Testo della conferenza inaugurale del Seminario internazionale «Democracia, Estado de derecho y Covid-19» che si svolgerà il 30 e 31 maggio presso l’Instituto de Investigaciones Jurídicasdella UNAM di Città del Messico.

1. Prologo in cielo

Invito a rileggere Dante, il finale del canto XXII del Paradiso: è il punto di svolta della terza cantica della Divina commedia. Il personaggio Dante, guidato da Beatrice, ha raggiunto il settimo cielo, il cielo di Saturno. Di qui, viene innalzato alla sfera delle stelle fisse, nella costellazione dei Gemelli, sotto il cui segno era nato. Prima di procedere verso le meraviglie più eccelse del Paradiso, Beatrice esorta Dante a volgere indietro un ultimo sguardo verso la Terra. Il sommo poeta immagina di vederla, girando intorno ad essa insieme alle stelle, proprio come la vedranno gli astronauti, sette secoli dopo: un’aiuola, un piccolo giardino fiorito. Conteso dagli uomini, animali feroci.

L’aiuola che ci fa tanto feroci,

volgendom’io con li etterni Gemelli,

tutta m’apparve da’ colli alle foci.

Sette secoli dopo, il genere umano ha avvelenato l’aiuola dove è nato e cresciuto. Ne ha guastato le condizioni di abitabilità. Forse ha cominciato a rovinarla fin dall’inizio della sua affermazione come specie biologica dominante; o forse a partire dall’epoca di Dante o poco più tardi, quando ha inventato il capitalismo; certamente, da quando ha scatenato la predazione e la contaminazione dell’aiuola, e l’asservimento in massa dei suoi improvvidi coloni, con l’avvio della rivoluzione industriale. Fino a rendere la Terra ormai invivibile, per tutti gli animali. E l’aiuola, intossicata, infetta, ha infettato il genere umano. Invece di unirsi, per condurre a buon fine la cura della duplice infezione, di se stesso e dell’aiuola, il genere umano si è diviso, ancora una volta, per contendersi e dividersi l’aiuola. Ferocemente. Ha messo mano di nuovo, come sempre e in ogni tempo, alla più perversa delle sue invenzioni: le armi. Ha allungato la mano fino a sfiorare la più folle: l’arma omicida suicida. La distruzione. La fine di tutto. Di se stesso e dell’aiuola.

Fermiamoci. Fermiamoli. Salus mundi suprema lex esto.

Il latino salus indica insieme salvazione e salute. Cicerone invocava la salus populi1. Noi chiediamo la salus mundi: la salvazione dal flagello della guerra e dalla morte atomica, suicidio della vita; e insieme la salute contro l’infermità globale, pandemica. Chiediamo che la salus mundi sia riconosciuta come suprema lex: l’imperativo ultimo, insuperabile, il comando irresistibile della coscienza morale, perché primo e irrinunciabile è il bene della vita, senza il quale nessun altro bene ha senso concepire.

2. 24 febbraio 2022. Dispotismo orientale

La sostanza del pensiero che cercherò di riassumere, nei minuti finali della mia esposizione, sulle conseguenze politiche della pandemia di Covid-19 è maturata a partire dai primi mesi del 2020. Ma qui premetto, trasformo in premessa, quel che ho pensato e scritto dopo, due anni dopo l’avvio della pandemia. Ho cominciato a stendere questo post scriptum al momento di inizio della guerra in Ucraina – che è solo l’ultima delle numerose guerre conflagrate dopo la seconda guerra mondiale, ma è la prima che avvicina le massime potenze nucleari allo scontro diretto. Mentre scrivo, non posso sapere a che punto sarà la guerra quando (e se) qualcuno potrà ascoltare o vorrà leggere queste parole. Uso i verbi al tempo presente, quello che i grammatici chiamano «presente storico». Non so di quale storia.

Quando il Presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, ordina l’invasione dell’Ucraina, la mia prima impressione è di déjà vu. Ungheria, 1956. Cecoslovacchia, 1968. Ma allora la Russia era Unione sovietica: gli attacchi erano finalizzati a soffocare tentativi di affrancamento parziale, di emancipazione relativa e limitata su scala nazionale, dalla sudditanza politica e ideologica all’impero del comunismo reale. Ora il comunismo non è più reale, non esiste più in alcun luogo e da gran tempo: da più di trent’anni in Europa orientale, e nella stessa Russia. (Ma neppure in Cina: lì resiste come nome ingannevole di un’armatura autocratica a partito unico che ingabbia e traveste un capitalismo aggressivo.) Ora la Russia è…

Che cosa è la Russia, oggi? Molto forte è la tentazione di ricorrere alla categoria di Aristotele, di Machiavelli, di Montesquieu: dispotismo orientale. Potenza imperiale estesa su spazi immensi, da sempre ostile verso l’Occidente. Governo monocratico «per uno principe, e tutti li altri servi». Potere arbitrario «senza leggi né freni», fondato sulla paura. Regime eterno: cambiano i despoti, il dispotismo rimane. Cambiano anche i vestiti, l’involucro, le apparenze esteriori, le forme di identificazione collettiva, la «sovrastruttura ideologica», se vogliamo civettare con il linguaggio marxiano; e non solo, cambia persino la «struttura economica»; eppure, permane la sostanza politica. Ciò che permane, per definizione, è «sostanza». O tale ci appare. Anche se sappiamo bene che la categoria di dispotismo come tipo di regime riconosciuto specifico dell’Oriente, distinto sia dalla monarchia sia dalla tirannide, è fin dall’inizio una costruzione ideologica della cultura occidentale: è un frutto del pregiudizio eurocentrico, mille volte ripreso e riformulato per adattarlo a nuove realtà storiche. Eppure: quante ragioni, o apparenti ragioni, si possono addurre in favore della plausibilità, anzi della pertinenza di questo pregiudizio? Chi non vede la continuità dall’autocrazia zarista a quella sovietica, a quella post-sovietica, senza nome proprio? È solo un abbaglio, un miraggio, un’illusione ottica? Appunto: un pregiudizio? Vorrei instillare il dubbio che non sia soltanto un pregiudizio.

