Nel 2018 il CRS ha analizzato, nel momento del loro primo dispiegarsi, le tecniche di ‘persuasione’ digitale durante le campagne elettorali.
Nella campagna elettorale del 2022 queste tecniche, ormai ampiamente sperimentate, operano in un contesto di crescente condizionamento digitale dell’ambiente cognitivo in cui si formano le opinioni.
Iniziamo con il contributo di Pino Nicolosi ad analizzare la cause e le forme di questo condizionamento.
Un ex-dipendente di Google, James Willliam, nelle pagine di apertura di un suo recente lavoro sostiene che la liberazione dell’attenzione potrebbe essere “la più importante battaglia politica del nostro tempo”.
Su questo tema si snoda il suo libro, intitolato Stand out of our light. Un titolo che rinvia all’incontro che avvenne a Corinto tra Alessandro il Grande e Diogene di Sinope. Si narra che Diogene fosse disteso davanti alla sua botte a prendere il sole quando il giovane condottiero gli si pose di fronte e gli chiese se poteva fare qualcosa in suo favore. Diogene, senza alterarsi, rispose: “Sì, togliti dalla mia luce” (in inglese appunto “Stand out of my light”). Nella metafora di Williams la “luce” sta a indicare il focus attentivo di ciascuno di noi. L’invito a togliersi dalla luce è, in realtà, un’esortazione rivolta alle grandi piattaforme web quali Google o Facebook, a non disturbare la nostra attenzione. L’analogia tra le grandi piattaforme informatiche e il grande condottiero greco è stata scelta assai bene: sono due forme di potere diverse, che hanno in comune l’ostentazione della loro potenza e la vastità del territorio sottomesso.
Nella prospettiva di Williams le grandi piattaforme informatiche chiedono a ciascuno di noi “Cosa posso fare per te?”, proprio come Alessandro fece con Diogene. Il problema, secondo Williams, è che si rileva un crescente disallineamento tra i nostri obiettivi e quelli delle piattaforme a cui, ingenuamente, ci affidiamo. Esse non fanno realmente ciò di cui avremmo bisogno. Ammesso che sia vero che l’informatica e il web sono nati come strumenti al nostro servizio, utili per i nostri scopi, oggi non svolgono più questa funzione in modo trasparente. La metafora che Williams fornisce a questo riguardo è quella di un sistema GPS, un navigatore per l’automobile, che inizia a funzionare male. Non ci conduce più nei posti in cui vogliamo andare, ma ci porta in luoghi distanti da essi. Cresce così il sospetto di essersi affidati a una tecnologia che prima facie si presentava come uno strumento al nostro servizio ma che in realtà stava lavorando per scopi profondamente diversi dai nostri. Vale citare a riguardo un passo tratto dal testo di James Williams:
«Cominciai presto a capire che la causa per la quale ero stato arruolato non era affatto l’organizzazione dell’informazione, ma dell’attenzione. Il settore tecnologico non stava progettando prodotti; stava progettando utenti. Questi sistemi magici e generali non erano “strumenti” neutrali; erano sistemi di navigazione guidati da scopi che orientavano la vita di esseri umani in carne e ossa».
Williams, in seguito alla sua crisi di coscienza, ha lasciato la California per approdare nel Regno Unito, a Cambridge, dove ha intrapreso studi di carattere filosofico intorno alla comunicazione in ambiente digitale. Nel suo libro, Williams racconta che la madre, quando ha saputo della sua decisione di andare a studiare a Cambridge, gli ha chiesto: «Perché andare in un posto così vecchio per studiare un argomento così nuovo?». La risposta di Williams a tale quesito è interessante: secondo lui, osservare i processi di innovazione tecnologica dall’interno delle aziende che la producono determina un eccessivo coinvolgimento che finisce con il ridurre la capacità di guardare questi problemi con l’opportuna distanza critica. Questa distanza andrebbe praticata anche oltre la dimensione sincronica cui allude Williams, per cogliere le trasformazioni dell’attenzione collettiva su processi di lungo periodo, in una dimensione storica.
Williams non è il solo ex-dipendente di una big tech impegnato nella denuncia delle tecniche di invasione dell’attenzione. Haudrey Watters, una studiosa di tecnologie dell’apprendimento dotata di affilate capacità critiche, ha recentemente scritto, con una punta di sarcasmo, di una nascente “Industria del pentimento tecnologico” per evidenziare il numero crescente di ex dipendenti delle grandi aziende informatiche che fanno dichiarazioni pubbliche di contrizione per aver collaborato allo sviluppo di software che distraggono e generano fenomeni di dipendenza. Tra i pentiti più illustri vale intanto ricordare Chamath Palihapitiya, l’uomo scelto da Zuckerberg per il compito cruciale di far crescere il numero degli utenti di Facebook, che ha accusato gli ex colleghi (e se stesso) di aver:
«creato un sistema di gratificazione a breve termine, guidato dalla dopamina, che sta distruggendo il modo normale in cui la società funziona».
Un collega di Williams, Tristan Harris, che viene spesso definito dai giornali come l’ex responsabile di “ethic design” presso gli uffici di Google, ha denunciato le strategie di manipolazione dell’attenzione praticate dai giganti di Internet e ha proposto un inventario di idee per una nuova ecologia delle app e dell’interfaccia utente1. L’esistenza stessa presso Google di un incarico definito dalla singolare formula design ethicist desta una certa curiosità. Se partiamo dal dato che nelle aziende informatiche italiane è raro incontrare un “ergonomo” o un “esperto di interfacce utente”, il fatto che presso Google possa lavorare un esperto di “etica della progettazione delle interfacce” incuriosisce e suscita comprensibili interrogativi. In Italia esistono degli insegnamenti di Computer Ethics (per esempio presso il Politecnico di Torino), ma si tratta di scelte formative di carattere pubblico. Se è comprensibile che gli Stati nazionali possano decidere di tutelare, nell’ambito di corsi di formazione universitaria, interessi di carattere generale – per esempio attraverso la realizzazione di linee guida di carattere etico per le aziende e gli operatori informatici – non è altrettanto facile spiegarsi quale potrebbe essere il ruolo di un esperto di “ethic design” presso un’azienda privata come Google.
