Democrazia, Politica, Temi, Interventi

1. Tecnocrazia effetto e non causa dell’irrilevanza dei partiti e del Parlamento

Intorno al rapporto tra il Governo Draghi e i partiti politici si sta diffondendo una curiosa amnesia tra molti intellettuali di fama, che si sono abbandonati a ipotesi allarmate perché sarebbe in corso un allontanamento dalla situazione precedente, dipinta come democraticamente molto (anzi, incomparabilmente) più pregevole di quella caratterizzata dalla presenza dell’attuale Governo.

Asperrimi critici del sistema politico degli ultimi decenni hanno levato critiche senza appello nei confronti del Governo in carica, colpevole di aver emarginato i partiti, di aver loro chiesto di rinunciare a difendere le proprie bandiere, cioè le proprie “idee”; di averli ridotti a presenze insignificanti avendo detto: i partiti facciano i partiti, giochino pure con le loro correnti, il Governo va avanti. E dunque di avere, in sostanza, instaurato una tecnocrazia, un mandarinato, che vuole esplicitamente essere indipendente da una legittimazione popolare, così da sconfinare in una autocrazia.

Premesso che la fine del Governo Conte 2 ha rappresentato, a mio parere, la Caporetto del sistema dei partiti, perché non è stata solo una crisi extra-parlamentare; una crisi, cioè, che non è passata attraverso la votazione di una mozione di sfiducia; ma è stata soprattutto una crisi, per così dire, “privata”, in quanto fomentata da soggetti privati (i grandi giornali, i loro proprietari e l’insieme dell’élite economica) che hanno eccitato lo scontro politico facendo leva sui malesseri reali indotti dalla pandemia, e sparando ad alzo zero su tutti gli interventi governativi, mescolando scherno e disprezzo. Una bruttissima pagina per tutto il sistema dei partiti, succubo di disegni esterni. Comunque sia, i partiti si sono acconciati a una grande ammucchiata, priva di ogni indirizzo politico-amministrativo che non fosse quello di incassare i miliardi del PNRR e cementata solo dalla necessità di dare un Governo normalizzatore al paese.

Quando il Parlamento ha accettato di essere soffocato da decreti-legge presentati a raffica dal Governo, prassi che ha accettato e aggravato con la loro reiterazione; quando ha accettato di essere spintonato da frequentissime questioni di fiducia; quando ha accettato la prassi dei maxiemendamenti; quando non ha preteso nemmeno di poter posare gli occhi sulla legge di bilancio preventivo; quando ha cavalcato le onde del populismo… si è ridotto a essere specchio fedele di partiti che sono solo più agenzie di collocamento per le loro burocrazie. In questa condizione di irrilevanza, i partiti si erano cacciati da soli, ben prima dei “decreti” e delle “condanne” del Governo attuale.

2. La forma di governo parlamentare nella Costituzione

E veniamo al punto vero di politica costituzionale. Si può ragionevolmente dire, adesso, che l’avvento di una repubblica semipresidenziale, la realizzazione della “grande riforma”, l’avvento di una communis opinio secondo cui “la democrazia è un optional, un di più e un orpello, comunque un ostacolo al funzionamento della politica” siano già dei dati di fatto realizzati? Si può dire che l’aver “tacitamente decretato l’irrilevanza dei partiti… è molto più del semipresidenzialismo, perché non riguarda solo il quadro giuridico e costituzionale, ma intacca profondamente quello politico”? No, non si può. A parte l’inconsistente distinzione tra i due “quadri”, essendo i partiti componente essenziale del quadro costituzionale, questo modo di ragionare dimentica che è proprio la teoria del parlamentarismo a essere consapevole della possibilità che il parlamentarismo stesso “degeneri”, e che quindi vada protetto dal rischio di tali degenerazioni.

Tra le infinite prove di questa consapevolezza basti ricordare la discussione che si svolse in seno alla Assemblea Costituente, nella, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione il 4 settembre 1946, nel corso della quale venne approvato l’o.d.g Perassi (dal nome del suo presentatore) che dichiarava: «La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». È la cd. razionalizzazione della forma di governo parlamentare, tradotta poi nell’art. 94 della Costituzione. La razionalizzazione è asciutta, ma il cuore del problema è affrontato chiaramente: la votazione della mozione di sfiducia motivata… avrebbe dovuto essere l’unica via per il prodursi di crisi. Un’idea che è stata messa nel dimenticatoio, e poi ripudiata negli anni del centrismo, quando ogni screzio tra le correnti della Democrazia cristiana (alleate ora a questo ora a quel partitino) era reputato, dalla Democrazia cristiana stessa, come idoneo a provocare una crisi di Governo, da gestire a porte chiuse.

