Ambiguo: dal latino ambigĕre, dubitare; dal significato incerto, che può essere variamente interpretato. Il reddito di cittadinanza è stato indubbiamente ambiguo: denominato come quel che oggi è sperimentato – non in Italia – come universal basic income; disegnato, invece, come uno schema di reddito minimo selettivo e anzi discriminatorio, pure ‘condizionato’. In pratica, per accedere a quel che è un diritto sociale, e per beneficiarne, il reddito di cittadinanza italiano è stato indissolubilmente legato a un percorso di inserimento nel mercato del lavoro o, al massimo, di inclusione sociale. A non avere l’obbligo di andare a lavorare è stato, ad esempio, un beneficiario – o una beneficiaria – con carichi di cura legati alla presenza di soggetti minori di tre anni di età; come se, dopo i tre anni di età, si diventasse improvvisamente autonomi o come se il lavoro di cura non fosse un lavoro.
Eppure, nell’immaginario collettivo, il reddito di cittadinanza è stato sin da subito un ‘reddito da divano’, un ‘costo per giusti contribuenti’ ovvero un danno all’economia e alla società, a partire da un dibattito pubblico accesso e diffuso tra diversi interlocutori, riguardante per lo più le criticità della misura e i relativi casi di frode. Questo dibattito, però, non ha fatto molta chiarezza sulla natura neoliberale di una misura varata da un governo populista, non ha granché incluso la voce dei suoi beneficiari, né ha preso in considerazione il luogo in cui abitano gli stessi, e in cui possono ritrovarsi i limiti e le opportunità di costruire una vita senza welfare.
Un dibattito pubblico non solo meno ideologico ma anche più ragionato avrebbe potuto far notare che, a beneficiare del reddito di cittadinanza in Italia, sono stati anche tanti working poor, ben distanti dall’immagine stereotipata dei ‘poveri in vacanza’ o di quelli ‘sdraiati sul divano’. Del resto, in una condizione di povertà lavorativa e in particolare di precarietà diffusa vivono in tanti, non solo in Italia.
La città di Taranto, dove si è ancora costretti a scegliere tra un lavoro in fabbrica (dignitoso quantomeno in termini contrattuali) e una buona salute (per sé come per gli altri), offre uno spaccato emblematico della povertà che può essere anche lavorativa, mentre non può essere mai una colpa. In questo contesto, ho scritto il libro Con il Reddito di Cittadinanza. Un’etnografia critica, edito per Meltemi, proprio per svelare il paradosso di un lavoro svuotato di diritti per beneficiare di diritti, oltre che per comprendere la condizione simbolica, materiale ed esistenziale in cui vivono tutt’oggi beneficiari e beneficiare del reddito di cittadinanza. Ho voluto così dar voce a chi non l’ha mai avuta ma anche fare spazio a una questione così dimenticata, eppure così cruciale, come la povertà lavorativa. A Taranto, tra l’altro, si tratta di una questione che, proprio come l’inquinamento di una raffineria o quello di una discarica, sembra dimenticata da molti ambientalisti che vorrebbero ‘semplicemente’ la chiusura dell’acciaieria ex-ILVA.
Oltre agli stereotipi, è emerso è che molte persone beneficiarie del reddito di cittadinanza sono state, e sono ancora oggi, lavoratrici e lavoratori che riflettono la condizione del mercato del lavoro locale: frammentato, povero di opportunità, ricco di storture, ostile, informale, insostenibile. Si noti bene però che, nel contesto meridionale italiano qui considerato, questi elementi ci sono sempre stati.
