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È in programmazione nelle prossime settimane in Italia un film per bambini, che si intitola Robot selvaggio. Narra la storia di un robot (femmina) che si trova accidentalmente, in seguito a una sorta di naufragio spaziale, a vivere in un’isola terrestre abitata esclusivamente da animali. Il nucleo narrativo su cui gira gran parte della vicenda è l’acquisizione progressiva, da parte della donna-robot, del ruolo di madre di un piccolo di oca, un orfanello. Il film è ispirato a un racconto a fumetti, un best-seller di Peter Brown, uscito qualche anno fa. Tutto lascia pensare che avrà altrettanto successo.

Non ho visto il film e non lo vedrò. E non ho letto il racconto di Brown a cui è ispirato, di cui si dice un gran bene. Ma a partire dagli elementi che ci offre il trailer, si possono individuare alcuni aspetti del contenuto del film su cui, credo, occorra riflettere. Intanto, ci si può chiedere se un piccolo di oca possa stabilire una relazione di imprinting nei confronti di un robot. Non è impossibile, ma è piuttosto difficile. I piccoli delle oche si “imprintano” (voce del verbo “imprintare”; un tempo, nel gergo dei laboratori, si usava dire così) sui propri genitori conspecifici o, in mancanza di essi, su organismi dotati di calore, movimento e capacità di rispondere ai loro bisogni. Konrad Lorenz, etologo premio Nobel e scopritore dell’imprinting, dovette darsi un gran da fare per stimolare le sue piccole oche a “imprintarsi” su di lui. E tuttavia, sebbene un organismo artificiale non abbia molte possibilità di conquistare l’affetto di una nidiata di piccoli di oca, è prudente non mettere paletti alla provvidenza. Il biberon o la stessa culla non sono forse “simulazioni”, dispositivi che sostituiscono alcuni comportamenti del caregiver (generalmente la madre) come il dondolare tra le braccia il piccolo per farlo addormentare o l’allattarlo al seno? L’ipotesi che un robot “dedicato” riesca un giorno a imprintare su di sé i piccoli di oca come fa il robot selvaggio di Peter Brown non è del tutto campata in aria. Se morbido, caldo e sufficientemente reattivo, un robot ce la potrebbe anche fare. E fin qui, come si dice in questi casi, tutto bene. La questione, tuttavia, va indagata anche nel suo contrario: è possibile che un robot apprezzi il piacere del maternage, del prestare cure affettive a un piccolo di oca? Perché nel film ciò che più commuove e cattura l’immaginazione, non è tanto l’affetto del paperotto, in fondo quasi automatico, (imprinting rimanda al latino imprimĕre, quel che si potrebbe immaginare come l’azione di un calco), ma l’affetto del robot nei confronti del piccolo. In questo secondo caso possiamo inventarci quello che vogliamo, possiamo complicare lo scenario nelle maniere più varie e strane, manipolare tutte le variabili a nostra disposizione ma, per quanti ingegnosi siano i nostri tentativi, non ci sarà possibile giungere a una conclusione diversa da quella che segue: un robot non sente e non può sentire alcun affetto nei confronti dei piccoli di una papera. Il massimo che può fare è cercare di simulare questo affetto. C’è, evidentemente, un problema di reciprocità. Le cui ragioni non vanno cercate nel diritto, nella pretesa di uno scambio paritario degli affetti, ma in quella che uno psicologo attivo negli anni Cinquanta, Harry Harlow, definiva come “la natura dell’amore”. Anche nelle situazioni di maggiore disparità è pur sempre “amor” quello “che a nullo amato amar perdona”. E sembra proprio che gli oggetti inanimati non siano capaci di alcuna forma di amore. E allora ci si chiede: perché il film tenta di dare a bere ai bambini che questa reciprocità sia possibile ? Perché questo impegno nel cercare di naturalizzare la relazione affettiva con un robot?

Nel tentativo di rispondere a una simile domanda, giunge in nostro aiuto un libro intitolato Insieme ma soli, scritto da una psicologa e antropologa americana di grande esperienza nel settore della comunicazione digitale, Sherry Turkle. Cresciuta nello stimolante ambiente del MIT, Turkle è stata per molti anni moderatamente ottimista circa la diffusione di massa delle tecnologie digitali. Un ottimismo che ha iniziato a incrinarsi negli anni Novanta, quando ha deciso di occuparsi di cosiddetti robot socievoli. Il fenomeno, inizialmente circoscritto ai giochi dei bambini, rivelò subito alcuni aspetti inquietanti.

