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Articolo pubblicato su “Il Riformista” il 27.09.2022.

Con la stessa precisione di un treno del ventennio, si è ripresentato alle urne il regolare pendolo che accompagna le elezioni della Seconda Repubblica. Dopo il governo del tecnico, che ragiona con i numeri, i vincoli esterni e le compatibilità, subentra il leader che azzera il tempo, i limiti di bilancio e i calcoli degli investitori. E il politico di professione, ma eccentrico, si presenta stavolta con la faccia di Giorgia Meloni, che annuncia che “la pacchia è finita”, minaccia le “devianze” e balla sul palco di Bagnoli promettendo la flat tax con tanti altri ben di Dio.

Per certi versi, il voto che la porta al 26% è un ritorno alle origini della Seconda Repubblica. La maledizione dei postumi del governo tecnico fa riemergere le ferite ricoperte solo in apparenza con un’opera di rimozione. Nel 1994 ci fu l’intervento di Berlusconi che scolorì l’onda nera che altrimenti sarebbe già emersa con forza. Per alcuni decenni il cavaliere è stato l’amalgama di una coalizione competitiva che ha normalizzato la ringalluzzita area post-missina ospitandola nelle istituzioni e nel governo ma al prezzo di un contenimento della forte espansione dell’ex Msi alle urne. Berlusconi ha occupato uno spazio elettorale di destra che altrimenti sarebbe stato a disposizione della volontà di conquista del polo escluso. L’operazione di Fiuggi e il Predellino avevano dapprima normalizzato il pensiero post-fascista, e poi inglobato nel Pdl la vecchia organizzazione, relegata oramai in una posizione così subalterna da essere agevolmente destrutturata dopo l’affare della casa di Montecarlo.

Il vuoto politico lasciato dalla destra post-missina è stato per qualche anno occupato con abilità da Salvini. Con la sua svolta nazionalista–securitaria ha raccolto una Lega esaurita dagli scandali (di un familismo amorale con lauree false in Albania e diamanti investiti in Tanzania) portandola addirittura al 18%, grazie ad una metamorfosi da forza regionalista in soggetto che occupa lo spazio della destra radicale sovranista. Il balzo alle successive europee, garantito dalla battaglia navale contro i migranti, indusse il capitano alla follia del Papeete da cui non si è più ripreso. Il tonfo all’8,7% segna la probabile fine dell’avventura del capitano. Dal clamoroso passo falso compiuto nel 2019 dal titolare del Viminale originano le fortune di Giorgia Meloni, che aveva fondato anni prima un partitino in apparenza improbabile, con la riesumazione dei simboli e delle culture post-fasciste. All’onda lunga del Papeete è riconducibile anche la sopravvivenza del M5S, graziato dal Pd con una operazione trasformistica che consegnava le chiavi di Palazzo Chigi allo stesso inquilino che vi aveva alloggiato in compagnia del capitano leghista. L’esaurimento elettorale del berlusconismo (rimane comunque ad un limite di sopravvivenza dell’8,1%) e il declino della Lega, maltrattata in malo modo dai meloniani anche nel profondo Nord, inducono le truppe della destra a disporsi disciplinatamente sotto lo scettro della donna e patriota.

I numeri dicono che FdI ha dieci punti in più della somma dei due partiti alleati. Residuali sembrano diventate, entro questi rapporti di forza, le possibilità di una riattivazione degli eterni giochi parlamentari tendenti alla decomposizione delle aggregazioni elettorali vittoriose solo alle urne ma sprovviste di una capacità di tenuta nelle aule parlamentari. Non che i mugugni di Berlusconi o la crisi esistenziale della Lega rassicurino Meloni circa un percorso indolore del suo governo. Ma la dissoluzione rapida della coalizione è un’ipotesi, non una certezza dogmatica. E per questo, al di là delle scorciatoie trasformistiche, servirebbe anche una iniziativa politica capace di aggregare un nuovo polo liberale centrista incardinato sui resti della Lega dei governatori, su ciò che rimane di Fi e sulle ambizioni del Terzo Polo che, pur non raccogliendo un consenso effimero, è andato comunque al di sotto delle aspettative in doppia cifra. Una riprogettazione politico-culturale non può essere più rinviata dal Pd. Con il 19% subisce una sconfitta definitiva, gli rimane però almeno il tempo per gestire in autonomia le forme del ripensamento identitario-organizzativo. L’errore originario che ha causato la sconfitta è stato il gran rifiuto di Zingaretti di andare alle urne e sfidare il capitano furioso del Papeete in campo aperto. Avrebbe avuto maggiori chance allora, il Pd, di quelle impossibili rimaste per il 25 settembre. Anche nella ipotesi di una sconfitta, la polarizzazione avrebbe sciolto l’equivoco dei 5 Stelle e favorito la ricostruzione di un partito già in ripresa, con il quasi 23% incassato alle europee.