Nei primi decenni della Repubblica della razionalizzazione non c’era bisogno. Malgrado le frequentissime crisi di Governo, i partiti erano partiti, e l’indirizzo politico non mutava se non a seguito di eventi di portata storica (la fine del centrismo e l’avvento del centro-sinistra, il terrorismo e il Governo di unità nazionale…). Con gli anni Ottanta il sistema politico ha cominciato a sfaldarsi, e il bisogno di contenere le degenerazioni del parlamentarismo si è fatto urgente. Ma si è intrapresa la strada del revisionismo costituzionale, cioè di una verticalizzazione del potere tutta e solo interna al sistema dei partiti (ai protagonisti delle degenerazioni stesse), dottrinaria e che per forza di cose non poteva che approdare a nulla, generando ulteriori lacerazioni.

La strada della razionalizzazione non è stata perseguita perché i partiti continuavano a ritenere più conveniente il gioco a porte chiuse. Ma oltre a questa spiegazione politica è giusto avanzarne un’altra, di carattere normativo: perché le norme sulla razionalizzazione non avevano un “custode” o, per essere più precisi, perché nessuno dei Presidenti della Repubblica che si sono succeduti (che avrebbero dovuto essere il loro custode) ha avuto la forza di pretenderne l’applicazione. A differenza delle norme sui diritti, o comunque delle norme dirette a limitare e orientare la legislazione, che sono state presidiate dai giudici e dalla Corte costituzionale, le norme sulla forma di Governo non sono state presidiate da nessuno.

3. Il presidente custode della Costituzione

È dunque necessario che la discussione sul futuro Presidente includa questo problema: è necessario un custode che garantisca l’applicazione di quella parte della Costituzione che argina le (spontanee) degenerazioni del parlamentarismo. Non è certo una prospettiva esaltante, radiosa, che scalda i cuori, ma almeno è un obiettivo che (se realizzato) consente di respirare, liberando la discussione politica e la “lotta delle idee” dall’ossessione della corsa a rimpiattino tra i leader dei partiti. È urgente mettere fine alla cappa irrespirabile di questa politica impenetrabile, chiusa in un recinto di schermaglie e di atteggiamenti scomposti. Questo significa che tra Parlamento, da un lato, e Presidente della Repubblica-Governo, dall’altro, deve esistere un potenziale antagonismo istituzionale. Non si tratta, quindi, di paventare svolte autoritarie, l’avvento del semi-presidenzialismo o addirittura di governi militari o di abolizione del voto. Sono solo dolose esagerazioni. Il punto è che si deve abbandonare l’idea del “parlamentarismo monista” (inteso in realtà come assemblearismo) contrapposto a quello “dualista”.

Proclamare, in nome dell’acquisito principio democratico, l’avvento del parlamentarismo monista “assoluto” ha significato svuotare il parlamentarismo dei suoi tratti più significativi, e sbiadirlo in un assemblearismo aperto alle “degenerazioni” di cui i costituenti erano ben consapevoli. Il problema è dunque “far essere” un fecondo dualismo: evitare che il Governo sia la dépendance dei partiti, in cui uno starnuto fa tremare, o crollare, i muri. E, per converso, ridare al Parlamento la potestà legislativa che è andata perduta. Perduta non per caso o a seguito di trasformazioni sociali anonime, ma in nome di un principio di governabilità che ha dominato la stagione del riformismo costituzionale. È una communis opinio che la pioggia di decreti legge e la loro reiterazione, i maxiemendamenti, la grandine di questioni di fiducia, le leggi di bilancio tenute nascoste fino agli ultimi minuti sono stati gli strumenti con cui il Parlamento è stato esautorato della sua funzione creativa. Riconsegnare al Parlamento la potestà legislativa richiede, contestualmente, che si riconsegni al Governo la sua autonomia, che consiste nell’esercizio di un potere sottomesso a quello legislativo, ma da esso separato.

4. Due vie per un fecondo dualismo tra Parlamento e Governo-Capo dello Stato

Per realizzare il fecondo dualismo di cui si è detto, si possono percorrere due strade. La prima è prendere atto degli attuali atteggiamenti positivi di una parte consistente dell’opinione pubblica (e di alcuni partiti politici) nei confronti di questo relativo distacco tra Governo e partiti (distacco che significa innanzi tutto non trascinare il Governo nel vortice di ogni polemica per propiziare crisi di Governo o addirittura la fine anticipata della legislatura; altro e diverso discorso è quello del distacco dalle proposte politiche, ma queste, al momento, non ci sono). Tali atteggiamenti diffusi non sono fantasie impotenti, non sono esuli pensieri destinati a “nel vespero migrar”: sono un fatto politico reale. Da qui, da questo bisogno non dottrinario, ma riconosciuto, la ragionevolezza e il realismo della proposta. Da questo punto di vista si può sostenere che, per realizzare il fecondo dualismo di cui si è detto non è necessario procedere a “riforme” della Carta costituzionale, né grandi né piccole, ma che tutto si gioca sul terreno (realissimo) della cultura politica, cioè sulle attese/pretese del corpo elettorale e della classe politica (fattualmente emerse) nei confronti dei comportamenti degli organi costituzionali. Come è stato un indirizzo di cultura politica e di convenienza che ha affossato la razionalizzazione del parlamentarismo così può di nuovo essere un indirizzo di cultura politica e di convenienza (che rielabori quella che si è manifestata nel rendere possibile l’attuale maggioranza) a dare vigore alle cruciali norme costituzionali sulla razionalizzazione.

