Cara Elettra da quando so della tua morte spero che la luce ti invada e ti porti la solarità con cui hai vissuto.

È stato un pensiero fisso per molte ore e ne ho trovato la radice e la ragione in quello che avevi scritto [il testo completo si può leggere in calce all’articolo, n.d.r.] per la “Cura del Vivere” il testo del nostro Gruppo Femminista del Mercoledì del 2011. “… La luce del giorno a fiotti nelle stanze, ogni cosa al suo posto, niente inutili orpelli in giro. Era questa la misura della cura a cui mia madre attingeva per la casa. Per questo mi vengono in mente Vermeer e i suoi trasparenti interni domestici quando penso a come mettere in scena un’estetica della cura. E poi c’è l’etica della cura, la socialità della cura, la politica della cura. E altro ancora. Andrebbero tenute insieme. E per questo, viceversa, c’è la cura in funzione soggettiva rispetto a ognuna di quelle dimensioni e tutto diventa più complesso, come è complesso ogni pensiero e ogni pratica del “che fare”. Soprattutto nell’epoca caotica e persa in cui viviamo…”.

Così inizia il tuo pezzo dove ragioni di tua madre e dello scarto necessario a trasformare il mondo competitivo e bellicoso in cui ci troviamo.

Questo è stato l’intento comune del nostro Gruppo Femminista del Mercoledì. Iniziato nel 2008 all’indomani della sconfitta elettorale della sinistra di alternativa nella convinzione che riflettere tra donne ci consentisse maggiore creatività e libertà di visione, il gruppo ci ha permesso di nominare la necessità di un radicale cambiamento della politica. Abbiamo proposto un “Manifesto della sinistra” all’indomani della sconfitta elettorale dal 2008, poi dal 2011 con La cura del vivere abbiamo ragionato su “lo scarto, il resto che non si sottomette al mercato, il prezioso tesoro della cura”.

Il rovesciamento del paradigma della cura, ha guidato la nostra pratica per affermare un altro modo di fare politica e per nominare i soggetti e i conflitti che questo richiede.

Abbiamo nominato il paradigma della cura contro le conseguenze dell’austerità e del neoliberalismo sulla vita collettiva, già dopo la crisi finanziaria del 2011. Abbiamo cercato il confronto tra punti di vista diversi sui temi delle unioni civili e della gravidanza per altri (GPA), meglio conosciuto come utero in affitto. Abbiamo ragionato sulla violenza maschile e sulla crescente connessione tra sessismo, razzismo e suprematismo nazionalista, fino a quando nel 2019 abbiamo visto i soggetti e le lotte globali contro una destra che già proponeva una rappresentazione semplificata e violenta del mondo.

Con Noi e il Covid nel 2021 abbiamo nominato i conflitti necessari per affermare un altro modo di abitare il mondo e di vivere le relazioni. E poi abbiamo fatto i conti con la guerra e l’invasione russa in Ucraina. È stato un lungo cammino che ha attraversato momenti collettivamente e personalmente complicati. Tu già ci stavi lasciando anche se le tue amiche ti hanno sostenuta fino al limite del possibile. Fino a quando lutti e malanni ci hanno reso così fragili da rendere difficile prendere parola sul mondo.

E a quella parola sul mondo tu e io abbiamo cercato di portare un’esperienza diretta, anche se i nostri vissuti erano profondamente diversi. Tu con l’impegno pacifista, l’internazionalismo troskista e i generali della NATO, io con le femministe transnazionali, la cooperazione e le Nazioni Unite. Spesso nelle discussioni del gruppo io e te eravamo in contraddizione, ma questo non ci impediva una strana complicità e una fiducia reciproca, perché ci univa un atteggiamento comune verso il mondo. La capacità di allungare lo sguardo, alzare gli occhi dal nostro ombelico e guardare fuori.

Una sorta di pietas contemporanea che è desiderio di relazione e rispetto per l’altro, contro l’indifferenza, il narcisismo e l’invidia.

Un atteggiamento che abbiamo condiviso spontaneamente tanto da riuscire a nominare le nostre fragilità senza timore di perdere l’amicizia o l’affetto, con leggera eleganza.

Di quella fragilità vorrei ora saper dire di più. Vorrei saper parlare dell’energia necessaria per affrontarla. Così come vorrei poter parlare della morte con un linguaggio femminista. In realtà riesco solo a dire che il lutto collettivo che riusciamo a esprimere per la vita e le lotte vissute ciascuna di noi è il cemento per costruire una comunità alternativa.

Quindi torno a te Elettra perché il lutto e il dolore si trasformino nella capacità di tenere insieme una comunità che sa di dover ancora lottare per il futuro e per la rivoluzione più lunga.

Post Scriptum – Questo è il testo che avevo scritto per la breve commemorazione funebre di Elettra. Come sempre l’ho un po’ modificato parlando a braccio. Non è certo esaustivo né della personalità di Elettra, né della nostra relazione. È solo un tentativo di riuscire a esprimere il lutto.

Quello che fa scarto
di Elettra Deiana

La luce del giorno a fiotti nelle stanze, ogni cosa al suo posto, niente inutili orpelli in giro. Era questa la misura della cura a cui mia madre attingeva per la casa. Per questo mi vengono in mente Vermeer e i suoi trasparenti interni domestici quando penso a come mettere in scena un’estetica della cura.

