In “Disuguaglianze conflitto sviluppo” (Donzelli ed., Roma 2021) Fabrizio Barca tira le somme, dialogando con Fulvio Lorefice, del suo lungo impegno intellettuale, amministrativo e politico sul rapporto tra Stato e formazioni sociali, che lo ha portato a essere Ministro per le politiche di coesione nel Governo Monti (2012/2013). In tale veste ha prodotto una “strategia per le aree interne” attraverso una pratica di confronto con i rappresentanti delle amministrazioni locali e delle organizzazioni sociali presenti nei territori, sperimentata in precedenza, come Capo dipartimento, per i progetti territoriali destinati soprattutto al Sud.
La pratica del confronto “acceso, aperto, informato e consapevole” (secondo la definizione di Amartya Sen) si è poi trasferita nel “Forum disuguaglianze e diversità”, da lui coordinato, che ha messo in relazione un gruppo di ricercatori e un insieme di organizzazioni di cittadinanza attiva, per studiare le criticità crescenti nel corpo della società e produrre ipotesi di soluzione lungo la linea del superamento delle disuguaglianze. Questo lavoro collettivo, iniziato nel 2018 e continuato fino a oggi, ha prodotto documenti programmatici di grande spessore, rinvenibili sul sito.
Da queste esperienze è maturato l’impianto concettuale delineato nel libro, dimostrando le grandi potenzialità di uno stretto rapporto tra lavoro teorico e pratiche sociali, soprattutto in una situazione complessa, e per molti aspetti inedita, come l’attuale.
L’ evidenza delle gravi contraddizioni in atto nella crisi globale, verificate nel confronto con l’associazionismo, hanno prodotto una evoluzione nell’atteggiamento dell’autore, da sempre critico dell’esistente, in direzione di posizioni più nette nei confronti degli attuali assetti di potere, politico ed economico, e delle relative dinamiche di fondo.
Un esame compiuto di tutte le posizioni espresse nel libro condurrebbe a uno scritto sovradimensionato. Ci si limiterà, perciò, a trattare quelli che per chi scrive sono i punti chiave.
Il primo di questi è l’affermazione per cui l’aumento delle disuguaglianze e la crescente sofferenza di grandi masse di persone non sono la conseguenza automatica della globalizzazione e dello sviluppo tecnologico, ma il risultato di scelte precise sulla liberalizzazione del mercato dei capitali, sul controllo dei capitali finanziari all’interno e all’esterno delle imprese, sulla conseguente prevalenza della valorizzazione dei capitali finanziari rispetto alla produzione di valore aggiunto e di valore sociale da parte delle imprese. Queste scelte hanno configurato la forma specifica che ha assunto il capitalismo in questa fase storica, producendo le criticità ormai all’evidenza generale.
Per descrivere tali criticità in modo sintetico Barca richiama la formula usata da Angela Davis molti anni fa sull’articolazione della subalternità tra genere, razza (oggi: etnia), classe, e vi aggiunge l’ambiente, come subalternità al capitale dell’intero ecosistema. Con la subalternità di classe, ovvero il mancato controllo del lavoro sul capitale materiale e immateriale impiegato per lavorare, riaffermata e inserita a pieno titolo tra le altre tre.
Ben consapevole dell’importanza delle parole nella costruzione di un nuovo senso comune, Barca impiega esplicitamente i termini “capitalismo” e “classe”, ma in una accezione diversa da quella marxista tradizionale. “Capitalismo” come dominio del capitale finanziario globale, “classe” come lavoro deprivato del controllo del capitale utilizzato sono gli assi principali, anche se non i soli, delle analisi, valutazioni e proposte avanzate sull’intero arco delle grandi questioni dell’agenda politica. Dalle prospettive dell’Unione europea al deterioramento dell’ambiente all’uso distorto delle nuove tecnologie viene fuori un lungo elenco di criticità da affrontare in termini di contrasto ai fenomeni e alle dinamiche in atto, anche proposte puntuali e coerenti come quelle presentate dal Forum disuguaglianze e diversità relativamente al PNRR, finora disattese.
