Democrazia, Internazionale, Politica, Temi, Interventi

Donald Trump ha impiegato meno di cinque ore per fare della sua incriminazione l’ultima puntata del suo reality politico, riciclandola come evento di rilancio della campagna elettorale. In un discorso rancoroso tenuto nella residenza di Mar-a-Lago si è scagliato contro il procuratore “estremista di sinistra finanziato da George Soros” che poche ore prima gli aveva formalizzato 34 capi d’accusa in un tribunale di Manhattan. E ha denunciato sarcasticamente la cabala di avversari che trama per impedirgli di tornare alla Casa Bianca, anche se il suo unico peccato è stato di amare gli Stati Uniti e aver tentato di riportarli ai fasti originari. Non è stata una sorpresa, la strategia era stata anticipata già nelle settimane precedenti l’arresto da una serie di esternazioni “preventive.” Resta il fatto che il rinvio a giudizio per l’affaire “Stormy Daniels” segna una nuova tappa della sua meteorica parabola nel firmamento politico americano e, come non cessano di segnalare i giornali, un capitolo inedito della storia degli Stati Uniti.

Sebbene non esistano norme costituzionali che precludano l’arresto o l’incriminazione di un Presidente, è “consolidata dottrina legale” (ovvero ripetute opinioni di ministri della giustizia e una sporadica giurisprudenza) che essi non debbano verificarsi per non compromettere la capacità dell’esecutivo di espletare le funzioni assegnategli dalla Costituzione. Per le trasgressioni gravi di un Presidente in carica la Costituzione prevede invece il processo di impeachment istruito da una commissione della Camera e condotto dal Senato. Lo stesso Trump, unico nella storia a subirne ben due, ne sa qualcosa.

Per quello che riguarda gli ex Presidenti la faccenda è meno chiara. Certo essi non sono coperti da un’immunità generale, ma vi è, se pur implicita, la preoccupazione che l’azione legale “retroattiva” possa diventare strumento di ritorsione e legittimare l’intrusione giudiziaria nel processo politico. Di fatto nessuno mai è stato rinviato a giudizio – nemmeno Nixon che, disonorato e preventivamente dimissionato, è stato graziato dal suo successore ed ex vice Gerald Ford. Ufficialmente il pardon avrebbe facilitato allora la “riconciliazione nazionale” dopo un periodo di estrema polarizzazione, anche se non è chiaro perché e come l’impunità di Nixon, i cui misfatti erano numerosi e palesi, avrebbe favorito una rinnovata fiducia nella democrazia più e meglio di un giusto ed egualitario procedimento giudiziario.

Con Trump la questione di come affrontare le responsabilità penali si è posta in maniera ineludibile dopo la sua violenta ed eversiva uscita dal potere. Nei quattro anni del suo mandato Trump ha infranto norme, regole, convenzioni e galateo, cominciando col perentorio rifiuto di adeguarsi, ancora da candidato, alla pubblicazione di prammatica delle dichiarazioni dei redditi. Ha in ogni occasione rifuggito ogni parvenza di noblesse oblige, preferendo lo stile abrasivo, le polemiche con gli avversari, le litigate con la stampa, gli insulti ai giudici e la pressione sulle sponde istituzionali, incapaci peraltro di contenere il suo debordante attacco ai fatti e alla verità. Dopo quattro anni, un paese prostrato lo ha visto abbandonare lo studio ovale fra le macerie fumanti di un assalto al Parlamento che ha declassato la superpotenza occidentale all’impensabile rango di quelli che Trump stesso amava definire “paesi latrina,” una di quelle remote province imperiali in cui gli avvicendamenti politici degenerano in sommosse e tentativi di golpe.

