il concetto di Politico di Carl Schmitt, fondato sulla contrapposizione tra amico e nemico, espresso in ultima istanza nella decisione dello stato d’eccezione, che è per eccellenza la decisione della guerra10. Chi esercita il potere di questa decisione è il sovrano, l’autentico soggetto politico.

Il pessimismo antropologico hobbesiano e l’ultrarealismo politico di Schmitt forniscono alla guerra la sua inconfutabile legittimazione teorica e ideologica. In particolare la categoria della sovranità resta centrale anche nelle argomentazioni di chi ha pure tentato di definire vie alternative alla guerra per risolvere le controversie internazionali.

Le vie della pace

Penso ancora a Norberto Bobbio, nel saggio già sopra citato. Qui egli configura una mappa delle possibili vie della pace, che comprende: il pacifismo strumentale, ovvero la via che si occupa dei mezzi e si esprime attraverso le battaglie per il disarmo e le pratiche della nonviolenza; il pacifismo istituzionale, che si suddivide tra pacifismo giuridico, promosso attraverso l’affermazione del diritto come medium universale di risoluzione dei conflitti, e pacifismo sociale, che invece punta al superamento dell’organizzazione capitalistica della società, considerata come foriera di disuguaglianza, ingiustizia e violenza; il pacifismo finalistico, che opera in vista di una trasformazione in senso moralmente positivo dell’essere umano. Tra tutte queste strade, Bobbio sceglie di approfondire il pacifismo giuridico, che lui ritiene non tanto più importante secondo una scala di valori, quanto più realistico e perseguibile in tempi ragionevoli.

Il problema, però, è che il pacifismo giuridico ripropone lo schema della sovranità, perché pensa che la pace possa essere raggiunta nella misura in cui avviene tra Stati lo stesso passaggio avvenuto dallo stato di natura allo stato civile nel rapporto tra individui. Si tratta dell’argomento della domestic analogy, che proietta sulle relazioni interstatuali il modello del contrattualismo politico: in una prima fase gli individui stabiliscono di unirsi e di darsi delle regole comuni (pactum unionis), e in un secondo momento decidono di affidare a un unico potere sovrano il controllo e l’esercizio di quelle stesse regole, potere che contempla anche l’uso della forza (legittimo, perché riconosciuto da tutti i contraenti i patti) nel caso in cui le regole vengano violate. Infatti, Bobbio sottolinea come il pacifismo giuridico mira a eliminare la guerra, ma non l’uso della forza; poiché la guerra consiste nel conflitto armato tra Stati sovrani, se la caratteristica della sovranità viene ceduta a un soggetto altro sopra tutti gli Stati, allora la forza che questo sovrano eserciterà non sarà guerra, ma punizione armata degli Stati che avranno infranto le regole comuni del diritto internazionale.

Secondo Bobbio, però, a livello internazionale il modello contrattualistico si è compiuto soltanto a metà. Gli Stati si sono riuniti nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, sottoscrivendo la Carta e impegnandosi a rispettare le norme di diritto internazionale, ma hanno mancato di procedere con la costruzione di un esercito internazionale a cui affidare l’uso della forza in caso di violazioni. È in coerenza con questo ragionamento, svolto a partire da una rigorosa adesione al modello contrattualistico, che Bobbio definì giusto l’intervento occidentale nella prima guerra del Golfo (in quanto intervento volto a ripristinare il diritto internazionale violato, legittimato anche dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU)11, e illegale perché priva dell’autorizzazione ONU, ma necessaria per arrestare i crimini serbi in Bosnia e Kosovo, la guerra del Kosovo12.

Maria Luisa si aggiunge ai molti che in questi anni hanno parlato di crisi del pacifismo giuridico. Poiché, a causa della sempre maggiore complessificazione dei rapporti internazionali, l’ONU si trova spesso nella impossibilità di raggiungere l’unanimità dei paesi con diritto di veto dentro il Consiglio di Sicurezza, il pacifista giuridico tenderà a giudicare inevitabilmente come giusti gli interventi armati promossi per difendere ideali giudicati giusti. Ci sarebbe una circolarità inaggirabile nel ragionamento del pacifismo giuridico, fondato sulla centralità dei diritti che, come stiamo vedendo sempre più frequentemente, possono essere invocati in forme contrapposte e precipitati in un pericoloso fondamentalismo etico13.