Al di là di questo insieme, per il quale si rinvia alla lettura del libro, conviene mettere a fuoco un altro asse portante relativo alla questione dello Stato. Dopo decenni di predominio del senso comune per cui “il privato è meglio del pubblico”, l’emergenza attuale riafferma un ruolo centrale dello Stato nel sistema Paese, rispetto alle regioni e alle autonomie locali, e anche rispetto agli organismi dell’Unione europea, almeno per la regolazione dei processi economici e sociali interni al territorio nazionale. Perché a livello globale la piena libertà di movimento di grandi capitali mantiene la soggezione anche degli Stati alle dinamiche dei mercati finanziari e alle relative conseguenze, e a livello europeo non si va oltre la sospensione temporanea del “Patto di stabilità” e a una prima creazione di debito europeo comune per finanziare il PNRR. Comunque, rileva Barca, il nostro resta uno Stato “illuminista”, accentratore, che dialoga poco con le autonomie locali e ancora meno con le formazioni sociali, che continua a produrre un eccesso di regolazione, anzi lo aggrava, che negli ultimi trenta anni registra un decadimento degli apparati. Dovuto, questo, alla scomparsa di figure di vertice come Ciampi, Visco, Padoa Schioppa, ovvero tecnici pienamente consapevoli del loro ruolo politico, allo smarrimento della carica ideale verso la piena attuazione della Costituzione, già presente in settori consistenti degli apparati stessi, infine al progressivo impoverimento delle competenze di buona parte dei civil top servants. Questi fenomeni hanno condotto ad atteggiamenti di chiusura verso la società civile, a una riaffermazione del proprio ruolo in termini di “tecnica” e contemporaneamente a una commistione subalterna con le figure impegnate nella direzione politica. Commistione più marcata nelle Regioni, dove ha originato forti strutture di potere politico/amministrative, che amministrano funzioni decisive in modo accentrato, ancora più chiuso rispetto alle amministrazioni del territorio e alle formazioni sociali, e che oggi rivendicano l’autonomia differenziata (art. 116 Costituzione) per pure ragioni di potere.
Tornando allo Stato, Barca rileva che i rappresentanti della politica affidano sempre più le scelte politiche alle tecnostrutture, sia delle grandi imprese private sia degli apparati pubblici, subalterni alle prime. In ragione della loro grande complessità, nell’incapacità di affrontare le grandi contraddizioni sottostanti le scelte vengono considerate “tecniche” e conseguentemente affidate a “esperti”, collegati nei tradizionali network interni ed esterni all’amministrazione. Si arriva così al Governo attuale, diretto da un tecnico a cui è stata affidata la guida del Paese senza un mandato politico generale, come pure era accaduto nei precedenti governi tecnici, con il compito di definire un “piano strategico”, ovvero l’atto più politico che si possa immaginare. In particolare, sulla questione cruciale della transizione energetica ci si affida ad un ministro “tecnico” quanto meno spregiudicato.
L’alternativa proposta dall’autore è quella di uno Stato che riesca, sulla base di scelte di fondo assunte democraticamente, a elaborare politiche pubbliche coerenti, e le articoli in strategie, missioni e programmi, la cui progettazione e realizzazione va affidata ad apparati tecnici e burocratici rinnovati, formati e responsabilizzati sui risultati raggiunti. Ritrovando un rapporto fecondo con le formazioni sociali, come fonti di sapere collettivo più che come portatrici di interessi.
Altre interessanti considerazioni sullo Stato sono ritrovabili nel libro, ma a questo punto conviene trattare della questione sottostante, ovvero della politica, dalla quale dipende la possibilità e la capacità di operare le grandi scelte di fondo, di tradurle in politiche pubbliche, di selezionare nuovi ceti dirigenti in grado di realizzarle, nella politica e nell’amministrazione.