Il crollo del muro di Berlino ha provocato lo sgretolamento dell’impero sovietico, ma non ha smantellato l’impero russo, che l’Unione sovietica aveva ereditato dagli zar. Questo è rimasto. Si è ridotto e alquanto indebolito rispetto all’impero sovietico, ha perso sfere di influenza; ben di più: ha mutato pelle e tessuti sociali, strutture e sovrastrutture, ma ha conservato la sostanza (insisto) del tipo di regime; e con esso ha conservato l’agire tipico della politica imperiale, la logica egemonica – versante interno, per così dire, della politica di potenza, quello esterno essendo il confronto con gli imperi rivali. Soprattutto, l’impero russo ha ereditato e conservato la potenza nucleare dell’impero sovietico. Ora, con l’invasione dell’Ucraina, la Russia ha riattivato anche il versante esterno della politica di potenza imperiale, provocando la reazione eguale e contraria di un altro impero – mentre un terzo impero, più nuovo e antichissimo, osserva e attende. Ancora, déjà vu: sembra riemergere, inopinata, e rimettersi in marcia quella storia che avevamo creduto esaurita con la fine del secolo breve; sembra anzi approssimarsi, questa storia, come mai era accaduto prima, al suo più temuto compimento.

E che cosa sono, oggi (ieri?), gli stati ex-satelliti dell’impero sovietico? Dalle macerie del muro, insieme a correnti di rinnovamento e spinte all’adozione dei modelli politici e (soprattutto) economici occidentali, incanalate in movimenti per l’adesione all’Unione europea, sono riemersi inquietanti fantasmi della storia anteriore all’asservimento di questi stati nel blocco orientale del socialismo reale: movimenti filofascisti e filonazisti più o meno mascherati o spudorati, eredi di quelli che lì avevano prosperato fra le due guerre mondiali. E sono resuscitati nazionalismi ancor più antichi, ottocenteschi, nutriti da xenofobie nuove, in alcuni casi divenute programma quasi esclusivo di governo; si sono imposti assetti istituzionali verticalizzati, presidenzialismi refrattari a freni e contrappesi; si sono diffuse reti di potere opache, contigue o sovrapposte alle mafie, ibridazioni di malgoverno e malaffare. Non intendo proporre una rappresentazione uniforme, a sole tinte fosche: sarebbe come avallare un altro pregiudizio. Tendenze contrastanti attraversano e dividono in vari modi le cittadinanze di tutti questi stati, rispuntati formalmente indipendenti dopo l’ultimo Ottantanove nella terra di mezzo tra Occidente e Oriente, a rimodellarne i confini e le identità. Ma i processi di democratizzazione e costituzionalizzazione, avviati dopo il crollo del muro per attrazione e imitazione dei modelli occidentali, hanno subito pressoché dovunque torsioni deformanti.

Con una formula sintetica, troppo semplificante ma efficace, c’è chi ha descritto l’evoluzione politica post-sovietica del(l’ex) mondo orientale come una transizione dal partito unico al presidenzialismo assoluto. Che è un altro modo di rilevare, con un linguaggio più scientifico e asettico, la continuità del dispotismo orientale. In un quadro simile rientra anche l’Ucraina anteriore all’invasione. Ma anche, e a fortiori, la Russia. La storia recente dell’Ucraina è più movimentata, tormentata e incoerente, ospita e immette nei conflitti interni anche altri fattori, influenze «colorate» di mode politiche occidentali, da ultimo una forma di populismo mediatico. La Russia del regime putiniano – osservato prima e indipendentemente dall’aggressione criminale all’Ucraina – presenta un volto più costante e coerente, esibisce i caratteri classici del potere dispotico: l’arbitrio del comando, le discriminazioni di trattamento, la repressione del dissenso, l’imposizione di pene estreme, l’esercizio sistematico della violenza, l’eliminazione fisica degli oppositori, il ricorso alla guerra per soffocare fermenti di ribellione e per consolidare il consenso intorno al detentore singolo e supremo del potere di decisione collettiva2.

3. Guerra per la libertà?

Vengo alla guerra. Sia chiaro: l’aggressione – e al massimo grado un’aggressione feroce e oscena come quella della Russia all’Ucraina, condotta con gelido intento sterminatore, esercitato e raffinato in altri contesti geopolitici – legittima la difesa di ogni aggredito; l’invasione giustifica la resistenza pro aris et focis di ogni abitante del territorio invaso; ma non trasfigura di per sé ogni resistente in difensore del «mondo libero», come lo si chiamava nel secolo breve per contrapporlo al mondo dispotico del socialismo reale. Quella degli ucraini è bensì una guerra di difesa, e come tale legittima; è però un errore presentarla come una difesa dei «valori occidentali», come se fosse una nuova specie di «guerra etica», di «guerra santa» per la democrazia o la «liberal-democrazia» (secondo la formula preferita da molti, usata per lo più in modo acritico e apologetico). Per due ragioni, non solo complementari ma sovrapposte. Anzitutto, perché l’Ucraina non è il campione – involontario, sacrificale – della liberal-democrazia. Soprattutto, perché il mondo non è diviso in due mondi contrapposti, con identità politiche chiare e univoche, l’una il rovescio dell’altra. Di fronte al dispotismo orientale, non si erge integro il monolite dell’Occidente libero: solo uno sguardo offuscato dal manicheismo bellico non riesce più a discernere e a riconoscere inquietanti aspetti, non solo incoativi o potenziali, di (quello che non saprei chiamare se non) «dispotismo occidentale».