Maria Luisa sembra voler proporre di seguire l’altra via del pacifismo istituzionale, soltanto accennata da Bobbio, cioè la via del pacifismo sociale che dovrebbe intervenire sulle strutture socioeconomiche determinanti gli squilibri di potere nel mondo, declinandola secondo la sua prospettiva femminista. Io penso però – e in questo senso condivido l’invito di Bobbio a considerare importanti tutte le vie della pace e che nessuna di esse debba essere accantonata perché sono tra loro tutte interconnesse14 – che il pacifismo giuridico abbia ancora qualcosa da dirci. Il linguaggio dei diritti ha svolto e svolge una funzione importante per le relazioni tra individui, tra società, tra Stati, e anche per le relazioni tra umano e non-umano che rappresentano, a mio avviso, una dimensione ineludibile e prioritaria ai fini della pace. Per questo il pacifismo giuridico non lo si deve né lo si può abbandonare. La sfida è, dal mio punto di vista, declinare il linguaggio dei diritti e il pacifismo giuridico che lo interpreta in vista della pace, spogliati del paradigma della sovranità.

In questo senso, il testo bobbiano di riferimento non è tanto quello del 1966, quanto piuttosto la raccolta di saggi pubblicata nel 1995 con il titolo Il Terzo assente15. Pur senza affrancarsi dal modello “sovranista” (mi si conceda questo shift semantico), Bobbio a un certo punto richiama l’analisi sociologica sul conflitto di Georg Simmel, e riprende il catalogo delle diverse figure di Terzo che possono presentarsi davanti a una controversia. Prima del Terzo come Giudice, che insindacabilmente assegna alle parti torti e ragioni e di conseguenza commina sanzioni e riconosce risarcimenti, c’è il Terzo come Mediatore, che si colloca tra le parti per farle comunicare tra loro, ma senza sostituirsi a esse nella soluzione del conflitto, e c’è il Terzo come Arbitro, che dopo aver messo in contatto parti che preventivamente avevano accettato l’arbitrato, si assume la responsabilità di dare ragione all’una o all’altra parte, e quindi è a un tempo fra e sopra le parti. Insomma, esistono figure di Terzo non sopra le parti, ma tra le parti, non sovrano ma pari, che deve possedere almeno due caratteristiche per lavorare con efficacia: l’indipendenza e la neutralità.

Seguire questa strada significa riabilitare la categoria del neutro. Anche questo è un atto di resistenza, rispetto al processo di rimilitarizzazione dei confini e alla rinnovata corsa al riarmo in vista della guerra tra democrazie e autocrazie, che obbliga a schierarsi da una parte o dall’altra (tertium non datur). Nel momento in cui rinunciano alla neutralità paesi che avevano costruito su di essa la propria identità politica, come Svezia e Finlandia, invocare il neutro paradossalmente rappresenta a sua volta una presa di posizione a favore del “né … né”, della negazione di ogni potere perentorio e affermativo, del riconoscimento delle differenze senza sposarne alcuna. Penso che oggi sia necessario pensare il neutro da una prospettiva femminista, da uno sguardo di differenze.

Femminismo e pacifismo

Arrivo così al terzo snodo del ragionamento di Maria Luisa. Il suo è quel femminismo della differenza, che ha rotto l’universalismo maschile a cui tendeva ancora il femminismo dell’eguaglianza e dell’emancipazione. A distanza di quasi mezzo secolo di elaborazione e di pratica, anche questo femminismo ha bisogno di essere ritematizzato. Prima di tutto per prendere le distanze e rovesciare ogni rischio di essenzialismo e rinaturalizzazione della differenza, i cui esiti regressivi sono inscritti in una larga parte della nuova destra (basti pensare all’attuale Ministra – o Ministro? – la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità). La differenza di genere femminile in quanto tale non ha fatto nessuna differenza nei luoghi del potere sovrano. Non possiamo non tenere conto di come non abbia cambiato in niente, e anzi per certi aspetti ha anche pericolosamente accentuato, il verso del potere inteso come uso della forza il fatto che in Europa siano tre le donne a ricoprire i tre ruoli più importanti: la presidenza della Commissione, la presidenza del Parlamento e la Presidenza della Banca Centrale Europea. Per non parlare delle donne di governo, da quella italiana, che si è autolegittimata proprio sposando nettamente il profilo atlantista-militarista, a quella finlandese, a cui però non è bastata l’adesione alla NATO in nome della sicurezza del paese per rivincere le elezioni.