Quei fatti avevano dato luogo a un secondo impeachment (anche questo un record senza precedenti), tentativo vano di inchiodare alle proprie responsabilità un Presidente che ha incarnato alla lettera quel tipo di demagogo populista il cui contenimento era stata l’ossessione di padri fondatori come Hamilton, Madison e Washington. Il fallimento di quel tentativo sembrava comprovare che per superare il trumpismo non vi fosse altra via che quella politica. Eppure, le trasgressioni plateali di Trump sono rimaste protette da un partito ostaggio del fanatico culto della sua persona, alimentato da una base radicalizzata dalla propaganda e dalla incessante e incendiaria retorica delle culture wars. In assenza di un giudizio legale che si accompagnasse a quello morale, Trump non è mai davvero stato politicamente esorcizzato, e la sua presenza ha continuato a gravare sugli anni della “normalizzazione” bideniana. E così pure la difficile questione di come conciliare l’impunità di un attentatore all’integrità dello Stato con il concetto e l’assetto dello Stato di diritto.

Mentre il Paese ha faticosamente tentato di lasciarsi alle spalle la conflittualità permanente dell’era Trump, almeno quattro filoni giudiziari hanno proseguito il loro iter. Jack Smith, il procuratore speciale designato dal ministro della Giustizia Merrick Garland lo scorso novembre, dirige le indagini sulla sottrazione indebita di documenti riservati rinvenuti nella residenza di Mar-a-Lago e sul ruolo di Trump nell’incitare la rivolta del 6 gennaio (per cui sono stati indiziate oltre mille persone, di cui a oggi 422 condannati). In Georgia un gran giurì sta valutando gli estremi della interferenza diretta di Trump nel conteggio delle schede elettorali nel 2020. Da diversi anni procedeva infine, a fasi alterne, un’indagine sul pagamento di 130.000 dollari fatto nel 2016 da un avvocato di Trump, Michael Cohen, a Stormy Daniels, un’attrice porno, per indurla a non rivelare una presunta relazione con l’allora candidato presidenziale. I fondi pagati da Cohen a Daniels, ad altri individui e al rotocalco American Enquire per mantenere il silenzio, sono stati rimborsati da Trump come “spese legali,” il che configura il reato di falso in bilancio. Avendo avuto inoltre lo scopo di proteggere la reputazione del candidato Trump durante la campagna presidenziale del 2016, quei pagamenti costituirebbero contributi extralegali in contravvenzione della legge elettorale. I 34 capi d’accusa letti dal giudice all’ex Presidente nel tribunale di Manhattan descrivono i fatti come parte di una “più ampia strategia per inibire notizie negative” sul suo conto, acquistandole per toglierle dal mercato. Per il suo ruolo in queste azioni, che avrebbe intrapreso su richiesta diretta di Trump, Cohen ha già scontato una pena di tre anni di reclusione.

Questi sono i fatti che hanno portato alla prima incriminazione di un ex Presidente nella storia degli Stati Uniti. Proprio sulla mancanza di precedenti si è soffermato il New York Times che, dopo il voto del gran giurì, si chiedeva provocatoriamente se gli Stati Uniti fossero diventati un Nicaragua qualunque, dove futuri avversari del Presidente in carica finiscono in galera, o piuttosto somigliassero d’improvviso all’Italia, dove procedimenti a carico di politici sono la norma, e il caso berlusconiano in particolare ha collaudato un modello in cui la contrapposizione alla magistratura diventa componente integrante di una strategia politica.

Come per molti aspetti di Trump, tanto più per questa sordida storia di mazzette a prostitute Berlusconi è il precedente di riferimento. È prevedibile, come ha scritto qualcuno, che il processo diventerà ora il running mate del candidato Trump, il ritornello utile per perpetuare la narrazione della sua persecuzione e del suo martirio agli occhi dei suoi sostenitori. Un uomo che si nutre di nemici e che ne ha un bisogno fisiologico, avendo costruito sull’antagonismo la propria carriera, ne trova ora un nuovo stuolo nei giudici che lo perseguitano. Il discorso tenuto poche ore dopo l’udienza in tribunale è stato un elenco rancoroso di nemici e traditori, una geremiade vittimista suffusa di furia a stento contenuta in cui l’imputato Trump ne ha evocati per nome una mezza dozzina, compreso il procuratore Bragg di New York, apostrofandoli con insulti, malgrado il giudice gli avesse chiesto esplicitamente di desistere dal farlo.