Già Montesquieu paventava che l’istituzione della monarchia assoluta avesse aperto la via all’importazione del dispotismo in Occidente. Ma veniamo senz’altro ai giorni nostri. Nei sistemi politici di quasi tutti i paesi europei allignano da tempo e prosperano partiti dichiaratamente (fino a ieri?) filo-putiniani, i cosiddetti «sovranisti», che si sono ispirati al modello russo: coniugando, ciascuno a suo modo, tradizionalismo etico e nazionalismo identitario; ricorrendo all’uso politico della religione; perseguendo l’instaurazione di presidenzialismi super-concentrati. Poi, nella medesima cerchia di correnti e (in)culture politiche, al modello putiniano si è sovrapposto, con agio o senza percepibile disagio, il sostegno – il «tifo»? – per Donald Trump e per i suoi gesti, toni, proclami (e atti) di suprematismo. Lo scontro tra questi soggetti relativamente nuovi, o rinnovati con fattezze putiniano-trumpiane, ora divenute imbarazzanti persino per loro, e i partiti più radicati – ma in molti casi avviati al declino o allo sgretolamento, si guardi alla Francia – nei sistemi politici delle democrazie costituzionali del dopoguerra si è replicato nelle istituzioni dell’Unione europea e rischia di metterle a repentaglio. Ma volgiamo infine lo sguardo al sistema politico statunitense: non vedo come si possa riassorbire in una sintesi superiore la spaccatura che si è generata, o meglio si è approfondita ed è esplosa, con l’evento eversivo del 6 gennaio 2021, e che perdura minacciosa. Lo scenario attuale sembra riprodurre quello della guerra civile, e ad essere in gioco è l’identità stessa del modello occidentale.

Per inciso: mi sono chiesto che cosa sarebbe cambiato se nel febbraio del 2022 a fronteggiare il dispotismo orientale di Putin si fosse trovato il cesarismo populista di Trump. Non so rispondere. Non so se avrebbe comunque prevalso senza scostamenti la linea strategica avviata e perseguita dalla Nato dopo la fine della guerra fredda, o quanto avrebbe inciso l’imprevedibile irrazionalità del tragico clown. D’altra parte, non saprei quale grado di sanità mentale riconoscere a Putin, nell’atto di scatenare l’invasione dell’Ucraina. Ma anche ai dirigenti dell’Alleanza atlantica, nella pervicacia di procedere con la strategia espansiva; o all’amministrazione Biden, nella determinazione di «combattere fino all’ultimo ucraino» (l’espressione sarcastica è di Lucio Caracciolo) per l’annichilamento dell’impero russo. Ad ogni costo? Ad ogni rischio? Se questo è l’Occidente, a me pare la nave dei folli.

In realtà questi sono i limiti, ne sono ben consapevole, dello sguardo desolato e incredulo di un illuminista pessimista. Per il quale, chi fomenta la guerra ucraina come guerra «giustissima» per i «valori dell’Occidente», oltre a vestire di retorica un immane massacro, insieme ad esso occulta le contraddizioni del proprio mondo. Assimilando ai resistenti contro il dispotismo orientale anche i più recenti fautori del «dispotismo occidentale», rischia di favorire le tendenze degenerative, in marcia da gran tempo, del paradigma politico e culturale che intende difendere. Anzi, rischia di consentire uno scadimento dei propri stessi principi, di indurre una regressione o persino un’inversione dei valori identificanti della democrazia occidentale – tolleranza, nonviolenza, libero dibattito delle idee, fratellanza3 –, di concedere spazio a nazionalismi potenzialmente aggressivi quanto quello dell’aggressore imperiale, di lasciar prevalere le retoriche patriottiche, le virtù bellicose del coraggio e del sacrificio, sulle virtù civili della moderazione e della ragionevolezza. Solo temporaneamente? Per il tempo necessario a restaurare la civiltà democratica aggredita? Non ci credo. Sovranisti, nazionalisti, populisti destrificati, cesaristi folli, presidenzialisti estremi non hanno alcuna intenzione di restaurare la democrazia, mirano a impadronirsene per sfigurarla.

Ciò nonostante e proprio per questo, rimane il dovere di opporsi al dispotismo: a quello orientale e a quello occidentale. E pertanto rimane la necessità di riaffermare l’opposizione tra dispotismo e libertà, di continuare ad assumerla come criterio di giudizio e di scelta di campo, anche di fronte alla nuova guerra. Con vigile coscienza critica e autocritica: conoscendo le ambigue valenze di questa ideologia occidentale, tante volte usata spudoratamente per giustificare l’ingiustificabile. Bastino tre nomi: Vietnam, Iraq, Afghanistan. L’origine dell’ideologia occidentale è antica e nobile, risale al racconto erodoteo delle «guerre persiane come guerre di libertà, condotte da un piccolo popolo che combatte per la propria indipendenza contro il potente avversario, e proprio perché si batte per una grande causa, che è la causa della libertà, è alla fine vittorioso». Ma è appunto un’ideologia, nel senso ancipite del termine. Spiega Bobbio: «Preferisco parlare di ideologia piuttosto che di ideale, perché la parola ideologia non esclude, anzi implica la falsa coscienza, e, per ragioni opposte, piuttosto che di mito, perché l’idea dell’Europa come patria dei governi liberi non si regge soltanto su una falsa coscienza»4.

4. Incoscienza atomica

Nel tentare di capire questa guerra, nuova e antica, e nel rispondere al dovere di prendere posizione, prima di tutto o anche soltanto in coscienza, è inevitabile il ricorso al ragionamento per analogia. Si affollano alla mente, si intersecano e si sovrappongono molteplici termini di riferimento e di confronto, di natura eterogenea e di segno opposto: la Resistenza italiana come guerra civile contro i fascisti e come guerra di liberazione contro i nazisti, ex alleati divenuti invasori occupanti; la guerra civile spagnola, gli schieramenti e gli apporti esterni, le brigate internazionali; il patto di Monaco, l’alternativa fallace denunciata da Churchill tra la vergogna e la guerra; la crisi dei missili a Cuba, il conflitto evitato in limine e la catastrofe scongiurata con accordi palesi e segreti. E molti altri.

Il ragionamento per analogia consiste sempre nel ponderare somiglianze e differenze. Guardando al conflitto ucraino, una differenza dovrebbe emergere come dirimente ed essere mantenuta ferma, come fulcro di ogni analisi e valutazione: il rischio nucleare. La guerra in Ucraina non è certo la prima scoppiata nell’era atomica; ma è la prima combattuta sull’orlo dell’abisso, sul margine di un piano inclinato che può far scivolare verso lo scontro diretto tra le massime potenze nucleari. A Cuba, la guerra non ci fu: il conflitto fu disinnescato prima di iniziare. Le altre guerre conflagrate, non solo minacciate, posteriori a Hiroshima erano lontane e/o indirette. Questa in Ucraina è la prima che mette davvero in campo il rischio nucleare, che offre l’occasione e il contesto favorevole, che apre la possibilità concreta, e non solo l’eventualità astratta, dell’uso della bomba. Per follia o per incidente o per errore. Un uso che fatalmente diventerebbe reciproco.