Ragionare di robot socievoli significa, prima di tutto, entrare in un mondo di giocattoli, di oggetti destinati a intrattenere i piccoli. Un mondo di oggetti che, fino a pochi decenni or sono, erano in gran parte “inanimati” sebbene tutt’altro che innocenti. Come lascia ben intendere questa acuta descrizione della produzione in serie di giocattoli ai primi del Novecento:

«Sono la traduzione di massa dello spirito settecentesco degli automi, la trasformazione delle dinamiche di industrializzazione e automazione non più nel salotto illuminista ma nella dimensione cellulare dell’infanzia e cioè nella fase di produzione del soggetto adulto, della sua identità sociale».

La citazione, tratta da un libro di Alberto Abruzzese, rivela come il giocattolo prodotto in serie abbia da tempo iniziato a svolgere una funzione che si spinge ben oltre l’intrattenimento ricreativo. Una funzione che riguarda la costruzione del soggetto, della sua identità. Ma per arrivare alle problematiche contemporanee sull’interazione uomo-robot non basta tenere conto di una mappatura storica, per quanto raffinata, della produzione dei giochi commerciali, occorre soprattutto chiedersi quali torsioni e quali trasformazioni il giocattolo sta subendo sotto la pressione di studi innovativi, riguardanti sia l’interazione uomo-computer, sia la psicologia evolutiva nella sue dimensioni più profondamente legate alla biologia umana.

Inizia a delinearsi un argomento cruciale, che Turkle sviluppa solo parzialmente, ma che merita un sintetico approfondimento. Si tratta del concetto di vulnerabilità. Se è vero che i bambini hanno sempre giocato con bambole e orsacchiotti, già con la diffusione dei famosi Tamagotchi sono emersi interrogativi nuovi e importanti che, in larga parte, sono della stessa natura di quelli che riguardano robot da intrattenimento più evoluti e destinati, per esempio, a ruoli di compagnia nei confronti di adulti non autosufficienti e di anziani. Iniziamo con il chiederci cosa possa significare, per un bambino, prendersi cura di un oggetto che sembra animato perché controllato da un dispositivo elettronico digitale. Quello che, per ora, possiamo accontentarci di definire genericamente come l’istinto della cura, appartiene al repertorio biologico della nostra specie: i genitori si prendono cura dei propri piccoli, i piccoli spesso si prendono cura degli animali domestici. Che si possa appagare questo istinto di protezione caratteristico dei bambini attraverso bambolotti, orsacchiotti e così via è noto fin dall’antichità. Ma nel caso dei cosiddetti robot affettivi o socievoli, il problema principale dei bambini è nell’essere o meno consapevoli della differenza tra ciò che è realmente vivente e ciò che, invece, non lo è. Questa difficoltà, aggiungiamo noi, dipende molto probabilmente dalla struttura cognitiva di base, dall’hardware biologico con cui veniamo al mondo. Nell’ambito delle ricerche empiriche della psicologia evoluzionistica è stato sostenuto che i cosiddetti processi di classificazione e categorizzazione elementari, quelli che permettono di separare gli oggetti del mondo in grandi insiemi distinti, come per esempio, pieno e vuoto, liquido e solido, animale e umano e così via, sono in larga parte innati. Se questo è vero, ed è probabile che lo sia, allora la distinzione tra vivente e non vivente ne costituisce uno degli esempi più persuasivi. Tale distinzione tende a coincidere con quella tra organico e inorganico. Un organismo si distingue da un minerale perché si nutre, interagisce attivamente con l’ambiente, mangia, si riproduce e così via. Sostenere che, come umani, ne abbiamo una consapevolezza innata, significa prendere atto che nei bambini, in qualche modo, questa distinzione già esiste. Si tratta, in altri termini, di una conoscenza che non è legata all’apprendimento, ma determinata geneticamente da un’evoluzione biologica che, per centinaia di migliaia di anni, ha modellato il nostro cervello sulla base di queste differenze fondamentali, invariabilmente presenti nel nostro ambiente naturale, come appunto quella tra organico e inorganico.

A quanti mal sopportano queste spiegazioni biologiste e ritengono che tra “le parole e le cose” non vi siano altre relazioni possibili se non quelle di natura strettamente linguistica, suggerirei una visita, oggi purtroppo soltanto immaginaria, al museo kircheriano, che si trovava nelle sale del Collegio Romano, a poche centinaia di metri dalla sede del CRS. Tipica wunderkammer (stanza delle meraviglie) seicentesca, il museo avrebbe sfidato la nostra concezione illuministica dei processi di classificazione e categorizzazione. Come ha scritto lo storico dell’arte Valerio Rivosecchi:

«Certo, se oggi potessimo visitarlo nel suo antico aspetto probabilmente saremmo confusi e sbalorditi di fronte all’apparente mancanza di criterio che riuniva coccodrilli appesi al soffitto, strumenti matematici e automi (…)».