E poi c’è l’etica della cura, la socialità della cura, la politica della cura. E altro ancora. Andrebbero tenute insieme. E per questo, viceversa, c’è la cura in funzione soggettiva rispetto a ognuna di quelle dimensioni e tutto diventa più complesso, come è complesso ogni pensiero e ogni pratica del “che fare”. Soprattutto nell’epoca caotica e persa in cui viviamo.

La presa di distanza dalla sfera domestica, la critica della divisione sessuale del lavoro, la denuncia di un welfare state come quello italiano, sostanzialmente incardinato sulla cosiddetta “terza gamba”, appunto il lavoro domestico: furono anche questi, e non poco importanti, i punti di fuga di una generazione di donne che metteva al mondo la sua libertà. Io ne ero fuggita da sempre, sostenuta in questo anche dalla filiera della discendenza materna. Mia madre e sua madre, e il loro sguardo sul mondo tutt’altro che soggiacente alle regole dell’ordine maschile. Ebbero cura delle mie inclinazioni, prima infantili e poi adolescenziali.

Ma la foga della fuga impedì spesso a molte, a me per prima, di cogliere e mettere a fuoco ciò di cui non tanto facilmente sarebbe stato possibile liberarsi e di cui anzi è preferibile, essenziale, non liberarsi. Ciò che pervade il lavoro domestico senza essere a esso riducibile. Ciò che sfugge e fa scarto.

A me almeno per un bel po’ successe di non cogliere quello scarto, mentre magari c’ero dentro.

“Dovete mettere più cura nei vostri lavori”, dicevo in quegli stessi anni ai miei studenti, alle ragazze soprattutto, e ripetevo il mio mantra quando consegnavo gli elaborati corretti e sul retro di questo o quello avevo disegnato un’alfa, il promemoria per ricordarmi di recitare le mie professorali osservazioni sulla cura. Cura nel mettere insieme i passaggi del discorso ma anche nella scelta delle parole, nella punteggiatura, nell’uso dei tempi e dei modi verbali. L’uso del congiuntivo, per esempio, che cercavo di trasmettere ai ragazzi come un’ineguagliabile ricchezza della nostra lingua. “Lo svolgimento va, gli spunti e le riflessioni personali ci sono”, concludevo, “ma il lavoro risulta poco curato. Devi fare di più, su questo piano”.

Loro mi guadavano stralunati, adolescenti in fiore da altro coinvolti. “Ma è sufficiente, prof.?”, chiedeva lo scansa fatica di turno, preoccupato solo di sfangarla. “Qui andrebbe meglio così?”, mi interpellava subito la secchiona che c’è sempre, quella che vedevo pendere immobile dalle mie labbra durante le lezioni e si industriava seduta stante a mettere a punto il testo.

Ripenso a quella parola – cura – che faceva strettamente parte del mio lessico di insegnante, esulando tuttavia dai più compiuti e complessi percorsi della riflessione e dell’invenzione didattica a cui allora mi costringevo. Cura della professione? La usavo invece in automatico, riecheggiando suggestioni del lessico familiare. “Deve mettere più cura, soprattutto quando stira tovaglioli e tovaglie”, diceva la mia inappuntabile madre alla giovane donna che l’aiutava nei lavori di casa. Ricordo il coinvolgimento straniante dell’inappuntabile parlare di mia madre – più della scuola poté l’eloquio materno nella mia passione per il congiuntivo – che era un tutt’uno con la casa dove abitavamo. Curata nei minimi particolari. Come mia madre e le cose che faceva. Tutta fiori, libri, luce e spazi aperti. E la tavola apparecchiata quando si aspettavano gli ospiti.

Conservo un ricordo vivissimo delle case dove abitai da bambina e ragazza.

Nei lunghi anni che ho passato lontano da Roma e nei viaggi qua e là nel mondo una preoccupazione mi ha sempre accompagnata: quella di raggiungere telefonicamente mia madre, se possibile ogni giorno, di sentirla e farmi sentire. Finché è stata in vita.

Lei diceva spesso che c’ero, anche se non c’ero.

Cura delle relazioni con mia madre. Lei era maestra nella cura delle relazioni con le numerose filiere parentali e amicali. Un punto di riferimento, una sicurezza per tutti. Ho perso i contatti con l’isola da quando lei non c’è più.

Le relazioni, se funzionano, fanno vincolo tra gli umani, donne e uomini, lo diciamo sempre in questa epoca di crisi, in cui vincoli e legami sono saltati. Onde in empatica espansione, sino alla dimensione sociale, oggi quasi dissolta mentre dovrebbe essere globale. Tenerle in vita è difficile, il più difficile gioco della vita. O la più difficile scommessa della politica, oggi sempre più in controcorrente, una vocazione in via d’estinzione. A mantenerle in vita forse c’è ancora qua e là – molto o poco non so – l’ostinazione femminile, la competenza umana e le tecniche comunicative di cui loro continuano a essere maestre. Mi viene in mente quando vedo in primo piano donne in azione nel Mediterraneo in rivolta o in altri mondi. Donne che si prendono cura del loro mondo e mandano un messaggio di incoraggiamento al mondo, trasmettendo quel senso di calore e di vicinanza che è come un viatico: un vero e proprio mastice costruttivo, strutturante, performativo. Benignamente performativo.

Cura, appunto.

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Un commento a “Per Elettra”

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