Dopo l’orrendo epilogo della seconda guerra mondiale, illustri personalità della cultura avviarono il tentativo, sviluppato a più riprese lungo i decenni successivi, di suscitare e di diffondere quella che si cominciò a chiamare la «coscienza atomica»: la consapevolezza della novità assoluta e terrificante della guerra nucleare rispetto a tutte le guerre del passato; dell’esito fatale cui avrebbe condotto, il suicidio del genere umano; della necessità di spegnere ogni focolaio di guerra, per evitare che potesse trasformarsi in guerra atomica. Nella nostra età smemorata e ignorante, che annega la cultura nello sbriciolame della sovra-informazione istantanea, forse vale la pena ricordare almeno alcuni titoli poderosi, capaci si fermare la mente, di sottrarla al turbine delle banalità: Karl Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo; Günter Anders, Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki; Jonathan Shell, Il destino della Terra. Al tentativo di formazione di una coscienza atomica parteciparono alcune tra le più brillanti intelligenze dell’umanità, da Albert Einstein a Bertrand Russell. Vi contribuì anche Norberto Bobbio, con vari scritti e discorsi, e soprattutto con un vibrante saggio ricavato da un corso universitario, nel 1966, dedicato a Il problema della guerra e le vie della pace: paragonata la storia a un labirinto, invitava a considerare la guerra come una via bloccata o senza uscita, di cui gli esseri umani avrebbero finalmente dovuto capire che non conduceva in nessun luogo.

E invece non l’hanno capito. Meno di vent’anni dopo, Bobbio deplorò quella che gli appariva la «grande rimozione del problema fondamentale del nostro tempo»5. Ma ora, oggi, la condizione mentale e morale di gran parte del genere umano a me pare peggiorata. Molti discorsi che ascolto o leggo sulla guerra in Ucraina mi sembrano espressioni di incoscienza atomica, ben al di là di quella che pure accompagnava il gioco d’azzardo dell’«equilibrio del terrore», la dottrina che aveva mantenuto fredda la guerra tra i due blocchi nel secondo Novecento. Oggi sento parlare di ordigni nucleari «tattici», «perfettamente utilizzabili»; di ricorso «solo in ultima istanza» ai missili intercontinentali carichi delle bombe più potenti; di riarmo generale, ovviamente anche atomico, di tutti contro tutti. Tranquilli discorsi dell’apocalisse.

Trovo in una pagina di Bobbio la citazione di un documento firmato da un gruppo di scienziati nel 1983: «La soluzione ultima del problema della guerra può venire dal riconoscimento da parte di tutti che nel nostro tempo l’umanità appartiene a un solo mondo e che c’è un solo comune nemico: la nostra irrazionalità,che ci impedisce di affrontare insieme i problemi globali che affliggono l’umanità, primo fra essi la prevenzione della guerra nucleare». Bobbio commentava: «Anch’io credo che il solo nemico sia la nostra irrazionalità. Ma è un nemico vincibile?»6.

Ebbene, io non credo che sia il solo nemico. Compagna dell’irrazionalità, dell’incoscienza atomica, è l’incoscienza morale. Invito ad affiancare mentalmente e considerare insieme la giusta indignazione per i massacri perpetrati dall’esercito russo in Ucraina, da un lato, e dall’altro il tiepido raccapriccio, il distratto orrore, quando non la diffusa insofferenza o indifferenza di gran parte dei medesimi indignati attuali verso molte altre guerre combattute dopo la fine della guerra fredda, dal primo Golfo alla Siria; verso le loro vittime, in alcuni casi vittime degli stessi carnefici. La partecipazione emotiva e verbale attuale, dilagante, vista in negativo, in questo controluce, non appare forse una manifestazione di razzismo?

Ora esagero. Nella partecipazione entusiasta degli spettatori di tutto il mondo di fronte alla Rivoluzione francese, Kant aveva scorto un segno della disposizione morale del genere umano al costante progresso verso il meglio. Domando: nell’impegno palpitante, coinvolgente in questa guerra, nel fervore di armare e riarmarsi, unito al disimpegno relativo verso altre guerre e altre vittime, non si potrebbe scorgere un segno del regresso dell’umanità verso il peggio?

Con la coscienza lacerata, cercando di deglutire l’angoscia, mi chiedo come posso adempiere il dovere di oppormi all’aggressione e al massacro, e al tempo stesso andare oltre: l’invasione si deve respingere; ma la guerra non si deve vincere, si deve fermare.

5. Incoscienza ecologica. Verso la catastrofe

L’incoscienza atomica giunge a manifestarsi dopo il lungo sonno dell’incoscienza ecologica, dal quale la pandemia aveva provato a risvegliare l’umanità. Mentre l’incoscienza atomica può portare all’estinzione della vita per spegnimento attivo, per un atto intenzionale o incidentale cui seguirebbe una catena di azioni e reazioni deliberate, l’incoscienza ecologica ci ha già condotto alle soglie della medesima catastrofe per conseguenza passiva, per la somma cumulativa di una miriade di atti e comportamenti non intenzionati ma egualmente colpevoli, almeno da quando se ne conoscono gli effetti distruttivi sulle condizioni di permanenza della vita (non solo) umana sulla Terra. Tra questi effetti dell’incoscienza ecologica vi è anche l’attivazione di alcuni processi biologici direttamente tanatogeni, quasi fossero assassini seriali, soggetti naturali di sterminio: (alcune) epidemie e pandemie. Gli scienziati naturali ci dicono che la pandemia di Covid-19, come altre che seguiranno, è certamente una conseguenza della predazione e contaminazione della natura perpetrate dal genere umano. Gli scienziati sociali – e qualche teorico analitico della politica – dicono che la catastrofe ecologica è conseguenza e parte integrante del modello di vita che si è globalizzato nell’ultimo mezzo secolo. Per proprietà transitiva: la globalizzazione neoliberale ha provocato la pandemia. Un po’ semplificato, ma vero.