Dobbiamo dunque parlare di differenze al plurale, e non al singolare. Dobbiamo parlare di pluralità, nel senso in cui Hannah Arendt la propone. “Non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra”16.

E in alternativa alla triade della politica maschile di potere, identità, sovranità, il femminismo delle differenze propone la vulnerabilità della comune esposizione ai rischi, la relazione del reciproco riconoscimento, l’interdipendenza della condizione ecologica. I richiami sono, oltre a Arendt, a Simone Weil che, dopo aver provato a combattere coi partigiani in Spagna, si lancia in un’invettiva contro tutte le guerre17; a Carla Lonzi che sputa su Hegel e sull’eterno maschile18; a Luisa Muraro che invoca la forza dell’amore19; a Judith Butler che parla dell’esposizione dei corpi nello spazio pubblico e della precarietà della vita dopo la seconda guerra del Golfo20. Ma richiami forti sono anche a Pietro Ingrao e al suo allarme verso la “guerra sospesa”21, e a Franco Cassano nel suo gettare ponti tra civiltà diverse22.

Queste sono le categorie di una pratica politica femminista, da agire non in semplice contrapposizione al modello hobbesiano-schmittiano di sovranità o come hegeliano superamento dell’attuale in una successiva fase che avanza progressivamente e dialetticamente inglobando tutto, ma attraverso un’instancabile opera critica, decostruttiva e ricostruttiva, capace di smontare la necessità della guerra e di pensare la possibilità di un conflitto non armato, non-violento.

Qui vedo la possibilità di un ruolo del neutro, definito da Roland Barthes come “ciò che elude il paradigma”23 e sfugge a tutte le catalogazioni, come quell’infra che sta tra le differenze e le rende ontologicamente possibili, come lo spazio che espone e mette in relazione i corpi, li fa confliggere e riequilibrare di continuo.

Il “che fare” finale di Boccia muove da questa costellazione politica femminista, che trova una prima rappresentazione nelle proposte convergenti della resistenza passiva di Nadia Fusini e della forza di interposizione nonviolenta di Luca Casarini: in entrambi i casi, dovrebbe muoversi da tutta Europa una massa di corpi disarmati verso i luoghi della guerra, a sfidare la forza bruta dei carri armati e delle bombe. Il pensiero va di nuovo a Simone Weil e alla sua straordinaria intuizione del Progetto di una formazione di infermiere di prima linea24: un progetto assurdo per De Gaulle e per tutti i realisti politici, che rifiutano a priori l’irruzione di una radicale istanza morale nel campo di battaglia, perché insostenibile per tutti i fronti in conflitto. La sua “vittoria” rappresenterebbe la fine della politica di potenza, per chiunque.

La memoria della guerra

L’ultimo tema che voglio toccare, oltre agli snodi fondamentali su cui il libro si dipana, riguarda la memoria. A un certo punto Maria Luisa invita a “tenere viva la memoria” della guerra25.

L’argomento principale usato da chi sostiene convintamente l’aiuto militare a Kiev è l’analogia tra la resistenza ucraina e la nostra resistenza nella guerra di liberazione dall’oppressione nazifascista. Se noi ci definiamo orgogliosamente antifascisti, e possiamo con dignità rivendicare la fierezza storica di aver vinto contro la barbarie grazie alla collaborazione tra i partigiani e le forze militari alleate, come possiamo non sostenere militarmente chi combatte per la propria libertà contro l’invasione russa?

L’argomento ha una solida base retorica ed è convincente a uno sguardo superficiale delle cose, cioè ad uno sguardo immemore. Si parla molto di memoria a proposito della Shoah (la Giornata della Memoria, appunto) e ci si interroga con preoccupazione su ciò che rimarrà una volta che tutte/i le/i sopravvissute/i non ci saranno più. Ma non parliamo mai della memoria della guerra, dei sopravvissuti ai bombardamenti e alle rappresaglie naziste.

