Cultura, Democrazia, Politica, Temi

“Nel giorno in cui l’Italia celebra la Liberazione, che con la fine del fascismo pose le basi della democrazia, ribadiamo la nostra avversione a tutti i regimi totalitari e autoritari. Quelli di ieri, che hanno oppresso i popoli in Europa e nel mondo, e quelli di oggi. Continueremo a lavorare per difendere la democrazia e per un’Italia finalmente capace di unirsi sul valore della libertà”. Giorgia Meloni dixit (su Instagram), ribadendo così che lei non è antifascista ma antitotalitaria e quindi ripartendo dall’equiparazione fra nazifascismo e comunismo (per non dire di quella “fine” del fascismo che dovrebbe essere “sconfitta”, ma lei scrive fine e non sconfitta).

L’anno scorso avevo riassunto in tre mosse la “guerra culturale” della destra meloniana sul 25 aprile: 1) equiparare nazifascismo e comunismo sotto il titolo comune di totalitarismo, e non concedere alcuna presa di distanza dal primo senza pretendere in cambio l’abiura del secondo, anzi rivendicare, come eredi del fascismo, un processo di democratizzazione avvenuto che gli eredi del comunismo non avrebbero invece portato a compimento; 2) identificare l’antifascismo della Resistenza con l’antifascismo militante degli anni Settanta (e quest’ultimo con i suoi episodi più scriteriati), in modo da poter continuare a vittimizzare “i fratelli allora morti sul selciato” (ovviamente esentandoli da qualunque corresponsabilità nello stragismo neofascista del quale sempre si tace), e in modo da poter continuare a sostenere che i conti in sospeso in Italia non sono quelli con il fascismo, bensì quelli con l’antifascismo; 3) derubricare il fascismo a un incidente di percorso nella lunga storia della “nazione”, ad esempio annacquando il senso della data del 25 aprile in una lista insensata di date che vanno dal 17 marzo, proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, al 18 aprile, vittoria della DC sul fronte socialcomunista nel 1948, al 9 novembre, caduta del Muro di Berlino nel 1989.

Che cosa è cambiato dall’anno scorso? Nella sostanza niente, però la guerra culturale si è inasprita arricchendosi di argomenti avvelenati. La mossa n. 2, per dire, non si limita più ad attaccare l’antifascismo militante degli anni Settanta ma allarga il fronte “nemico” agli studenti in lotta per la Palestina, accusati di essere loro, oggi, “i veri fascisti”, e a chiunque si permetta di contestare l’ordine corrente delle cose. Quella decisiva però rimane la numero 1, per la sua portata internazionale. L’equiparazione fra i due totalitarismi novecenteschi, santificata da una sciagurata – e all’epoca colpevolmente sottovalutata dai più – risoluzione del Parlamento di Strasburgo del 2019, è diventata oramai la base del senso comune dell’Unione europea, ciò che contrassegna, come ha scritto Andrea Masala, il cambiamento della costituzione materiale dell’Europa antitotalitaria nata dalla caduta del Muro di Berlino dalla costituzione materiale dell’Europa antinazista nata dalla fine della Seconda guerra mondiale. È in questo quadro, che è anche il vero frame narrativo di legittimazione della guerra d’Ucraina, che gli Italian Brothers continuano imperterriti a riciclare la loro matrice fascista nella lavatrice di una democrazia sempre più svuotata, sempre più orbaniana e sempre più atlantista.

Il risultato paradossale ma non troppo dell’equiparazione fra totalitarismo nazifascista e totalitarismo comunista, alla fine, è che la distinzione assiale fra fascismo e democrazia, su cui si sono largamente basati la storia e il pensiero politico del 900, si appanna ogni giorno di più. C’è un solo modo di contrastare questo appannamento, e non sta nella querula richiesta a Giorgia Meloni di “dichiararsi antifascista”, dichiarazione che viceversa è auspicabile che non faccia mai, se le parole hanno ancora un senso. Sta invece in primo luogo nello smantellamento dell’equiparazione fra nazifascismo e comunismo, smantellamento che le sinistre europee non sono culturalmente attrezzate a promuovere; in secondo luogo nella radicalizzazione del termine “democrazia”, che va strappato non solo alla deriva orbaniana ma anche alla deriva liberale che ben prima di Meloni l’aveva ridotta a un mero dispositivo elettorale; in terzo luogo, nel rilancio del termine “antifascismo”, che va riannodato a una critica del capitalismo e alla lotta contro l’intreccio di poteri e soprusi armati che stanno portando il mondo alla rovina.

Un commento a “Tre mosse del post-fascismo, tre mosse dell’antifascismo”

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