Sintesi di due paroloni inflazionati, «globalizzazione neoliberale» è un’espressione che rischia di suonare ormai vuota, solo evocativa di una nebulosa di fenomeni proteiformi. Ma a mio giudizio non è divenuta inutile. Serve (almeno) a indicare che una cultura, una ideologia, si è fatta sistema di vita. Una concezione del mondo è stata capace di farsi mondo, di farsi credere come l’unica forma possibile del mondo, senza alternative. Ma il mondo globale non assomiglia affatto a un mondo unificato, alla cosmopoli, alla città universale, grandioso ideale che all’alba della modernità aveva ispirato progetti filosofici di pace perpetua, e che alla metà del XX secolo aveva tentato di (cominciare a) diventare reale con l’istituzione dell’ONU e la Dichiarazione universale dei diritti. Tutto il contrario: il mondo prodotto dalla globalizzazione neoliberale assomiglia a un immenso stato di natura, teatro di competizioni esasperate, di conflitti incomponibili, di diseguaglianze abissali, di oscene violazioni dei diritti. Soprattutto: si è rivelato non già l’unico mondo possibile, bensì un mondo impossibile. Soltanto le classi dirigenti dell’Occidente, centro di produzione e irradiazione del sistema globale, composte da un numero esiguo e sempre più ristretto di privilegiati, imitate da nuovi ceti dominanti in Oriente, e purtroppo seguite passivamente da cerchie più ampie («popolari»?) di narcotizzati dal trickle-down della stupidità consumista, perseverano nel non vedere che questo mondo è un mondo insostenibile, autodistruttivo, che è un mondo che consuma il mondo.

Le giovani generazioni, nei tempi più recenti confluite nel movimento Fridays for Future, hanno provato a reagire e a far reagire, a suscitare una coscienza ecologica globale, idealmente complementare a quella coscienza atomica che generose figure intellettuali provarono ma non riuscirono a diffondere nel secolo scorso. Si deve riconoscere a papa Francesco di aver rinnovato entrambi gli sforzi, prima con l’enciclica ecologica, Laudato si’, poi con quella dedicata all’«amicizia sociale», Fratelli tutti, ora con vibranti proteste contro la guerra e appelli per la pace, sinora inascoltati. La pandemia e la guerra in corso mostrano che soltanto insieme, integrandosi l’una con l’altra, le due forme di coscienza, ecologica e atomica, potrebbero (forse) offrire uno scudo contro la catastrofe incombente sul destino dell’umanità, della vita, del mondo, e proporsi come serbatoio di energie morali per uscire dallo stato di natura globale, per ritentare l’edificazione della cosmopoli.

Il 21 febbraio del 2020 – giusto due anni prima dell’inizio della guerra in Ucraina – in una assemblea pubblica a Roma Luigi Ferrajoli rilanciava l’ideale della cosmopoli, presentando il progetto di una Costituzione della Terra7 come unica via per affrontare seriamente i mali globali provocati dalla globalizzazione neoliberale. Denunciava per primi il cambiamento climatico, con le sue tentacolari conseguenze, e il rinnovato e dissennato pericolo nucleare. Un pericolo, questo, che solo due anni fa, nel momento in cui veniva ricordato da Luigi, si presentava ancora eventuale e astratto, ma non per ciò meno effettivo e incombente: a causa della proliferazione degli armamenti atomici, che negli scorsi decenni erano giunti anche alla portata di mani inquietanti, di opposti integralismi religiosi di massa e di angusti ridotti di follia politica. Ebbene, esattamente lo stesso giorno, quel 21 febbraio di due anni or sono, veniva annunciata la scoperta, sempre in Italia, del primo contagiato europeo dal coronavirus di origine cinese: l’inizio di quella che sarebbe diventata la pandemia di Covid-19.

Il nome scientifico dell’agente patogeno suggerì subito una metafora politica: fra i primi a formularla fu Ida Dominijanni, intitolando un articolo Il virus sovrano8. Un sovrano crudele, sterminatore; ma anche una potenza capace di illuminare di luce agghiacciante il pericolo di catastrofe, di porre in evidenza – all’evidenza di chi la vuol vedere, risvegliandosi dall’anestesia dell’abitudine – che l’origine comune di molti mali globali risiede nel modello di vita divenuto egemone nell’ultimo mezzo secolo; di ammonire che i mali globali richiedono rimedi globali; e persino di far intravedere, in controluce, la via per salvarsi. Nei giorni del primo grande confinamento, fummo in molti a indicare nella pandemia non solo l’emergenza funesta che essa è stata ed è, che ancora ci angoscia e che richiede enormi energie scientifiche e morali per essere combattuta, bensì anche e al tempo stesso un’occasione tragica ma unica e forse irripetibile, il kairós per una grande «fermata» – Ida concludeva quell’articolo con parole semplici, disarmanti e incoraggianti: «Forse il virus è venuto a dirci solo questo, che era arrivato il momento di fermarci» – e per un’inversione di marcia epocale nella corsa verso la catastrofe.

Se illusione c’è stata, è presto subentrata la delusione. Le istituzioni pubbliche – anzitutto l’Unione europea – che in un primo tempo sembravano aver reagito in direzione giusta, mobilitando grandi risorse per il bene comune, per la salus mundi, non hanno tardato a rivelare che avevano concepito fin dall’inizio questa strategia contro l’emergenza come un mezzo necessario ma provvisorio per attuare poi la Grande Restaurazione del neoliberalismo, del dominio dell’economia sulla politica, del privato sul pubblico. La benedizione dei vaccini, grande vittoria dell’homo sapiens, è stata sporcata e in parte compromessa dalle decisioni immorali e miopi sul mantenimento dei vincoli di brevetto. Favorite anche dal miglioramento delle condizioni generali, che era dovuto proprio ai vaccini, orde di homo insipiens si sono date a comportamenti dissennati e protervi. La pandemia è stata sommersa da un comprensibile desiderio di cessazione dell’emergenza e di ripristino della «normalità», è stata investita da una volontà generale di rimozione; e forse ora prepara un ritorno vendicativo, ma intanto i cittadini non educati, maleducati, diseducati, si dispongono a essere riconquistati dai pifferai della catastrofe. La normalità dell’incoscienza.