Eppure, in quella splendida raccolta d’arte e di meraviglie ideata dal gesuita tedesco, era ben evidente una distinzione fondamentale, una categorizzazione di base, quella, guarda caso, tra naturalia e artificialia.

Del resto, prima del momento attuale, che Turkle chiama “il momento robotico”, la distinzione tra organico e inorganico non ha incontrato eccezioni significative (se non nel caso, qui del tutto irrilevante, di alcuni batteri). Non è difficile capire quale possa essere il problema dei bambini in presenza di simulazioni di organismi naturali: non hanno argomenti sostanziali, come invece li abbiamo noi adulti, per mettere in discussione il fatto che si tratti di oggetti realmente viventi. Alle prese con i robot affettivi, i bambini non sanno capire bene se essi appartengano all’organico o all’inorganico e, tendenzialmente, prediligono la prima opzione. Queste forme del funzionamento mentale sono, comprensibilmente, inconsce. E questa è la ragione per cui si può legittimamente parlare di vulnerabilità. Turkle ha usato, a tale riguardo, l’espressione “tasti darwiniani”. Cosa significa sollecitare, per fini commerciali, questi tasti darwiniani?

Vale almeno ricordare, a tale proposito, che la società che produce il Tamagotchi ha venduto finora qualcosa come ottanta milioni di esemplari in tutto il mondo. E qualcuno si è spinto a parlare di vera e propria dipendenza dei bambini nei confronti del giocattolo.

Antonio Caronia, in un breve saggio particolarmente raffinato e visionario uscito nel 2002 e intitolato Dimenticare McLuhan, poneva un problema cruciale: quello che già nei primi anni del nuovo millennio, si iniziava a intuire il passaggio dalle tecnologie-protesi, intese come potenziamento delle nostre capacità, alle tecnologie-mondo, dove non abbiamo più a che fare con un soggetto impegnato ad accrescere, attraverso le protesi cognitive, la sua conoscenza di un mondo dato, ma con mondi del tutto nuovi, mondi artificiali che hanno vita propria e con cui il soggetto può stabilire relazioni intense e, per così dire, inedite. In questione non è più tanto, o non è più solo, l’epistemologia, la conoscenza del mondo, ma l’ontologia, la tenuta stessa della realtà del mondo come ambiente di vita. L’esempio più clamoroso e citato è la cosiddetta realtà virtuale. I robot socievoli fanno un passo in avanti nella direzione di questa mutazione ontologica, perché riescono ad alterare il mondo senza dichiarare esplicitamente di farlo, come invece la realtà virtuale è costretta a fare ogni volta che ci chiede di indossare un casco. Questa mutazione sottile e pervasiva del mondo mira, aggiungerei, a colpire le nostre radici evolutive più profonde. Da almeno un secolo si discute di antropomorfizzazione dell’ambiente, sostenendo giustamente che l’ambiente in cui viviamo è sistematicamente modificato dall’azione dell’uomo. Mai si era invece vista prima una mutazione cognitiva che mette in discussione così precocemente distinzioni fondamentali come quella tra organico e inorganico. Il problema che solleva un film come Robot selvaggio è se sia legittimo pensare di poter accompagnare questo passaggio dolcemente, fin dai primi anni di vita, come se fosse un fatto del tutto naturale e privo di rischi. E se, nel premere deliberatamente questi “tasti darwiniani”, non vi sia almeno l’intuizione che essi costituiscano delle vulnerabilità specie-specifiche, il tallone d’Achille di una specie che nella sua evoluzione biologica non ha mai incontrato eventualità come, per esempio, quella che il maternage, la relazione affettiva con un piccolo, possa essere delegata a una creatura inorganica, a un robot-balia (di qui il titolo romanesco di questo articolo, Robot servaggio, che deforma il titolo del film per alludere ai robot-tuttofare, che secondo alcuni dovrebbero sostituire baby-sitter e badanti). Che poi qualche Victor Frankenstein post-moderno possa pensare di ricavare da una simile intuizione qualche ragguardevole profitto, visti i tempi, non è un sospetto privo di qualche ragionevole fondamento.

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