Recentemente, insieme ad altre e ad altri, hai pubblicato su “il manifesto” un appello intitolato “Far tornare la democrazia socialmente utile” nel quale avete proposto un “percorso politico per la rigenerazione della sinistra”. È un percorso che prosegue?

Questo percorso era stato avviato a ottobre del 2019 dagli stessi firmatari dell’appello, insieme a molti altre e altri, come dialogo tra le tante anime divise e frantumate della sinistra. Poi è arrivata la pandemia che ha impedito di continuare a incontrarci in presenza per due anni. Abbiamo però continuato a sentirci e oggi le ragioni di allora sono ancora valide. Nelle realtà locali, nelle città, nei paesi, nelle regioni, dove ci sono state occasioni elettorali, le persone votano liste che si definiscono di sinistra, o animano associazioni e movimenti politici che non hanno punti di riferimento. Serve mettere insieme tutte queste esperienze. Ma a differenza del passato in cui i partiti proponevano di iscriversi, di aderire a qualcosa che già esisteva, oggi la necessità è di costruire insieme qualcosa che non esiste ancora.

C’è un ragionamento nel vostro appello che è particolarmente interessante. Nella discussione corrente, quando si analizza l’Italia come un paese ‘senza sinistra’, generalmente si mette a confronto la ricchezza e la vivacità politica della realtà sociale in movimento, con la povertà della offerta politica e della sua capacità di rappresentanza. Voi invece fate un diverso ragionamento e segnalate che a livello locale ci sono già alcuni esempi di ricomposizione tra rappresentanza politica e società. Voi la chiamate ‘una nuova connessione tra rappresentanza, movimenti e territori’ sperimentata in una ‘moltitudine di esperienze municipali’.

Questo accade perché le realtà locali vengono percepite da tutti, non solo da quelli che si riconoscono nella sinistra, più vicine ai bisogni dei cittadini. È lì che ci si aggrega. Regioni e Stato vengono considerati molto più distanti. In una realtà locale c’è più facilità a confrontarsi. Intanto perché ci si conosce e ci si ritrova insieme nelle battaglie che si fanno per i diritti, per l’ambiente, per il lavoro, per la tutela dei luoghi. E ci sono molti esempi di questo lavoro comune sia nelle grandi città da Milano a Napoli a Roma, sia in territori come la Sardegna. A livello nazionale c’è più difficoltà.

Ma il percorso può essere inverso. Ti faccio un esempio: ricorderai che, in occasione delle battaglie sui diritti, molti comuni d’Italia approvarono il registro delle coppie di fatto prima della discussione parlamentare. Lo fecero perché avevano una maggiore connessione con le esigenze di cittadine e cittadini. Fu per la pressione di ciò che avveniva in tanti comuni che il parlamento dovette occuparsi di una questione politica che era largamente avvertita nel paese.

Non è detto che questo modo di procedere, che parte dai comuni e dalle realtà locali, non possa essere generalizzato e riguardare non solo questioni locali, ma temi politici universali. Nelle realtà locali, infatti, ci si incontra anche su temi universali, come lo sono ad esempio quelli dell’ambiente e dei diritti. Si percepisce che lì si può operare per dare qualche risposta effettiva per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone. E nel momento in cui si hanno valori in comune non si vede perché non sia possibile stare insieme più stabilmente.

D’altronde le grandi famiglie politiche del nostro paese avevano al loro interno persone che sui grandi ideali si riconoscevano, ma avevano tra loro grandi differenze. Basti pensare a Moro e Andreotti, Napolitano e Ingrao, Craxi e la corrente lombardiana. Però c’era lo sforzo e la fatica dello stare insieme. Questa caratteristica si è persa. Ci sono invece tantissimi che fanno parte di organizzazioni piccole e che sui territori si ritrovano, mentre c’è molta più difficoltà a livello nazionale. Mentre proprio l’esperienza sui territori servirebbe come una sperimentazione per lo stare insieme. E servirebbe per ricostruire quella sinistra di cui si sente l’assenza.

Oggi non solo in Italia, ma anche in Europa e oltre, durante l’esperienza della pandemia, abbiamo scoperto che a fronte di una politica capace di parlare solo di economia servirebbe invece parlare di diritti come quelli della garanzia delle cure e dell’assistenza ovunque, anche nei territori più lontani.

E sulla sanità abbiamo imparato ad esempio che modelli come il Lazio, dove ancora non era stata smantellata la vecchia organizzazione territoriale, danno più garanzie rispetto a modelli di sanità basati sull’economia e sul privato come quello della Lombardia. E anche oggi, sul tema della guerra, la risposta non arriverà da destra. Alcune soluzioni, anche se molto difficili, possono arrivare solo da una riorganizzazione della sinistra.

Nel titolo del vostro documento si parla di “democrazia socialmente utile”. Cosa significa questa affermazione? Che caratteristiche deve avere la democrazia per essere socialmente utile?

Ti rispondo con esempi di ‘democrazia socialmente inutile’ quale è stata ad esempio l’elezione di Trump negli USA, o, qui in Italia, la partecipazione al governo di personaggi come Salvini.

Se invece l’esercizio della democrazia consente di far prevalere idee che rispondono ai bisogni reali delle persone, possiamo considerarlo utile e non un mero esercizio retorico.

In che termini possiamo fare questa affermazione?

Abbiamo parlato per anni del problema dell’immigrazione. Ci siamo resi conto da un giorno all’altro che il problema era l’assenza di medici.  Abbiamo parlato per anni di contrazione della spesa pubblica, sottraendo risorse alle autonomie locali. Ci siamo resi conto che questo ha sguarnito completamente le amministrazioni di competenze capaci di interpretare le sfide dell’oggi, e anche di determinare sviluppo nelle realtà locali.

Che cos’è allora una democrazia socialmente utile?

È quella capace di interpretare i bisogni della società. La mattina, quando ci svegliamo, tutti noi abbiamo bisogno di energia per le nostre attività quotidiane. Quanto pesa allora il non avere una politica pubblica sull’energia? In questi giorni si è parlato di speculazioni, dal prezzo della benzina a quello del gas, perché non c’è più un sistema pubblico di fornitura di questi beni. Un altro aspetto che riguarda tutti è quello della mobilità e del trasporto pubblico perché tutti abbiamo bisogno di spostarci. E tutti produciamo rifiuti, che vanno gestiti nell’interesse di tutti. E ricordo anche l’acqua, che è un bene pubblico come abbiamo deciso con un referendum.

Oggi a questi elementi che da sempre hanno caratterizzato la vita delle persone devono essere aggiunte le reti tecnologiche. La pandemia ci ha mostrato con la chiusura delle scuole le disparità tra quelli che avevano una buona connessione da casa e quelli che non l’avevano. Con svantaggi ulteriori per le famiglie meno abbienti. E non dobbiamo dimenticare, come abbiamo già detto, il diritto alla salute e all’assistenza e la questione salariale, che con l’aumento dei prezzi fa aumentare il numero dei poveri anche fra chi lavora.

Già immaginare che si possa intervenire sui temi che abbiamo indicato potrebbe migliorare la condizione di vita di tutti i cittadini italiani, nessuno escluso. Ed è questa la condizione che può rendere la democrazia socialmente utile.

Nel percorso che voi proponete, avete definito l’autonomia un paradigma strategico: ‘autonomia culturale e di pensiero, di pratiche e di linguaggi’. Cosa intendete per autonomia?

Intanto c’è l’autonomia di ognuno di noi nel non aver paura di affermare concetti politici controcorrente, che possono contraddire il sentire comune quando non è determinato dalla libera scelta delle persone, ma è influenzato dalla comunicazione subita. Per fare un esempio in queste settimane stiamo assistendo quasi all’imbarazzo di dichiararsi a favore della pace, come se la volontà di promuovere la pace fosse un argomento che può utilizzare solo il Papa, mentre tutti gli altri che lo fanno rischiano di essere arruolati nell’esercito di Putin. In realtà tutti quelli che si dichiarano per la pace sono gli stessi che si dichiaravano per il disarmo l’altro ieri, per l’abbattimento delle spese militari a favore delle spese sociali. Molti di quelli che oggi mettono l’elemento comodamente seduti a casa o nei talk show televisivi sono invece proprio quelli che strizzavano l’occhio a Putin, sono i settori economici che hanno deciso di stringere accordi con la Russia, sono coloro che non hanno mai manifestato contro la violazione dei diritti civili in Russia.

L’autonomia che rivendichiamo è quella di chi si sente forte delle proprie ragioni, di chi non ha paura di affermare qualcosa che può non essere di immediata comprensione.

Perché ci sia autonomia di pensiero devono però essere autonomi i cervelli, e per questo serve una grande azione formativa di massa. Tutti i dati ci dicono che siamo addirittura in presenza di un analfabetismo di ritorno. Ci sono persone nel nostro paese, e sono milioni, che hanno difficoltà a comprendere i fatti che stanno accadendo, dalla pandemia alla guerra, e che subiscono l’informazione che viene loro somministrata. Ma ci sono persone che hanno difficoltà anche a comprendere un testo scritto, il significato di un articolo pubblicato su un quotidiano.

Perché ci sia autonomia è necessario che ci sia un’emancipazione dall’informazione, la capacità di difendersi dalla falsa informazione. Per questo serve un rafforzamento delle politiche pubbliche dell’istruzione.

Voi fate riferimento all’importanza dei “luoghi” come catalizzatori di energie politiche. La Sardegna ha una sua forte identità di storia politica a culturale. I ragionamenti che abbiamo fatto come si qualificano oggi in Sardegna?