Ora però i pifferi fatui sono stati soverchiati da lugubri tamburi di guerra. Quasi che la guerra dovesse prendere il posto del virus, colmare il vuoto (solo apparente, purtroppo) di sofferenza che la pandemia (non) ha lasciato. Nessuna illusione che questo nuovo inopinato orrore e terrore valga a risuscitare la coscienza atomica, e magari, per contagio positivo, a riattivare la coscienza ecologica. Eppure, mai come ora dovrebbe emergere evidente l’urgenza di uno sforzo universale per la salus mundi. Nel maggio del 2020 Ferrajoli riprendeva la sua proposta neo-cosmopolita9 sottolineando che proprio la pandemia mostrava chiaramente l’unica direzione da prendere: la creazione di istituzioni di garanzia universale a tutela dei diritti universali, primi fra tutti il diritto alla vita e il diritto alla salute. In questi primi mesi del 2022 Ferrajoli ha rilanciato il progetto di Costituzione della Terra, offrendo alla discussione un abbozzo in cento articoli. Leggo l’articolo 60: «Gli stati hanno il dovere di intrattenere tra loro rapporti di pace…»10. Non ho cuore di commentare.

6. Emergenza e politica

I fantasmi della catastrofe atomica e della catastrofe ecologica hanno anche il funesto effetto di distogliere o attenuare o quanto meno distorcere l’attenzione e la preoccupazione per le dimensioni propriamente sociali e politiche dei guasti prodotti dal modello di vita dominante. Eppure, l’emergenza pandemica e ora quella bellica sembrano favorire un aggravamento ulteriore di questi mali. Ma occorre un’analisi che vada oltre le prime apparenze. Qui mi limito, per concludere, ad alcune riflessioni sulle conseguenze politiche della pandemia.

Il plesso di fenomeni e processi che siamo soliti nominare come globalizzazione, mentre avanzava costruendo il sistema economico del mondo-mercato e il sistema comunicativo del world wide web (appunto, la rete «a misura di mondo»), generava e diffondeva anche un modello politico sostanzialmente omogeneo: nelle unità politiche di tutto il globo – gli stati, ma anche gli enti sub-statali e sovra-statali – abbiamo assistito alla progressiva concentrazione del potere al vertice, in organi operativi pronti alla decisione rapida e subordinati a un ruolo di comando individuale. Veniva così ad imporsi di fatto e dovunque, indipendentemente dalle norme costituzionali vigenti in ciascun luogo-paese, il paradigma del (di quello che ho proposto di chiamare) «potere singolare», destinato non tanto a sostituire formalmente quanto a destituire fattualmente il «potere plurale» degli organi collegiali elettivi, che la modernizzazione politica aveva posto al centro delle istituzioni in tante parti del mondo. In altri termini: il «leaderismo» è divenuto il fenomeno politico universale del tempo globale. Il potere politico è tornato a essere eminentemente potere monocratico, come ai tempi delle tirannidi greche arcaiche, degli imperatori romani, delle monarchie assolute moderne, dei cesarismi, dei bonapartismi e delle dittature carismatiche dei tempi più vicini. Nelle regioni del mondo dove la storia contemporanea ha fatto sedimentare il modello dello Stato rappresentativo a poteri divisi, il potere singolare si afferma a costituzione invariata, attraverso una vasta gamma di accorgimenti che mirano all’indebolimento dei parlamenti e al rafforzamento dei governi, e inducono la progressiva riduzione della dialettica politica alla lotta per l’investitura del capo dell’esecutivo. Il processo è ovviamente favorito là dove vige una forma di governo presidenziale; ma è ben noto e studiato da tempo il fenomeno della cosiddetta «presidenzializzazione dei parlamentarismi». L’insediarsi e avvicendarsi al centro delle istituzioni di figure (quasi) monopoliste del potere ha indebolito la vita pubblica, ha sminuito il ruolo e il peso del confronto costante tra le diverse tesi sulle questioni rilevanti di decisione collettiva, del dibattito delle idee e degli ideali, dello scontro degli interessi e della ricerca di accordi e compromessi: cioè, della «quintessenza della democrazia»11. Così, lo spirito del tempo globale ha sospinto tutte le specie di democrazia (quale più, quale meno) a scivolare verso il genere opposto dell’autocrazia, o meglio verso quella sua specie paradossale che ho battezzato «autocrazia elettiva», vestita di apparenze democratiche. L’ho sostenuto e ripetuto fin troppe volte.

L’avvento dell’epidemia di Covid-19, divenuta presto pandemia, ha fatto subito sorgere in molti il timore che la tendenza all’autocratizzazione delle democrazie potesse trovare l’occasione favorevole non solo per aggravarsi, ma per superare la soglia critica, al di là della quale prende corpo lo spettro dell’imposizione autocratica pura e semplice, senza alcun vestito democratico e senza freni costituzionali. La porta attraverso cui si è sospettato potesse passare l’instaurazione di un regime autocratico conclamato avrebbe potuto essere, secondo i più timorosi, l’attribuzione di poteri straordinari ai vertici degli esecutivi, e in ultima analisi al capo del governo, mediante la proclamazione dello «stato di emergenza», o dello «stato di necessità e urgenza», o dello «stato d’assedio», o simili: sono, queste, formule giuridiche che si possono trovare in varie costituzioni, ciascuna delle quali assegna ad esse significati convenzionali determinati, specificandone presupposti e conseguenze. Ma al di là delle questioni tecniche di dogmatica giuridica, fin dall’inizio il dibattito pubblico ha messo al centro dell’attenzione la categoria di «stato d’eccezione», riproposta in funzione polemica da alcuni studiosi secondo il significato ad essa attribuito da Carl Schmitt, per denunciare la presunta violazione dell’ordinamento democratico e la strisciante instaurazione di un regime di «dittatura sanitaria».