Non fra i più brillanti o trascinanti di Trump, e simile a una compilation di cavalli di battaglia di un repertorio un po’ troppo rodato, il discorso di Mar-a-Lago è stato comunque un anticipo dei comizi a venire, e la conferma che Trump utilizzerà la vicenda giudiziaria per consolidare l’ascendente sui suoi sostenitori, grazie alla cui immutabile fedeltà tiene ancora in ostaggio il GOP. Per cominciare, la vicenda ha obbligato anche gli esponenti più moderati del partito (compresi un nemico come Mitt Romney e il rivale Ron DeSantis) a serrare i ranghi e a dichiararsi solidali, pena l’ira funesta della base preventivamente attivata e prossima all’apoplessia. La copertura a reti unificate della via crucis al tribunale di New York ha poi risucchiato l’ossigeno dai telegiornali e ha allontanato, almeno per un giorno, un destino che Trump teme più della morte: l’oblio. A Washington più di un rivale di partito avrebbe preferito che l’ingombrante ex Presidente potesse lentamente scivolare nell’irrilevanza piuttosto che usufruire di quello che molti ritengono un regalo che gli permetterà di rinfocolare, almeno temporaneamente, la narrazione della caccia alle streghe e della persecuzione.

In serata era già diffusa l’opinione che il caso, scaturito in fondo da imputazioni relativamente “triviali,” faccia il gioco di Trump, che nei tribunali è cresciuto. In 45 anni di carriera da imprenditore edile, Trump e le sue aziende sono state coinvolte in oltre 4.000 cause legali, penali, civili e fallimentari. In ognuna ha affinato la strategia della dilazione strategica e del temporeggiamento appresa dal famigerato avvocato newyorkese e amico di famiglia Harry Cohn. Già braccio destro di Joseph McCarthy, grande inquisitore anticomunista sulla House Unamerican Activities Commission, Cohn fu mentore di Trump e da maestro dei contenziosi legali come strumento strategico aveva impartito al pupillo una lezione basilare: mai ammettere una colpa e contrattaccare sempre.Il fatto che si tratti ora delle più “tecniche,” (e banalmente squallide) delle questioni che lo riguardano, di un caso “minore,” insomma, rispetto agli altri processi potenzialmente ancora da venire e di più evidente portata costituzionale, dovrebbe facilitare l’applicazione di questa strategia. Non è detto però che essa possa continuare a funzionare indefinitamente. Se dovessero seguire imputazioni formali anche nei casi più gravi (che potrebbero comprendere sedizione, eversione e tradimento), potrebbe prodursi un effetto valanga.

La prossima udienza nel caso Daniels non sarà in calendario prima di dicembre. Ci saranno dunque mesi per ponderare se l’incriminazione finirà per agevolare Trump politicamente o se l’arresto, se pure per imputazioni che potrebbero finire per decadere, scalfirà inevitabilmente e forse mortalmente l’aura di invulnerabilità e di impunità che lo ha sempre circondato.

La storica incriminazione promette e permette agli USA di sperimentare la strada opposta a quella di Gerald Ford e di intraprendere un percorso necessario, atto a dimostrare la supremazia della legge sul sopruso, anche su colui che ha saputo scardinare il sistema con la pura forza di un carisma nefasto munito di talento demagogico. Tutto evidentemente distorto e amplificato dalle presidenziali che incombono, e in cui l’imputato è anche il candidato nettamente favorito del partito repubblicano.

Qui il PDF

Un commento a “Trump e l’America alla sbarra”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *