Come è noto il Consiglio dei ministri ha approvato, in via preliminare, il testo di legge proposto dal ministro Roberto Calderoli sull’autonomia differenziata, lo scorso 2 febbraio. Non a caso ciò è avvenuto alla vigilia di importanti elezioni regionali, in particolare quella lombarda, per permettere alla Lega di cantare vittoria. Il testo di legge presenta elementi di incostituzionalità ed è assai approssimativo su molti aspetti. Persino Stefano Bonaccini, che si era unito ai presidenti di Lombardia e Veneto nel chiedere l’autonomia differenziata, nel corso della contesa, poi persa, per la segreteria del PD, ha preso le distanze dal testo di Calderoli, giudicandolo irricevibile. Vedremo presto se si è trattato solo di una mossa nella contesa con Elly Schlein, oppure di un effettivo ripensamento.
Ma sarebbe un grave errore sottovalutare il progetto governativo. Innanzitutto perché esso non nasce oggi. Le sue radici affondano nel periodo montante della globalizzazione. Infatti a metà degli anni Novanta Kenichi Ohmae, che è stato senior partner della McKinsey & Company, nonché consulente molto apprezzato di governi e multinazionali – un vero alto funzionario del capitale – scriveva che gli Stati-nazione erano oramai diventati “unità di business artificiose, o addirittura inammissibili, in un’economia globale”. Al posto loro si ergevano i nuovi “Stati-regione”, di cui il Kansai attorno a Osaka e la Catalogna erano alcuni degli esempi portati. In base a questa analisi si domandava che senso avesse “pensare all’Italia come una entità economica coerente all’interno della Ue” quando “esistono invece un Nord industriale e un Sud rurale, che differiscono profondamente in ciò che sono in grado di dare e in ciò di cui hanno necessità”.
La via indicata non poteva essere dunque che la fine dell’illusione cartografica, l’abbattimento (per il capitale e i suoi agenti) dei confini diventati virtuali, la ricerca dell’unione tra regioni forti (“le aree omogenee di business”) con il corollario dell’abbandono al loro misero destino di quelle deboli. Infatti più o meno nello stesso periodo quello che anni dopo sarebbe diventato l’arcigno ministro delle finanze del governo tedesco, Wolfgang Schauble, lanciò, assieme a Karl Lamers, il progetto di un’Europa limitata a un nucleo forte centrale, la Kerneuropa, escludendo i paesi e le economie periferiche. Un progetto che ogni tanto ritorna, come un rigurgito nella veste dell’Europa a due velocità.
Le crisi che si sono succedute in questi anni, quella economico-finanziaria, quella pandemica e quella derivata dalla guerra russo-ucraina hanno provocato una frammentazione delle catene di approvvigionamento delle materie prime e della creazione del valore. Ma questo non pone fine alla globalizzazione, anzi ne esalta le intenzioni di rafforzare il legame tra aree geograficamente e culturalmente più vicine. Per il capitalismo contemporaneo più che mai le diseguaglianze interne ed esterne ai paesi sarebbero un fattore di competitività che accrescerebbe lo sviluppo, anche se la storia ci ha insegnato esattamente il contrario.
Se rimaniamo al quadrante italiano, anche i recenti dati dell’Agenzia per la coesione territoriale, confermati nella sostanza da analoghe ricerche di Bankitalia, dimostrano l’aggravarsi delle diseguaglianze, che peggiorerà nel 2023. Per fare solo qualche esempio: la spesa pubblica pro capite è pari a poco meno di 19.000 euro in Lombardia, viaggia sui 16.000 in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14.000 in Sicilia, in Calabria a 15.000, in Campania a 13.700 euro. Ben si comprende la reazione di 51 sindaci del Sud, di diverso schieramento politico, che si sono appellati al capo dello Stato per fermare il progetto Calderoli. La “secessione dei ricchi” non è quindi uno slogan polemico, ma l’esatta definizione dei processi economici che sottendono al progetto di autonomia differenziata, che peraltro significherebbe anche la fine di fatto del contratto collettivo nazionale di lavoro.
Un altro errore sarebbe quello di concentrare tutta l’attenzione sul disegno di legge Calderoli. Anche se questo non ci fosse, o venisse modificato o cancellato, l’autonomia differenziata si potrebbe fare lo stesso attraverso l’intesa fra il governo e le singole Regioni interessate, presentando al Parlamento una legge preconfezionata da ratificare senza entrare nel merito delle norme contenute. Come prevede la sciagurata modifica costituzionale del 2001. Per bloccare il progetto di autonomia differenziata bisogna quindi cambiare almeno in parte il Titolo V della Costituzione, in particolare gli articoli 116 e 117.
È quanto si propone di fare la proposta di legge di iniziativa popolare di revisione costituzionale, elaborata da Massimo Villone, con la collaborazione e l’adesione di oltre 120 giuristi, meridionalisti, docenti e attivisti sociali, oltre che dei sindacati CGIL e UIL della scuola. A cui si è aggiunta l’adesione dell’ANPI e dell’ARCI, nonché di diverse associazioni di operatori sanitari. Molti comuni del Sud, in particolare in Puglia e in Calabria, si sono apertamente contrapposti al progetto governativo. Il Consiglio comunale di Napoli ha recentemente votato un ordine del giorno che impegna la Giunta a rifiutare il disegno dell’autonomia differenziata e a sostenere la proposta di legge di iniziativa popolare.
Nella sostanza questa proposta poggia su quattro punti.