Dico subito: nulla di lontanamente simile è accaduto, almeno nelle cosiddette democrazie consolidate (ancorché in via di scivolamento autocratico). Certo non in Italia. Dove è stato bensì dichiarato, come in tanti altri paesi, uno «stato di emergenza» all’insorgere dell’epidemia, ma nessun «sovrano» di tipo schmittiano si è arrogato il potere di decidere «sullo stato d’eccezione» esorbitando dalle norme costituzionali e al di sopra degli organi della democrazia rappresentativa e dello stato di diritto. Autorevoli studiosi – tra cui, in Italia, Massimo Luciani e Gustavo Zagrebelsky12 – hanno chiarito la differenza ed anzi l’opposizione concettuale tra «stato d’emergenza» e «stato d’eccezione». La questione teorica è rilevante e forse meriterebbe di essere ripresa e approfondita. Ma intanto va acquisito che la Costituzione italiana non solo non prevede lo «stato d’eccezione», non prevede neppure un più blando «stato di emergenza». Non voglio suggerire interpretazioni forzate, ma forse questa non è l’ultima ragione della bontà di questa Costituzione. Secondo la quale non solo la democrazia non ammette eccezioni, e dunque non è concepibile che sia prevista in Costituzione la rottura «sovrana» dell’ordinamento costituzionale democratico; non è neppure ammissibile che la Costituzione legittimi l’instaurazione pro tempore di un regime diverso dalla democrazia costituzionale, come potrebbe essere una «dittatura commissaria» – simile a quella prevista dall’ordinamento repubblicano della Roma antica – i cui atti non siano sottoposti all’autorizzazione e al controllo del parlamento e al potere di interdizione della magistratura.

Nell’ordinamento italiano lo «stato d’emergenza sanitaria» è bensì previsto dalla legge ordinaria: in base ad essa, il potere esecutivo – il governo, un ministro, il presidente del consiglio dei ministri – per fronteggiare l’emergenza può essere autorizzato a emanare atti in deroga alla legge. È appunto questa l’autorizzazione che è stata conferita al capo del Governo italiano pro tempore con il decreto legge del 23 febbraio 2020. Ne sono seguiti atti normativi che hanno disposto la limitazione, la restrizione temporanea persino di alcuni diritti costituzionali di libertà, in primo luogo la libertà di circolazione, e anche di un diritto sociale fondamentale, quello all’istruzione. Non ne è seguita la totale sospensione e tanto meno l’abolizione di questi diritti. Nessuna dittatura sanitaria.

Due problemi venuti in evidenza nella circostanza della pandemia meritano qui almeno un accenno. Il primo: su quale fondamento si può sostenere sia lecito restringere o limitare alcuni diritti costituzionali, di libertà o sociali, per salvaguardare la salute e in ultima analisi garantire il diritto alla vita degli individui? La ragione a me sembra semplice e inoppugnabile, almeno prima facie: il diritto alla vita è la precondizione materiale e logica per il godimento o l’esercizio di qualsiasi altro diritto, e come tale è prioritario13. Non soltanto: il diritto alla vita non si può «bilanciare» con alcun altro diritto, non nel senso che non sia lecito, ma nel senso che è assurdo. Anzitutto, è per eccellenza un diritto individuale (come del resto lo sono tutti i diritti fondamentali) e pertanto va garantito universalmente ad ogni individuo: non è ammissibile che alcuni individui muoiano o rischino di morire per «bilanciare» una (maggior) libertà di altri. Ma non è neppure concepibile una garanzia «parziale» del diritto alla vita di ciascuno, la tutela di un ipotetico «nucleo essenziale minimo» del diritto alla vita per consentire un (maggior) godimento di un altro diritto ad altri individui: il nucleo «minimo» non esiste, come non esiste un «massimo» rinunciabile, giacché non è possibile «morire un poco»; e analogamente non è accettabile che alcuni si ammalino e rischino «un poco» di morire perché altri siano liberi (liberi? Di quale libertà? Di contagiare altri?) «un po’ di più».

Secondo problema: a quali condizioni può essere lecito in una democrazia costituzionale limitare, per ragioni di emergenza, diritti costituzionali? Mi sembra si debba rispondere: soltanto a condizione che ciò avvenga per legge, cioè con un atto del parlamento, dell’organo che rappresenta tutti i cittadini, o con un atto legittimato – riconosciuto e approvato, o autorizzato – dal parlamento (un decreto legge o un decreto legislativo). Osservo che in tal modo sembra invertito il rapporto «normale» tra costituzione e democrazia: in circostanze ordinarie, la costituzione limita la democrazia, i diritti costituzionali individuali sono i limiti del potere collettivo democratico, sono ciò su cui il potere non ha potere; in circostanze emergenziali, è il potere democratico della res publica che può limitare alcuni diritti individuali per preservare la salus populi, la vita dei suoi membri, con l’obbligo di ripristinare la garanzia piena dei medesimi diritti limitati, una volta superata l’emergenza. Si potrebbe forse dire, parafrasando Machiavelli, che questo è un modo estremo e paradossale, per così dire «rovesciato», per il popolo democratico, di salvaguardare la libertà, i diritti individuali, «tenendoci sopra le mani»: solo il popolo, ossia la decisione democratica, può in emergenza limitare i diritti degli individui, nessun «dittatore» deve poterlo fare.

Ebbene, si può discutere se gli atti normativi emanati dall’esecutivo italiano (i famigerati DPCM) nel primo tempo della pandemia abbiano avuto, tutti e sempre, una piena legittimità costituzionale; a mio giudizio, sono stati nel complesso compatibili con la Costituzione, non l’hanno violata. Ma in ogni caso, nessuno può sensatamente sostenere che in quel periodo (e neanche dopo) la democrazia – il principio democratico: il principio di autodeterminazione collettiva – sia stata di fatto sospesa, in Italia, con l’attribuzione di poteri speciali, o peggio di «pieni poteri», al vertice dell’esecutivo. E questo appunto perché, sia pure con certe difficoltà e talvolta con qualche forzatura, è stata sostanzialmente rispettata la «riserva di legge»; ossia, non è stato esautorato il potere dell’organo della democrazia, il parlamento. Quegli atti normativi emergenziali sono stati, possiamo dire, atti democratici, sia pure indiretti, e comunque sempre soggetti al controllo della magistratura. Non atti «sovrani» del governo, o del «potere singolare» del primo ministro.

7. Contro la legge del più forte

Concludo. Poteva ben succedere, in Italia o altrove, che la pandemia fornisse ad alcuni soggetti politici l’occasione e i mezzi per forzare gli assetti istituzionali e piegarli verso configurazioni sempre più autocratiche, o addirittura verso l’instaurazione di regimi dittatoriali, o dispotici. Ebbene: semplicemente non è successo, in alcuna delle democrazie costituzionali, almeno in Europa.