Nell’analisi politica della situazione derivata dall’emergenza COVID-19 e delle prospettive che si sono aperte, il Forum disuguaglianze e diversità ha individuato tre scenari possibili che Barca ripropone nel libro. Il primo viene denominato “normalità e progresso”; riconosce l’esistenza delle disuguaglianze ma evita di affrontarne i nodi in termini di “liberare i saperi” e “riequilibrare i poteri”; distribuisce risorse per evitare fratture sociali ma non tiene conto dei diversi contesti; affronta la riconversione ecologica agendo sugli effetti più immediati ma non sulle cause di fondo; aumenta il ruolo del pubblico ma con l’accentramento e la semplificazione, invece che con una maggiore discrezionalità dell’azione amministrativa e una maggiore apertura ai territori e alla partecipazione dei cittadini. È l’opzione centrista e sostanzialmente conservatrice in cui si muove il Governo Draghi e si riconosce il Pd. Il secondo scenario è quello definito dell’“autoritarismo”, spera nei fallimenti del neoliberismo e della globalizzazione, anche se non è più frontalmente antieuropeo, si alimenta delle paure dei penultimi nei confronti degli ultimi, venera il totem dell’identità, aspetta un nuovo Cesare. Il terzo, auspicato come “un futuro più giusto”, si fonda sulla visione alternativa che può venir fuori dall’emergenza COVID-19, mettendo in risalto in primo luogo l’interdipendenza dei processi produttivi e il valore di altri lavori come la cura, la distribuzione, l’agricoltura, la tutela della bellezza e dell’ambiente, meno “profittevoli” ma più utili alle persone e anche all’economia nel suo complesso, saldando contraddizioni e aprendo grandi spazi a imprese innovative. E poi, a livello esistenziale, l’importanza dei processi di socializzazione, la specificità della questione femminile, e altro ancora… Una grande svolta, dalla quale può nascere un nuovo progetto politico in grado di affrontare gli avversari del cambiamento, dai grandi oligopoli internazionali all’intreccio delle rendite pubbliche, private e sociali.
Per costruire questo progetto politico progressista e sfidare le disuguaglianze di classe, di genere, di etnia, di rapporto con l’ambiente, Barca comincia con l’individuare cinque principi ispiratori di un ambito concettuale potenzialmente comune ad un vasto ambito di forze socialiste, cattoliche avanzate, liberal-azioniste. Il primo sta nel mettere al centro dell’agire politico la persona umana, curandone la diversità, la relazione col prossimo, sia vicino che lontano, e la relazione con l’ambiente. Perché l’obiettivo dell’agire politico è la giustizia sociale e ambientale, ovvero il secondo principio, da realizzare con le politiche e con il metodo – il terzo principio – del confronto acceso, informato, aperto e ragionevole tra i soggetti coinvolti nelle diverse partite, a partire dalla società civile, dove il confronto con e nella cittadinanza è il fondamento della democrazia, fino all’impresa. Il quarto è l’equilibrio tra concorrenza e cooperazione, come profili diversi del comportamento umano da combinare positivamente secondo gli altri principi. L’ultimo principio riguarda l’approccio nei confronti del capitalismo attuale, ovvero la combinazione di mercato e di controllo del capitale, come forma storicamente determinata e perciò suscettibile di essere modificata dalla democrazia e dal conflitto sociale. Di questi principi di fondo, di fronte alla profondità della crisi, una forza più propriamente socialista deve proporre una applicazione più radicale, in termini di nuovo internazionalismo (per il primo principio), di un forte riequilibrio di potere a vantaggio dei ceti più bassi (per il secondo), di una sintesi tra ragionevolezza e determinazione antifascista (per il terzo), del rafforzamento della concorrenza dal basso contro i monopoli (per il quarto) e infine, circa il capitalismo, promuovendo e sostenendo modalità non capitaliste di produzione di utilità sociale. Tutte azioni da produrre come azioni di governo, anche per via parlamentare, in alleanza con le altre forze democratiche che condividono questi principi ispiratori.
A questo punto si pone il problema del soggetto politico in grado di realizzare queste azioni, ovvero del partito, nodo conclusivo e irrisolto di questo libro. Presente già nel sottotitolo (“La pandemia, la sinistra e il partito che non c’è”), questa dell’“organizzazione necessaria” è anche l’oggetto della più recente opera dell’interlocutore, il ricercatore Fulvio Lorefice (Ribellarsi non basta, I subalterni e l’organizzazione necessaria, Bordeaux ed., Roma 2017). Come accennato all’inizio, Fabrizio Barca ha lavorato sul tema del Partito all’interno del Pd, producendo nel 2013 il documento “Un Partito nuovo per un buon governo”, che ebbe diffusione e rilevanza. A questo seguì l’esperienza di “Luoghi ideali”, tentativo di attivare nel Pd una filiera alternativa di selezione e formazione di gruppi dirigenti, prima “abilmente cloroformizzata e poi sconfitta” dal “sistema interno di cooptazione senza valutazione” (cit. testuale), ovvero le cordate personali collegate per correnti, all’interno di un rapporto tra il gruppo dirigente nazionale e le strutture di potere regionali e locali.
