Interventi

Vi sono tempi storici disperati che non si colgono, o, meglio, non possono esser colti se non traendo origine da un esistenzialismo altrettanto disperato. Oppure, forse, non esiste tempo storico alcuno che non possa esser intuito, se non traendo origine dalla propria esperienza. E, ad ogni modo, vi sono epoche che, più di altre, richiedono la messa in gioco del proprio corpo. Sono quei tempi storici disgregati, frantumati in cui le categorie dominanti perdono il loro antico valore, e non riescono più ad afferrare la realtà. È qui, dunque, che la riunificazione della realtà può originare solamente dalla radicalizzazione della disgregazione di se stessi. Andare a fondo, esistenzialmente, in questa scissione, per intravedere in essa una riarmonizzazione, sempre conflittuale, della realtà.

È questa la critica più profonda che si può compiere alla scena di un altro bellissimo film, Stardust Memories di Woody Allen, in cui si afferma ‘cercano di documentare le loro personali sofferenze e le contrabbandano per arte’. Perché, infatti, in quelle epoche a cui accennavamo, sono le esistenze singole, o, al più, le ‘comunità di esistenze’, a cogliere il dolore generazionale nel tentativo di rimettere in moto, di rivitalizzare il processo storico. Non si può agire allo stesso modo in qualsiasi periodo storico, e non si può ingannare se stessi affermando che esista una comunità in cui poter trovare il proprio posto, o, ancora, che il mondo sia, nel tempo-ora, riaggregato. In questi periodi si deve anche saper preparare, originare dalle proprie interiorità il movimento. Nanni Moretti, regista di ‘Bianca’, a cui finalmente arriviamo, afferma in una intervista ‘mi capita di raccontare vicende personali che riescono a catturare sentimenti universali’.

Ecco, è questa relazione di esistenza e politica, questo groviglio non dipanabile presente sin dai suoi primi film, da ‘Io sono un autarchico’ a ‘Sogni d’oro’, passando per quel capolavoro di ‘Ecce bombo’, prendere posizione, in un circolo, sui problemi della propria generazione per affrontare le proprie inquietudini giovanili, e, ancora, parlare dei propri drammi esistenziali, per approfondire il ‘mondo della crisi’, una ‘Kultur’ che si frantumava. ‘Bianca’ esce nel 1984, è il suo quarto lungometraggio da regista. È, ancora, presente quel fuoco giovanile, ma in una forma maggiormente lucida, brillante. Una passione che prende forma, la massima esemplificazione di apollineo e dionisiaco di cui era alla ricerca sin dai suoi primi film. Ecco, dunque, in ‘Bianca’ ritroviamo, insieme, autonomi e legati, crisi esistenziale e generazionale, o, più esplicitamente, tragedia esistenziale che si fa portatrice di quella generazionale.

È questo insieme di molteplici componenti che contribuiscono a creare l’unicità di Michele Apicella, alter-ego di Nanni Moretti fino a ‘Palombella rossa’, il celebre film dell’89. In ‘Bianca’ questa figura si incarna in un giovane professore di matematica, il quale, dietro ossessioni, manie e fobie, nasconde il volto, profondamente solo, della ‘crisi della Kultur’. È l’alienazione il nucleo, la tragica presa di consapevolezza dello scacco di ogni dialogo, e di ogni possibile autentica relazione umana.

Quello che viene restituito allo spettatore è un profondo senso di spaesamento, nel seguire questo anti-eroe, dentro, e, insieme, contro il mondo moderno. La sua è una ribellione disperata, la quale manifesta una impossibilità di continuare a vivere tra il non-più e il non-ancora, con un ultimo grido di dolore.

Un corpo estraneo nel proprio lavoro, nella scuola in cui insegna, la ‘Marylin Monroe’, rappresentazione parodica dell’avanguardismo, con al proprio interno, bar, slot-machine, e professori vagamente alternativi, di fronte a studenti apparentemente brillanti, sempre pronti a mettere in discussione il valore dei propri insegnanti. Una scuola, il cui fine ultimo, con le parole del preside, ‘non è formare, ma informare’.

Un corpo estraneo rispetto alle relazioni sociali, rispetto ai nuovi miti, in particolar modo se condensati di retorica, e privi di autenticità. ‘Cos’è questa storia dell’indipendenza? Nessuno è veramente indipendente’, andare oltre il ‘si dice’, e comprendere ciò che vi è al fondo di questi nuovi processi. Questa critica che sembra andare al cuore del mito dell’indipendenza, quando esso si converte in individualismo, e quando, ancora, la ribellione si trasforma nella sconfitta della comunità. Ripensare le categorie della liberazione all’interno della comunità, nel tentativo di andare oltre vie di uscita individuali che, spesso, finiscono per trasformarsi in gabbie ancora più oppressive. Il problema si pone quando l’emancipazione si avvicina, pericolosamente, ai processi paralleli di ascesi e di dispersione, di separazione, in entrambi i casi, dalla cura, autentica, per l’altra persona. Tutto questo racchiuso in quel finale, così romantico e attuale, ‘è triste morire senza figli’.