Il primo. Cancellare il carattere pattizio presente nella formulazione attuale dell’art. 116.3 che restringe l’attribuzione dell’autonomia alla trattativa di stampo privatistico tra la singola Regione e il Ministero delle Autonomie. Questo procedimento conduce alla emarginazione del Parlamento; irrigidisce il regime giuridico risultante in una potenziale irreversibilità. Inoltre, va chiarito e rafforzato il legame necessario a specificità del territorio che giustifichino il regime differenziato. Va infine introdotta la possibilità di una verifica consentendo la richiesta di referendum nazionali sia approvativi che abrogativi delle leggi recanti le intese.
Il secondo. Riformulare i livelli “essenziali” delle prestazioni in livelli “uniformi”. Si cancella in tal modo il concetto di una diseguaglianza, che sarebbe addirittura costituzionalmente consentita, e si ripristina un più corretta implementazione del principio fondamentale di cui all’art. 3 della Costituzione.
Il terzo. Alcune materie strategiche per l’unità del paese vengono spostate dal catalogo delle competenze concorrenti di cui all’art. 117.3 all’elenco della potestà esclusiva statale ex art. 117.2. In primo luogo la tutela della salute, per ripristinare in prospettiva un servizio sanitario effettivamente nazionale, che la pandemia ha ampiamente dimostrato non più sussistente. Inoltre la scuola, unitamente all’università e alla ricerca, la cui disciplina uniforme è in vario modo strategica per l’unità della Repubblica. Infine altre materie relative alla infrastrutturazione materiale e immateriale, rilevanti sotto il profilo di diritti individuali, dell’eguaglianza, e dell’efficienza complessiva del sistema-paese.
Questa proposta di modifica parte dalla considerazione che una frammentazione del paese e una rottura dell’unità possono venire anche al di fuori dell’applicazione dell’art. 116.3 e dell’autonomia differenziata, in base al riparto di competenze oggi vigente. Come è stato già segnalato, il sistema sanitario nazionale si è dissolto senza alcuna applicazione di autonomia differenziata, in base alla potestà legislativa concorrente regionale in materia di salute. Lo stesso potrebbe avvenire per la scuola, come ha dichiarato il 12 luglio 2019 il lombardo Fontana, richiamando la sentenza 13/2004 della Corte costituzionale.
Sulla scuola le richieste di Lombardia e Veneto si estendevano alla facoltà di bandire concorsi trasformando i docenti in impiegati regionali; aumentare i fondi per le scuole con risorse regionali; diminuire il numero di alunni per classe; regionalizzare gli Uffici scolastici regionali (Usr); integrare gli stipendi dei docenti regionali con fondi della Regione; gestire anche la mobilità dei docenti, con la possibilità di aumentare gli anni di permanenza a più di 5 dopo l’assunzione in Regione. Si può ben comprendere quindi il grande interesse delle Regioni per la scuola, se si considera che la regionalizzazione integrale metterebbe nella disponibilità del ceto politico regionale un esercito di efficacissimi organizzatori di consenso, capaci di entrare in ogni famiglia di cui curano l’educazione dei figli. Obiettivo in larga parte raggiungibile già con l’esercizio della potestà concorrente in materia di istruzione riconosciuta dall’art. 117.3. Da ultimo, il ministro Giuseppe Valditara propone una differenziazione retributiva in base ai territori. Ipotesi subito opportunamente respinta dai maggiori sindacati della scuola.
Analoga frammentazione sarebbe possibile anche in altre materie di cui all’art. 117.3. Si potrà altresì ricordare che nelle bozze di intesa che hanno avuto in passato circolazione si ipotizzava la regionalizzazione di ferrovie, autostrade, porti, aeroporti, ambiente, beni culturali di primario rilievo e altro ancora. La proposta di legge di iniziativa popolare è volta a impedire che singole regioni perseguano di propria iniziativa obiettivi inaccettabili di diversificazione territoriale già sulla base del riparto di competenze vigente.
Il quarto. Si introduce una clausola di supremazia della legge statale, tipica degli ordinamenti federali, come gli Stati Uniti, o la Repubblica federale tedesca. Uno degli errori commessi con la riforma del Titolo V del 2001 fu la cancellazione dell’interesse nazionale come limite generale nel riparto delle competenze. Non fu colta la fondamentale aporia che si introduceva nel testo, dal momento che una Repubblica una e indivisibile (art. 5 Cost.) non può non legarsi strettamente a un interesse nazionale. Questo errato assunto fu in parte superato con l’art. 120 del Titolo V riformato e il richiamo all’unità giuridica ed economica della Repubblica, senza però cogliere la contraddizione implicita nel prevedere un limite solo per i poteri sostitutivi del governo, e quindi in ipotesi quando il danno all’unità fosse in atto o fosse già avvenuto. Essendo invece ovvia l’opportunità di prevedere un potere del legislatore statale di definire in termini generali ex ante i limiti funzionali all’esigenza di unità, in modo da prevenire il danno.
A differenza del passato il Senato ha l’obbligo di discutere le proposte di legge popolari che quindi non finiscono più a marcire nei cassetti. Servono almeno 50.000 firme. La raccolta è in corso. Abbiamo ancora un paio di mesi per completare le 50.000 firme richieste. Si può firmare sui moduli cartacei oppure online.
Per firmare online (con Spid) per la proposta di legge di iniziativa popolare di revisione costituzionale: www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it
Qui il PDF
Sono contro la secessione
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