Resta tuttavia, in una parte dei militanti del Pd, una domanda di confronto con la società e di innovazione politica cui si è cercato di dar risposte. Da ultimo con Agorà, piattaforma web di discussione aperta, cui il Forum Disuguaglianze e diversità sta partecipando sulla questione della tassazione delle grandi eredità, ed il cui esito complessivo finale Barca si riserva di valutare. Riserva che non gli impedisce, comunque, di considerare il Pd attuale come un soggetto interno, più o meno consapevolmente, all’orizzonte del neoliberismo, per cui accetta non solo il capitalismo in generale ma anche la sua forma attuale, con una impostazione congenitamente moderata che gli è d’ostacolo a una connotazione anche parzialmente alternativa agli assetti esistenti.
In realtà anche gli altri partiti socialdemocratici soffrono di questa incapacità di vedersi alternativi, e anche quando provano a diventare più radicali, come il Labour di Corbyn, non ottengono risultati positivi per limiti di impostazione politica ma soprattutto per le forti resistenze interne.
In Italia ci sarebbe una nuova leva di quadri, nei movimenti, nelle università, nelle articolazioni territoriali dei partiti, che elabora segmenti di innovazione politica attraverso pratiche di confronto con altre organizzazioni sociali, ma che non crescono al di là del contesto di partenza perché bloccati dalle strutture e dalle dinamiche esistenti. Ci vorrebbe una “scossa”, che liberi queste energie raccogliendole in una nuova soggettività politica che vada oltre il novecento, Marx e la socialdemocrazia, ritessendo una rete di intermediazioni con la società civile attraverso nuovi metodi di confronto.
Il libro si chiude su questo auspicio ed a questa chi scrive dedica una breve considerazione finale. Altre sarebbero possibili, ma trattandosi di diverse accentuazioni rispetto a un impianto nell’insieme condiviso sembra superfluo trattarne in questa sede. In realtà, la “scossa” economica, sociale, culturale la sta producendo la crisi globale, che procede per episodi sempre più gravi, con la guerra in Ucraina che ora si aggiunge alla perdurante emergenza COVID-19 con tutte le relative conseguenze. Questa sequenza di scosse sta investendo in particolare le formazioni politiche esistenti, come il Pd, il M5S, le formazioni della sinistra, dimostrandone, al di là del valore delle singole personalità, la sostanziale inadeguatezza a fronteggiare il peggioramento della situazione. Inadeguatezza sia delle procedure decisionali che delle procedure di selezione e di formazione dei gruppi dirigenti. Questa evidenza rende possibile la liberazione delle energie finora compresse da tali procedure. Analogamente, tra le persone impegnate nei movimenti, nelle associazioni, nelle istituzioni culturali si diffonde la consapevolezza dell’insufficienza di un impegno dedicato alle proprie singole questioni, per importanti che siano.
Si vanno sviluppando, perciò, collegamenti trasversali tra gruppi, associazioni, reti, partendo dalle vertenze, dai conflitti, dalle mobilitazioni in atto, collegando le singole questioni alle campagne più generali. In orizzontale, senza “federatori” o “registi” di sorta. La nuova soggettività politica può nascere dall’ulteriore assemblaggio di questi collegamenti nella consapevolezza generale della sua necessità, con procedure che diano il dovuto spazio ai quadri e militanti di base sulla base di un progetto politico condiviso nei suoi tratti generali. Alla definizione di questi tratti, già ben presenti in una serie di scritti di valore, “Disuguaglianze, conflitto, sviluppo” apporta in tutta evidenza un ulteriore, importante contributo.
Ma per realizzare un progetto di questo spessore e incisività occorre un partito.
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