È traendo origine da questo finale drammatico, che possiamo ri-comprendere il nucleo narrativo. Perché, al fondo, come abbiamo detto vi è l’alienazione. Ma, alle radici, quale è l’alba di questo oscuro mondo che estrania gli esseri umani, alienandoli e rendendoli incomunicabili? È un mondo, secondo le parole di Apicella, in cui è ‘tutto più confuso, in cui uno stile si è intrecciato a un altro, in cui le cose non sono più nette’. Un mondo che comincia a sgretolare quella molteplicità tenuta, precedentemente, insieme da un processo unitario, e, ancora, una epoca che comincia a spezzare la dialetticità dei punti di vista.

È la prima luce di un mondo che abbandona la dialettica e la mediazione. Perché esse non inglobano più i processi reali, esistenziali, e perché essi, d’altro canto, non accettano più di essere dialettizzati. È una disarmonia reciproca, e ciò che resta è il negativo, il dolore di questo mondo. Un mondo di esistenze, le quali tentano di rispondere all’abisso con vie di fuga che si incontrano, si accordano, e, quindi, si perdono, in un eterno ritorno dell’uguale.

Ecco, come questo negativo può prendere la direzione di una vocazione affermativa rispetto al mutevole e alla molteplicità. Una non accettazione del rallentamento, della sospensione, coniugata a una tensione spasmodica al movimento, e all’innovazione. Considerare ogni evento alla stregua dell’ultimo, ed essere pronti ad abbandonarlo se un nuovo avvenimento assume la parvenza di un positivo, ulteriormente rafforzato. Riapprodiamo, dunque, al film, e ai personaggi di Ignazio e Marina, per cui ‘nessuno può appartenere a un altro in modo assoluto’, e, allora, eccoli, nel corso del film, stare insieme, per poi lasciarsi, e, infine, ritornare a stare insieme, seppur decidendo di comune accordo di continuare a ‘frequentare’ altre persone.

Ed è qui che si inserisce Michele Apicella, e la sua risposta all’abisso e al negativo. È la soluzione della scienza e della matematica. Un illuminismo che nasce dal dolore, come in quella bellissima scena, in cui il professore chiede, e si chiede, ‘perché tutto questo dolore a te sembra giusto? A me no, mi devo difendere’. È l’illuminismo inteso come tormentata ricerca del punto fermo ‘Jacobiano’, che non può divenire esperienza, prassi, che può, esclusivamente, distinguere, rigorosamente dall’esterno, ‘bene e male, bello e brutto, sano e malato’. È illuminismo inteso, paradossalmente, come utopismo, creazione di armonia in un mondo frantumato.

E, ad ogni modo, avremmo compreso esclusivamente la superficie, se non richiamassimo l’ironia che fa da sfondo. Ironia della disgregazione, estrema possibilità di non assolutizzazione di questo mondo, per serbare la speranza di una preparazione a qualcosa di altro. Sorriso che nasce nella lacrima, perché, seppur il tempo-ora sembra dirci il contrario, il mondo, nel suo fondo, è bello, e allora, ‘malgrado tutto, continuiamo’.

Ed è solo dopo essere andati a fondo in questo sfondo tragico e ironico, che possiamo dare voce all’interprete femminile da cui il film trae il proprio nome. Perché, infatti, Bianca si comprende, esclusivamente, come irruzione, evento, in contrasto profondo con il contesto. È una opposizione distruttrice, e, ad ogni modo, mai esplicita, sempre positiva. È nella sua persona, e nel suo nome, che affiora la speranza di un mondo altro, nel suo pensare con categorie di un mondo altro. Bianca assomiglia agli eroi Dostoevskiani, o, meglio, agli esempi che aveva in mente Lukács, è lei, infatti, che portatrice di una ‘seconda etica’, sembra serbare in sé la possibilità di attuare il passaggio dal pensiero alla vita.

Con toni redentivi vuole salvare Michele/Nanni, e quel mondo che esso rappresenta, ‘sì, tu sei un uomo buono’, in un amore che confina con la pietà, come il principe Myskin, ‘L’idiota’ che guarda oltre i fatti, alla ricerca di quella purezza di cuore, quella ‘bellezza che salverà il mondo’.

‘Io mica lo so che è la mia generazione. C’era Ignazio, Maria e c’ero anche io. Un anno è nevicato, un altro anno sembrava dovesse esserci un colpo di stato’, così chioserà in quel febbricitante dialogo finale Michele Apicella. E questa nube accompagna ancora adesso quella generazione, a cui, probabilmente, si possono applicare con certezza unicamente quelle parole di Jack London ‘l’aver vissuto e l’aver lottato’.

E noi, eredi, potremmo essere fedeli, in una ineluttabile infedeltà, solo preparando il terreno a una rivoluzione, anzitutto, ‘spirituale’, in grado di riannodare i fili con quella ‘lotta sospesa’, che si rivitalizzi e reincarni nelle molteplici direzioni dell’umano.

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