Non sto cadendo in contraddizione. È vero: sostengo da tempo, e anche in questa occasione ho ripetuto, che nell’ultimo scorcio del XX secolo e nel primo del XXI, insieme all’affermarsi della globalizzazione neo-liberale abbiamo assistito all’espandersi di un processo di degenerazione nelle architetture istituzionali, che ha sospinto i regimi politici di ogni parte del mondo (dove più, dove meno) ad assumere i connotati di autocrazie elettive, rivestite di apparenze democratiche. Ma ho anche sostenuto, e qui confermo, che l’adesione «culturale» (in senso antropologico) all’apparenza della democrazia – la fedeltà e l’ossequio formale alle regole del gioco, pur se danneggiate e spesso distorte, alle istituzioni rappresentative, ancorché depotenziate, alla divisione dei poteri, anche se disequilibrata – tiene pur sempre aperta la possibilità di una rigenerazione democratica. Almeno, finché dura: finché questa stessa «apparenza» non venga dissolta, cancellata e dispersa dalla marea montante di movimenti antidemocratici. Dal «dispotismo occidentale». Dal cesarismo populista. Bobbio diceva: una cattiva democrazia è sempre migliore di una buona dittatura. Prolungo il giudizio: una democrazia apparente è migliore di un’autocrazia conclamata, e anzi assolve la funzione di argine potenziale contro le degenerazioni autocratiche. La pandemia, nei regimi europei di democrazia consolidata – o almeno, ancora sedimentata pur se malferma –, mentre induceva all’inevitabile adozione di strumenti emergenziali, ha suscitato una sorta di memoria cellulare immunitaria, il diffondersi spontaneo e silenzioso, o anche clamoroso, di anticorpi anti-autocratici di fronte all’eventuale pericolo politico di poteri eccezionali. Persino in alcune proteste deliranti contro l’inesistente pericolo di una «dittatura sanitaria» si può cogliere un aspetto immunizzante. Risultato: nessun Cesare si è imposto proclamando lo stato d’eccezione pandemico. Chi sostiene che è accaduto sta (appunto) delirando.

Mentre invece ho già avuto occasione di far osservare che, nel mondo, è accaduto proprio l’opposto: alcuni Cesari o aspiranti tali, esponenti o fautori di governi forti, vocati all’investitura plebiscitaria tramite manipolazione del consenso e del dissenso, esemplari in varia scala, anche minuscola e grottesca, del bonapartismo non solo politico ma anche psichiatrico di chi crede di essere Napoleone (o Orazio Nelson), ebbene questi personaggi – Trump, Bolsonaro, Modi, in un primo tempo Boris Johnson, qualcun altro? – non hanno affatto fomentato la paura del virus per reclamare e avocare a sé poteri (ancor più) concentrati e illimitati. Al contrario, hanno sminuito l’emergenza sanitaria, ne hanno negato e persino ridicolizzato la gravità, hanno ignorato il carico di sofferenze e di morti. Paradossale? No, è un paradosso apparente: gli autocrati effettuali o potenziali, per aspirazione o per posizione già acquisita, tendono a concepire il proprio ruolo come legittimato entro il quadro della legge naturale universale, l’unica che essi riconoscono suprema: la legge del più forte, che si rispecchia tanto nel darwinismo sociale del modello di vita oggi dominante, quanto nel darwinismo naturale conseguente a un’epidemia non (adeguatamente) curata. È un paradigma che sopporta molte varianti, compatibili sia con l’apologia della «libertà selvaggia» (Kant) del mercato globale, sia con l’imposizione di una moralità tradizionale angusta, arroccata in difesa di pregiudizi sclerotici e credenze superstiziose, assunta come garante dell’ordine naturale (o divino) dell’universo.

Nel Settecento i fisiocratici, fautori del libero corso alla legge della natura, erano anche i sostenitori del «dispotismo illuminato». Il nostro tempo ha conosciuto l’avvento in varie parti – prima in Italia, poi in Nord America, poi… – del dispotismo ottuso. Ora fronteggiamo l’aggressione del dispotismo feroce. Ma la legge del più forte non deve essere la legge suprema. Salus mundi suprema lex esto. Salviamo l’aiuola. E noi stessi.

Note

1 De legibus, III, 8. Il significato di questa espressione, chiaramente politico, è poi divenuto più comune esprimerlo in latino con la formula salus rei publicae, che è equivalente, essendo per lo stesso Cicerone la res publica res pupuli: De republica, I, 25.

2 Sono i connotati condivisi con la tirannide: il dispotismo essendo, nel suo concetto classico, una tirannide legittimata dalla sottomissione passiva dei popoli.

3 Sono i valori ideali indicati da Bobbio in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. 27.

4 N. Bobbio, Grandezza e decadenza dell’ideologia europea, in Id., Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1999, p. 606.

5 N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, 2a ed. il Mulino, Bologna 1984, p. 7.

6 Ivi, pp. 16-17.

7 Il discorso di Ferrajoli è stato pubblicato col titolo Per una Costituzione della Terra su «Teoria politica», n.s., Annali X, 2020, pp. 39-53, e contemporaneamente è uscito in un volumetto separato di Giappichelli, Torino 2020. Lo stesso titolo porta ora un volume edito da Feltrinelli, Milano 2022, in cui Ferrajoli ha ripreso e sviluppato l’argomento, aggiungendo in appendice un «Progetto di Costituzione della Terra» in cento articoli. Vedi oltre.

8 Pubblicato su «ara.cat» il 13 marzo 2020.

9 Nel post scriptum redatto per la pubblicazione del suo discorso del 21 febbraio su «Teoria politica» X-2020, cit., pp. 53-57.

10 Nel vol. edito da Feltrinelli, cit. sopra alla n. 7, p. 176.

11 N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. 605.

12 Cfr., da ultimo, M. Luciani, Salus, Mucchi editore, Modena 2022, e Id., Il diritto e l’eccezione, in «Rivista AIC», n. 2, 2022, pp. 49-72; G. Zagrebelsky, È tempo di riparlarsi, Introduzione a J. Habermas, Proteggere la vita, il Mulino, Bologna 2022, pp. 7-52.

13 Intendo priorità logica, indipendente da una (controversa) priorità assiologica.

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