Democrazia, Temi, Interventi

Ringrazio il Presidente della Commissione per avermi invitato a prendere parte a questo ciclo di audizioni avente ad oggetto l’esame dei disegni di legge 57 e altri (Disposizioni in materia di elezione diretta dei presidenti delle province, dei sindaci metropolitani e dei sindaci).

Una questione che interroga da vicino le turbolente trasformazioni che hanno, in questi anni, investito il livello di governo provinciale e le ragioni che le hanno innescate.

Ragioni di carattere prevalentemente economico e finanziario. Non è un caso che la richiesta di procedere in tempi brevi alla soppressione di questo livello di governo fosse già contenuta in quel celebre manifesto dell’austerity che fu la lettera Draghi-Trichet del 5 agosto 2011, nella quale si affermava espressamente «l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)».

Il governo Berlusconi non avrebbe esitato – appena una settimana dopo (13 agosto) – a procedere all’approvazione del decreto-legge n. 138 del 2011 avente come oggetto l’abolizione delle province. Soluzione poi venuta meno in sede di conversione del decreto-legge.

Ne sarebbe seguita con la formazione del Governo Monti:

  1. l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione (legge costituzionale 1/2012 di riforma dell’art. 81 Cost.)
  2. il varo del decreto n. 95 del 2012 (Spending Review) che all’art. 17 tracciava un articolato processo di riforme finalizzato al superamento delle Province, assumendo – ancora una volta – quale presupposto di base il «conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica imposti dagli obblighi europei necessari al raggiungimento del pareggio di bilancio».

Le conseguenze innescate dalla smodata stesura di queste norme le conosciamo.

In primis, la presa di posizione del giudice costituzionale che, con la sentenza n. 220/2013, ha duramente censurato l’impiego della legislazione di urgenza al fine di introdurre modifiche ordinamentali. In particolare la Corte ha puntualmente rilevato che «il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema».

E di rimbalzo l’incauta decisione, nella XVII legislatura, di procedere alla risolutiva abolizione delle province con legge (l.56/2014, cd. legge Delrio). La normativa avrebbe dovuto trovare la sua copertura costituzionale in occasione della revisione del 2016. Revisione approvata in Parlamento, ma – com’è noto – travolta dal referendum costituzionale del 4 dicembre di quell’anno.

Questa normativa, una volta entrata in vigore, avrebbe agito su due piani:

  1. l’immediata dissoluzione delle funzioni amministrative in capo alle province ed il loro caotico assorbimento da parte delle Regioni (la cd. amministrativizzazione delle regioni). Opzione che, scontando una sorta di eterogenesi dei fini, non poteva che avere quale prevedibile esito l’incontrollata proliferazione di agenzie e organismi collegati alle Regioni destinati a incrementare smisuratamente la spesa pubblica, come rilevato anche dalla Corte dei Conti.
  2. la rottura del vincolo democratico e la trasformazione delle province in enti di area vasta con rappresentanza di secondo grado. Una soluzione destinata a ripercuotersi non solo sugli assetti complessivi degli enti locali, ma più in generale sugli assetti della Repubblica.

È a tutti evidente il nesso che lega l’art. 114 Cost. all’art. 1 Cost.: la Repubblica ripartita in comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato (art. 114 Cost.) è la Repubblica democratica (art. 1 Cost.). Questo implica che ciascuno dei livelli di governo menzionati debba godere di legittimazione democratica diretta ed esercitare, su queste basi, le istanze di autogoverno che la Costituzione gli riconosce.

Profilo questo sul quale, con rilievi del tutto specifici, è recentemente intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza 240/2021. Con la quale il giudice delle leggi non ha esitato a censurare la «mancata previsione della natura elettiva di una carica, quella di sindaco della Città metropolitana, pur a fronte dell’esercizio, da parte di quest’ultimo, di poteri che investono l’intera collettività residente nel territorio e non solo quella insediata nel Comune capoluogo, che pure elegge il suo sindaco». Di qui «la radicale menomazione» del diritto di voto e la «preclusione assoluta» del suo esercizio.

In questo quadro ciò di cui vi sarebbe oggi bisogno è una vera e propria riscrittura della forma di governo territoriale che vada direttamente ad incidere sugli assetti costituzionali. Una revisione resa necessaria alla luce degli esiti fallimentari prodotti dalla riforma del titolo V del 2001.

Per ciò che concerne la legislazione ordinaria vi è invece da dire che le ipotesi di riforma, avanzate in questa sede, presentano luci e ombre.

Luci perché si propongono finalmente di far fronte al vulnus democratico che ha, in questi anni, investito il governo locale, reintroducendo il sistema di elezione a suffragio universale.

Ombre, perché in modo del tutto stantio questi progetti si limitano a riproporre modelli vecchi, usurati dal tempo e, per molti aspetti, fallimentari. Tutti imperniati sull’elezione del capo del governo locale. Non comprendendo che il punto di debolezza del sistema – di emergenza oserei dire – più che nella mancata elezione, in via diretta, del presidente della provincia o del sindaco metropolitano, risiede nella condizione di estrema debolezza, se non di evanescenza, in cui versano tutte le assemblee politiche a livello territoriale (dai Consigli comunali a quelli regionali).

Quella che viene oggi proposta è una parziale correzione di rotta, laddove sarebbe invece necessaria una risoluta inversione di tendenza.

A ciò si aggiunga che alcuni di questi progetti mantengono un’aderenza eccessiva al dogma dell’austerità. A tal punto che il disegno di legge n. 367 si spinge fino ad abolire il ballottaggio, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, proprio in ragione degli «inevitabili costi» che questo comporta per lo Stato.

Una soluzione che non mi sento di condividere perché è destinata a indebolire ulteriormente la legittimazione politica dell’azione di governo locale.

Insomma ho l’impressione che a furia di ridurre le spese per il funzionamento della democrazia ciò che rischiamo è la compressione stessa degli spazi della democrazia.

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