Le loro storie sono molto distanti da quelle degli operai di “The hidden injuries of class” di Cobb e Sennet, che hanno lavorato solo per poche aziende nel corso della loro vita. Le trame non sono ben fatte, determinate, modellate all’interno di grandi organizzazioni anch’esse ben definite. Piuttosto, queste sono discontinue e al loro interno è difficile maturare delle esperienze che siano significative e rilevanti, come scrive lo stesso Sennet. Ne è un caso certamente emblematico A., che oggi ha cinquant’anni. La sua storia lavorativa discontinua è iniziata quando, dopo un anno da studente universitario e lavoratore nella città di Torino, ha deciso di tornare al Sud per lavorare con il padre come benzinaio. Poco tempo dopo, però, ha scelto di cambiare nuovamente e di fare il lavoro per cui si era diplomato: il perito agrario presso il consorzio agrario del territorio. Grazie a questo lavoro a tempo indeterminato e ben pagato, A. ha acquistato una casa, si è sposato, è diventato papà. Tuttavia, dieci anni dopo il consorzio è fallito. Da allora, senza perdere la sua tenacia che lo caratterizza tutt’oggi, A. ha tentato e ritentato diverse esperienze imprenditoriali, anche se sono tutte fallite. C’è stato un periodo da imprenditore agricolo, un altro in cui ha personalizzato carte elettroniche, un altro ancora in cui ha gestito un impianto innovativo per il riciclo dei rifiuti, e per finire uno in cui ha fatto l’autista per un orfanotrofio, dove poi ha lavorato anche come mediatore culturale “improvvisato” per rifugiati politici afghani.
Oltre a svolgere ruoli professionali diversi nel corso della loro vita, i beneficiari del reddito di cittadinanza sono soliti svolgere più professioni in uno stesso periodo della loro vita, specialmente durante la stagione estiva dove è possibile combinare più tipi di lavori. Il motivo risiede nella natura dei contratti e nelle condizioni di lavoro più in generale che vengono offerti loro. Generalmente, si tratta di lavori poco remunerati, a chiamata o al massimo a tempo determinato e per un breve periodo di tempo. Ne è un esempio G., che lavora in una pizzeria ogni fine settimana, anche d’inverno quando non è un soccorritore volontario del 118, nella speranza di avere un giorno un’occupazione stabile e continua almeno nel settore sanitario. Oppure ne è un esempio S., che, pur avendo l’abilitazione di avvocato, lavora almeno d’estate come operatrice turistica per meglio contribuire alle spese della sua famiglia insieme al marito barista part-time. A.C. è invece una musicista, ma anche lei fatica ad avere un’occupazione continua e nem remunerata nel tempo.
Per diverse persone che hanno beneficiato del reddito di cittadinanza a Taranto, il lavoro nero c’è stato e c’è ancora. I settori in cui il lavoro nero è “di regola” sono quelli della pesca, dell’assistenza agli anziani o ai diversamente abili e quello della bellezza. Quasi sempre in maniera irregolare, inoltre, lavorano numerosi addetti alle pulizie di abitazioni private, ma anche di affittacamere, di cappelle cimiteriali e di cooperative sociali. Al contempo, il lavoro grigio è ugualmente diffuso. Alcune volte il rapporto di lavoro è legato a un voucher, altre volte a un contratto che viene firmato solo in un secondo momento. Altre volte ancora è un lavoro part-time solo sulla carta: si tratta di una circostanza che è molto diffusa, non solo tra beneficiari e beneficiarie del reddito di cittadinanza.
Infine, vi sono tante beneficiarie che, dopo la nascita di un figlio, sono diventate e poi rimaste disoccupate. A questi casi, si aggiungono quelle beneficiarie che, proprio per dedicarsi alla cura dei figli e della casa, non sono mai entrate nel mercato del lavoro.
Con il reddito di cittadinanza, un’alternativa ai lavori poveri non è stata quasi mai creata; quantomeno, però, si è potuto dire di no a molti di essi. Sono state numerose le denunce degli imprenditori e delle imprenditrici a corto di personale estivo, ma sono state altrettanto numerose e importanti le scelte di chi, grazie al reddito di cittadinanza, ha potuto rifiutare lavori poco dignitosi. C’è persino chi ha immaginato una vita senza di essi, con un lavoro che abbia finanche un senso, per sé e per la collettività. Perché, allora, con l’abolizione del reddito di cittadinanza e l’introduzione dell’assegno di inclusione, si è scelto di tornare indietro, anziché di andare avanti?
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