Per parte mia, non cancellerò mai la memoria di un episodio importante della mia vita. Quando nel 1999 fu annunciata la decisione di intervenire militarmente in Serbia come NATO, anche con il concorso dell’Italia, per interrompere il genocidio in atto contro i kosovari, mia madre, che aveva visto le bombe e i rastrellamenti, aveva ospitato nella casa di campagna molti sfollati dalla città, aveva avuto contezza dei morti e dei dispersi al fronte e nelle azioni di guerriglia partigiana, e che dunque, secondo la logica dei sostenitori degli aiuti militari a oltranza in Ucraina, avrebbe dovuto plaudire e concordare, invece reagì subito in modo fermamente contrario, atterrita com’era da una simile decisione. Non si capacitava e volle partecipare alla Marcia straordinaria Perugia-Assisi, facendola tutta fino in fondo, fino alla Rocca Maggiore.

Capisco meglio ora quanto fosse politico e femminista quel gesto. Esso esprimeva l’opposizione radicale a ogni forma di guerra e violenza, anche a quella che si rappresenta per fini “giusti”; per manifestare tutta la forza di quell’opposizione, c’era bisogno della messa in gioco del proprio corpo, per quanto precario e fragile per via dell’età; e ciò doveva avvenire in forma collettiva, pacifica, nonviolenta, dentro uno spazio pubblico e aperto.

Ancora oggi non trovo strada migliore di questa per “pensare la guerra e lottare per la pace”.

Note

1 M. L. Boccia, Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, manifestolibri, Roma 2023, p. 61.

2 V. Woolf, Pensieri di pace durante un’incursione aerea, citato in M.L. Boccia, Tempi di guerra, cit., p. 67.

3 N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, Bologna 1984, p. 62 e ss..

4 M. L. Boccia, Tempi di guerra, cit. p. 62.

5 N. Bobbio, Il problema della guerra, cit. Il libro è una raccolta di saggi, e il saggio che dà il titolo a tutto il volume era stato pubblicato su «Nuovi Argomenti» nel 1966 con l’obiettivo di mettere ordine a tutto il dibattito su pace e guerra nato con la Guerra fredda.

6 M. L. Boccia, Tempi di guerra, cit. p. 19.

7 V. M. Parsi, Il posto della guerra e il costo della libertà, Bompiani, Milano 2022.

8 M. L. Boccia, Tempi di guerra, cit., p. 44.

9 T. Hobbes, De cive, Editori Riuniti, Roma 1985.

10 C. Schmitt, Le categorie del Politico, il Mulino, Bologna 1972.

11 N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto nel Golfo, Marsilio, Venezia 1991.

12 N. Bobbio, L’ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, Reset, Roma 1999.

13 Il rischio di fondamentalismo etico per il pacifismo giuridico era stato già ventilato da Carl Schmitt in risposta al saggio, ritenuto capostipite del pacifismo giuridico, Peace through Law di H. Kelsen (University of North Carolina Press, Chapel Hill 1944). Di Schmitt si veda Il Nomos della Terra, Il Mulino, Bologna 1991.

14 N. Bobbio, Il problema della guerra, cit., p. 90.

15 N. Bobbio, Il Terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Sonda, Casale Monferrato 1995. Il saggio che dà il titolo a tutta la raccolta era stato pubblicato su «La Stampa» il 30 dicembre 1983, p. 3.

16 H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, p. 99.

17 S. Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, in Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Pratiche Editrice, Milano 1998, pp. 55-74.

18 C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, «Rivolta femminile», 1970.

19 L. Muraro, Per forza o per amore?, «Il Manifesto», 17 aprile 2003.

20 J. Butler, L’alleanza dei corpi, nottetempo, Milano 2017; Id., Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, postmedia books, Milano 2013.

21 P. Ingrao, La guerra sospesa. I nuovi connubi tra politica e armi, Dedalo, Bari 2003.

22 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996.

23 R. Barthes, Il Neutro. Corso al Collège de France 1977-1978, Mimesis, Roma 2022.

24 S. Weil, Progetto di formazione di infermiere di prima linea, in Id., Pagine scelte, Marietti, Genova 2009, pp. 155-164.

25 M. L. Boccia, Tempi di guerra, cit., p. 52.

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