La soluzione trasformista ha dato, invece, una cura solo effimera perché il puro connubio parlamentare non è l’alternativa al populismo, ma è un fenomeno ad esso del tutto speculare. Per paura del capitano nero, peraltro più facilmente aggredibile in battaglia come il nemico ideale, si è costruito il mito della madre, cristiana e patriota, che è una figura meno polarizzante una volta scartata la demonizzazione del nero. Non è stato propriamente un capolavoro tattico. Oltre all’errore originario del 2019, il Pd sconta la dogmatizzazione del governo Draghi (i partiti che hanno affossato l’esecutivo, aggiunti a quello sempre all’opposizione, hanno raccolto circa il 60% dei voti). Non ha colto la metamorfosi di un’esperienza che, da necessaria modernizzazione-razionalizzazione capitalistica, si tramutava in una operazione atlantista percepita da una fetta dell’elettorato tradizionale come tradimento delle idealità di pace, di soluzione politica dei conflitti, di ruolo diplomatico attivo dell’Italia e dell’Europa. Insieme all’arte della ritirata, cui segue la destrezza nell’attitudine di insinuarsi nelle contraddizioni del campo ostile per dividerlo, il Pd dovrebbe apprendere anche la scienza dell’attacco, e provare anche a vincere qualche consultazione. Se lo scenario del “campo largo” ha alimentato l’ideologia del M5S, fresco artefice delle leggi salvinissime, come un solido partito riformista-progressista, la punizione inflitta ai grillini culminata con la scissione di Di Maio ha dato la forza a Conte di presentarsi in solitario come il leader di una aggregazione sociale alternativa. Nel 15% dei suoi voti, viene raccolto il sostegno di una coalizione sociale monotematica (quasi tre milioni sono i percettori del reddito di cittadinanza), cui si è aggiunta anche una quota di voto di opinione proveniente dalla sinistra che ha fatto scivolare il Pd al di sotto della soglia simbolica del 20%.

La natura peculiare del successo di Conte come “sindacalista del Sud” (il 40% a Napoli lo conferma) rende ardua l’idea che da quell’area possa scaturire un processo complesso di ricostruzione della sinistra. I tre leader post-democristiani (Letta, Renzi e Conte) non hanno trovato la via di una intesa elettorale in grado di impedire che Meloni giungesse al potere a dispetto di una maggioranza addirittura assoluta di votanti che ha scelto i molti simboli del centro-sinistra diviso. La sinistra deve partire dalla sconfitta epocale (per un partito concepito come il Pd aver subito lo scacco matto dalla leader della destra post-fascista equivale all’esaurimento della propria funzione) per ritrovare in fretta idee, forze e organizzazioni. Il vincolo esterno, le reazioni dei mercati bloccheranno le strategie della finanza creativa promesse per la miracolosa riduzione del carico fiscale. Inibito il cammino dell’abbattimento delle tasse, il governo virerà sui terreni prediletti dalle destre, quelli dove la vigilanza di Bruxelles e degli investitori internazionali è assai più elastica. Così le politiche simboliche (diritti civili, aborto, revisionismo storico) resteranno come le sole armi disponibili per polarizzare. Il lavoratore, che ha votato a destra perché pensava che i nemici del futuro governo sarebbero stati altri (i migranti, i “devianti”, i creativi, i fannulloni percettori di un reddito di cittadinanza), e quindi poteva anche restare tranquillo confidando pure lui nel silenzio del sindacato che annunciava il sereno della pace sociale, dovrà però ricredersi.

Non basta al governo dell’ultra-destra prendersela con le preferenze sessuali. La crisi, il risanamento, i super-bonus per i proprietari dovranno pur essere pagati. E il lavoro rimane come sempre il più sicuro bancomat delle coalizioni di governo. La flat tax e il reddito di cittadinanza sono una forma di redistribuzione del reddito che proprio dal lavoro si trasferisce alla rendita e al profitto, nel primo caso, alla disoccupazione e alle attività sommerse e in nero, nel secondo. Serve alla sinistra una coalizione sociale e politica. Non è mica semplice. Se per sociale si intende il bonus per la veranda o per i monopattini, il superbonus per aggiustare la seconda casa del ceto medio, o forme di sussidio non accompagnate da efficaci politiche attive del lavoro, è difficile privilegiare i beni pubblici nei bilanci statali. Non si aggrediscono i nodi delle diseguaglianze e dell’eutanasia dei beni pubblici se non si rilancia la crescita. La stessa questione vitale del salario non si può più ridurre al solo abbassamento delle aliquote fiscali, che comporta ulteriori tagli ai beni collettivi. Il sindacato e i partiti devono tornare, direbbe Brecht, ai “rapporti di produzione”, al conflitto, alle classi sociali, non rinchiudersi nel regno del fisco per ingegnarsi su come regalare bonus e superbonus nell’eutanasia del pubblico. Ciò comporta una conquista di autonomia politica e culturale perché, come diceva Gramsci, senza una teoria autonoma non può esistere un partito autonomo.

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