Questo elemento di forte identità politica e culturale è comune a molte altre realtà d’Italia, basti pensare all’Alto Adige o alla Sicilia e a tante altre realtà territoriali. Perché il nostro è un paese che si forma con l’aggregazione di città-stato. Non è un caso che l’Italia abbia la più alta concentrazione di teatri e fondazioni liriche rispetto ad altri paesi: essendo la cultura da sempre un elemento caratteristico del nostro paese, ogni città-stato ha sentito la necessità di affermarsi anche nell’arte e nella musica, così come di custodire e valorizzare tradizioni, costumi, suoni, riti, sapori, che sono anche tra loro in relazione.

In Sardegna c’è in più un elemento tipico delle isole che si ritrova anche nelle radici storiche dell’autonomismo sardo. Un autonomismo che anche quando ha raggiunto le punte più alte, non ha mai fatto un ragionamento che si traduceva nella richiesta di elemosina nei confronti del paese e dello Stato. Ma invece nell’idea che la Sardegna potesse fare da apripista su alcune idee strategiche che avrebbero potuto contagiare positivamente anche il resto dl paese.

Anche in politica la Sardegna è stato un luogo di sperimentazione. Per citare uno dei momenti belli dell’autonomia, la giunta di Mario Melis (1983/1989) che rappresentava il Partito sardo d’Azione (che non è il Partito Sardo di oggi!), con l’appoggio del Partito socialista e del Partito comunista, fu la prima sperimentazione di un governo di sinistra. E la Sardegna la prima regione che fu strappata al governo della democrazia cristiana e al pentapartito nel mezzogiorno e nelle isole.

Come può essere descritto oggi l’autonomismo? Quali sono le radici che possono darci forza?

Lo è la cultura, o meglio l’insieme delle culture che hanno rappresentato la nostra isola, anche per le dominazioni che hanno attraversato la Sardegna, e tra queste non va trascurata la cultura e la civiltà nuragica. Lo è certamente l’ambiente e la sua cura. Ma lo è anche la sfida sull’innovazione.

E questi elementi vanno tenuti insieme. Deve essere tutelato e valorizzato l’ambiente insieme all’innovazione tecnologica di cui siamo stati come regione una punta avanzata. In qualche caso un esempio di quello che sarebbe potuto essere il futuro. Ma insieme alla tutela delle tradizioni.

Un laboratorio per sperimentare una “innovazione socialmente utile”?

Si, è così. Non si può parlare di innovazione senza qualificarla socialmente.

C’è chi pensa che si debbano prendere i dati sanitari di ogni ognuno e di ognuna per decidere chi assumere o chi non assumere in base alle possibili patologie future. Oppure per costituire una banca dati che serva a determinare le strategie commerciali.

C’è invece chi pensa, e noi siamo tra questi, che le tecnologie debbano migliorare le condizioni vita quotidiane, anche a partire dalle innovazioni più banali, come mettere in rete le anagrafi digitali di tutti i comuni. O la realizzazione di sistemi di telecontrollo per diminuire gli sprechi idrici.

Noi contrastiamo chi pensa che l’innovazione debba essere piegata alle esigenze del mercato e che tutti noi dobbiamo diventare delle cavie per aumentare i profitti di pochi multimiliardari.

Ci sono stati negli ultimi anni tanti tentativi di rigenerazione della sinistra, purtroppo tutti senza esito positivo. La vostra proposta che anticorpi ha che possano evitare l’esito infausto di tutti quelli che vi hanno preceduto?

Gli anticorpi si formano nel corso della vita di ogni organismo. Durante la pandemia l’eccesso di igienizzazione secondo alcuni scienziati poteva rallentare il formarsi di anticorpi. Per svilupparli devi entrare in contatto con cose sgradevoli, cioè, come si usa dire, ti devi sporcare le mani.

Per generare gli anticorpi a sinistra bisogna sporcarsi le mani con discussioni, dibattiti, scontri, ragionamenti.

Per tornare all’inizio della nostra conversazione, non c’è nessuno dei protagonisti possibili della rigenerazione della sinistra che si divide sulla politica. Se ragioniamo di pace, di ambiente, di diritti, di libertà, di lavoro quando ci incontriamo c’è un’unica voce. Quando poi si va a ragionare dello stare insieme compaiono i “burocrati della politica” e si sente dire: non dobbiamo più parlare di partito, serve una forma nuova, dobbiamo parlare di rete tra diversi. Non mi sembra un approccio credibile: quando si sta insieme sono matrimoni d’amore e non di interesse. Tanto è vero che tutti coloro che fanno patti prematrimoniali poi sono indotti ad usarli, proprio perché ci avevano pensato prima. Serve invece un eccesso di generosità. Quel che forse manca a sinistra è proprio la generosità, il mettere da parte se stessi. Lo dico perché non credo più nei leader, perché nella società di oggi i leader si consumano davvero molto rapidamente.

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