Se il Presidente della Repubblica assumesse il ruolo di “garante della razionalizzazione”, e dunque pretendesse il rispetto puntuale dell’art 94 u.c. come l’unica via che può portare alle dimissioni del Governo, si compirebbe un decisivo passo in avanti verso l’unico obiettivo serio di politica costituzionale che andrebbe perseguito: scegliere chi difenda la nostra costituzione “dalla indisciplina che dai primi Anni Novanta contrassegna la condotta dei partiti; in un crescendo che muove dai partiti personali, di per sé extra-costituzionali… e conduce ai mediocri modelli che le varianti del populismo ci regalano da un bel po’ di tempo”.

Può essere opportuno, a completamento di quanto detto, spendere qualche parola su quanto detto dal ministro Giorgetti. Quella di Giorgetti non è una proposta di politica costituzionale: è solo la proposta di una candidatura per l’elezione del capo dello Stato, e, en passant, una genericissima congettura su ciò che essa potrebbe comportare. Una cosa è vera: che potrebbe assecondare una ulteriore spinta verso lidi presidenzialistici, ma è anche vero che, al contrario, potrebbe assecondare la tendenza verso il “ritorno” a un parlamentarismo in cui sia presente quell’antagonismo tra Parlamento e Governo-Capo dello Stato che del parlamentarismo costituisce elemento originario ed essenziale. Ma questi riflessi sulla forma di Governo parlamentare (da monista assoluta a monista “moderata”) sono del tutto ipotetici, essendo legati all’atteggiamento che le forze politiche vorranno assumere, e a quello che vorrà assumere il Presidente della Repubblica. La vera novità concerne quest’ultimo punto: oggi appare possibile l’elezione di un Presidente che limiti “l’indisciplina che dai primi Anni Novanta contrassegna la condotta dei partiti”, cioè che prenda sul serio la razionalizzazione. Ma perché è stata interpretata come se prefigurasse un’uscita dal parlamentarismo?

Che sia un anticipo di un passaggio alla forma di Governo semipresidenziale de facto è una sciocchezza. Se non si cambiano le regole della costituzione scritta, l’avvento de facto di una forma di governo semipresidenziale non può realizzarsi in alcun modo. Che cosa potrebbe essere l’avatar che sta a palazzo Chigi? Dovrebbe pur sempre ottenere la fiducia del Parlamento. O no? E che cosa c’è di pericoloso nel tenere il Governo fuori da beghe partitiche estranee al programma indicato nella mozione di fiducia? Evidentemente il discutere questi temi tocca un nervo scoperto, ma non ha niente a che fare con la difesa della Costituzione del 1947, spesso scambiata con la difesa di un parlamentarismo che non c’è; un parlamentarismo iperuranico. Non ci si può accucciare nell’assetto politico degli ultimi decenni, criticarlo a parole, ma considerarlo, alla resa dei conti, il migliore dei mondi possibili.

Non sarebbe onesto, d’altra parte, nascondere il fatto che questa strada potrebbe essere ritenuta utopistica, e che quindi sarebbe necessario procedere in un’altra direzione, controcorrente. Si tratterebbe di prevedere l’elezione del Presidente della Repubblica – a poteri esattamente invariati rispetto ad oggi – da parte del corpo elettorale (con il divieto di rielezione). In questo modo sarebbe per il Presidente più facile assumere quel ruolo di “custode della razionalizzazione” che è necessario e che consiste – ripetiamo – nel respingere le dimissioni del Governo in tutti i casi in cui non sia stato applicato l’art. 94 u.c.. Non basta il rinvio alle Camere, se poi di fronte a queste si svolge una discussione che lascia intatto il potere di dimissioni unilaterali. Occorre che il rinvio porti alla votazione di una mozione motivata. Come si è detto a proposito della strada cultural-convenzionale, questa semplice innovazione potrebbe essere il punto archimedico su cui far leva per indurre i cambiamenti desiderati. Per tutto il resto il Presidente della Repubblica deve rimanere cieco e sordo: i suoi occhi e le sue orecchie sono le due Camere del Parlamento.

Così dovrebbe essere. Ma non si può negare che l’autonomia della fonte di legittimazione potrebbe spingere il Presidente ad ingerirsi nella determinazione della politica nazionale, travalicando il compito di garante e difensore. Sarebbe contrario alla Costituzione, ma non si può negare la possibilità di corto-circuiti. Di qui la preferibilità della prima via, che si gioca tutta sulla cultura politica. Via più ardua, che richiede una forte “battaglia delle idee” per propiziare un mutamento della forma di Governo da «parlamentare monista assoluta» a «parlamentare razionalizzata», che si realizzi senza toccare la costituzione scritta.

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Un commento a “Tacete filosofi nei compiti altrui”

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