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Su via Ferrari, a Roma, all’altezza del ristorante Ulisse, dove aveva appena pranzato – da solo – all’aperto, in una mattina di maggio, io quattordicenne riconobbi e impudentemente fermai Mario Scaccia.

Lo avevo applaudito più volte in teatro mentre recitava Petrolini e Molière e ne riconoscevo la statura di Grande Attore. Un Grande Attore non paragonabile – per la sua caratteristica identità – ad altri della sua specie.

Comico e, insieme, torvo, bonario e inquietante, antiretorico per vocazione, Scaccia aveva l’aura di un’apparizione inconfondibile: una manifestazione pura e compiuta dell’incanto che è in grado di regalare il palcoscenico.

Da appassionato spettatore, trovandomelo davanti, gli dissi della mia ammirazione. Poco tempo prima, in Tv, era stato trasmesso un film con Bud Spencer, Il Soldato di ventura, dove Scaccia compariva in un ruolo secondario. E forse per la voglia di farlo parlare su qualcosa di concreto o forse per dimostrargli che lo seguivo, gli chiesi della sua partecipazione al film, formulando però la domanda in modo maldestro e quasi provocatorio: “Perché ha fatto quel film?”. Per inciso, a me i film di Bud Spencer piacevano e non c’era snobismo nel mio modo di considerarli. Eppure, la mia curiosità credo che a Scaccia sia suonata come: “Perché un attore del suo livello compare in un film del genere?”. Con il suo tono perentoriamente asciutto, affilato, Scaccia mi rispose “Perché sono un attore-artista”.

Non era una sentenza presuntuosa ma la sintetica anamnesi del suo modo di intendere il mestiere.

Non era solo una maniera per dire: “Un attore come me può fare quello che vuole”, quanto il guizzo rappreso, lucido, di un’intenzione costante: attraversare ogni forma espressiva con la propria unica impronta.

In un’accezione molto ampia e magari fuorviante, mi è sempre parso che Scaccia fosse l’attore brechtiano per eccellenza (anche se non l’ho mai visto recitare Brecht). Perché era evidente, in lui, lo Zeigen das zeigen (letteralmente: mostrare il mostrare) che l’autore del Galileo cercava di trasmettere ai suoi interpreti. Ovvero: in Scaccia non c’era mai l’equivoco del personaggio. Restava sempre l’attore che metteva in scena il suo corpo, la sua voce, il suo farsi strumento.

Spesso Scaccia si piantava al centro della scena, artigliato alle assi della ribalta, guardando nel vuoto. E, con quella sua aria grifagna, sospesa, perfettamente fuori e precisamente dentro ciò che stava rappresentando, svelava – nascondendolo nella sapienza tecnica, nel controllo perfetto dei suoi mezzi – l’artificio del gioco.

Un binomio elettivo, per Scaccia, è stato quello con Petrolini. Non gli somigliava fisicamente, non lo imitava, non lo ricordava, eppure ne centrava lo spirito, ne restituiva intera la figura: la dimensione surreale impastata di realtà, la veracità romana che si congela nell’assurdo, la divagazione bambinesca e l’esattezza dei tempi, delle chiuse, dei deragliamenti che interrompono la finzione, facendone crollare gli assunti, sfaldandone le ragioni logiche con la battuta.

Il Petrolini di Scaccia, in modo naturale, senza forzature critiche, si aggancia sia ai filosofemi pirandelliani che all’afasia di Beckett, al rovesciamento di senso di Ionesco e di Jarry. Il teatro che scopre il vuoto ma non rinuncia a restituirlo, con le ultime forze rimaste, e a convertirlo in ridicolo.

Non so se sia leggenda o un ricordo ingigantito dal mito, ma un suo collega raccontava che, durante una prova, era calato un buio totale in teatro, proprio mentre Scaccia avanzava verso il proscenio per un monologo. E che lui si fosse fermato d’istinto, a un millimetro dal baratro.

Difficile pensare a un altro attore più ferocemente organico al palcoscenico e al suo denudamento obbligato (“spogliarello psico-fisico” lo definiva), al palpito delle pause, alla tenuta di una tensione invisibile. Se è vero che di lui restano, per fortuna, testimonianze nei film e nelle registrazioni dei suoi lavori, Scaccia invera la dannazione di chi è indissolubilmente connesso al momento dell’espressione viva, dell’esperienza da condividere con gli altri. Al teatro, insomma. Che è traccia precaria, destinata a scolorire nel mistero

Mi capitò di incontrarlo un’ultima volta, davanti all’ingresso del Valle, prima della replica di uno spettacolo in cui interpretava un Goldoni alla fine della vita, a 86 anni, nell’atto di snocciolare le sue memorie. Scaccia, che di anni ne aveva già 84, si trattenne un attimo a parlare e poi, con scarto soave, infilò l’ingresso dicendo: “È tardi… Devo andarmi a truccare da vecchio”.

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