In effetti, la carriera di Harris a Mountain View, per quanto breve, si rivela più complicata e interessante di quanto si possa immaginare. Il percorso attraverso cui, presso Google, gli è stato assegnato il titolo di “design ethicist and product philosopher” merita un breve approfondimento.
Nel 2006 Tristan Harris ha seguito a Stanford dei corsi di design presso il “Persuasive Tech Lab” di B. J. Fogg. Pare che in quell’occasione abbia collaborato con Mike Krueger alla realizzazione di “Send the SunShine” un’app con ci si proponeva di alleviare i sintomi dei disturbi stagionali dell’umore (SAD). Mike Krueger in seguito diventerà miliardario come cofondatore di Instagram, mentre Harris lancerà una start-up che si chiamava Apture e che aveva come principale obiettivo quello di facilitare i processi di apprendimento degli utenti in rete. Fin dai suoi primi passi nel mondo dell’informatica Harris si era presentato come uno studioso di interfacce digitali e di processi di apprendimento. Nel 2011 Apture è stata acquistata da Google con l’intero staff. Tuttavia, quando Harris si è reso conto che presso Google non riusciva a trovare l’afflato etico e la vocazione didattica che lo aveva spinto a realizzare Apture, ha deciso di andarsene, non senza aver inflitto ai suoi colleghi di Google una serie di testi e di slide in cui sosteneva l’importanza di sviluppare un nuovo atteggiamento etico nei confronti dei prodotti informatici che vengono lanciati in rete. Quel testo, oramai celebre, iniziava con queste parole:
«Sono preoccupato del fatto che stiamo creando un mondo sempre più disattento. Il mio obiettivo con questa presentazione è creare un movimento presso la sede di Google che si ponga l’obiettivo di minimizzare la distrazione e, per riuscire in questo, ho bisogno del tuo aiuto».
Con grande sorpresa dello stesso Harris, quei suoi materiali hanno si sono rapidamente diffusi per contagio all’interno dell’azienda. Del resto Google, negli ultimi anni, ha dovuto affrontare in diverse occasioni il malumore dei suoi dipendenti. Anche per ragioni storiche legate al brand, la direzione di Mountain View sfoggia un aplomb da corte illuminata e tende a evitare i mormorii che facilmente seguono la diaspora dei propri dipendenti. Così, per dissuadere Harris dall’idea di lasciare Mountain View, è giunto per lui direttamente dai “piani alti” il titolo di “design ethicist and product philosopher” e il relativo nuovo incarico. Harris inizialmente ha accettato la nuova investitura, ma si è poi convinto che presso Google, in ogni caso, non gli sarebbe stato possibile esprimere in piena libertà i suoi convincimenti. Così, ha deciso di intraprendere una carriera privata da “design ethicist” dando il via a una varietà di iniziative e tenendo un numero sterminato di conferenze. Uno dei temi ricorrenti nei suoi interventi pubblici è la denuncia dell’uso crescente, da parte dei colossi del web, di tecniche di stimolazione di tipo comportamentista, orientate alla cattura dell’attenzione degli utenti. La distrazione indotta da questi dispositivi viola le convinzioni etiche più profonde di Harris, che fin dalla fondazione di Apture, come abbiamo visto, si era proposto di contribuire alla realizzazione di una rete a forte vocazione didattica, capace di facilitare l’apprendimento e di stimolare comportamenti intelligenti e virtuosi.
La nuova corrente di critica alle grandi holding di Internet, che pone come suo tema centrale quello dei danni che il web arrecherebbe all’attenzione umana, vanta tra i suoi maggiori rappresentanti Nicholas Carr, autore di un libro dal titolo eloquente: Internet ci rende stupidi?. Tra Carr e i due giovani esperti Google corre tuttavia una differenza: Harris e Williams hanno messo in discussione la loro esperienza di lavoro, raccontando quel che hanno visto di persona negli uffici di BigG e fornendo delle indicazioni sulle tecniche di persuasione che vengono elaborate, proposte e rese operative dai consulenti che lavorano per conto del GAFAM2. Con l’afflato dei tipici whistleblower3 americani Williams e Harris hanno rivelato al grande pubblico alcuni dettagli del lavoro dei nuovi Persuasori occulti4. Nicholas Carr prende invece in esame soprattutto gli esperimenti volti a verificare gli effetti del web sul sistema nervoso umano. Un approccio che si potrebbe definire “periziale” orientato alle neuroscienze e alle ricerche sperimentali sull’attenzione.
Comunque, tanto nei testi di Harris e Williams quanto in quelli di Carr, il problema dell’attenzione e della sua gestione rimane stabilmente al centro del ragionamento. E tuttavia si avverte una senso di insoddisfazione per l’assenza di coordinate storico-politiche che permettano di collocare queste osservazioni sull’attenzione nel contesto più generale dell’economia planetaria e delle sue nuove tendenze. Dobbiamo spingerci oltre un generico sentimento di “scandalo” nei confronti degli abusi e delle manipolazioni dell’attenzione. Se davvero, come sostiene Williams, la liberazione dell’attenzione umana è diventata “la più importante battaglia politica del nostro tempo”, sarà indispensabile iniziare chiedersi cosa sia mai l’attenzione e perché sta assumendo un tale rilievo in questa società così fortemente segnata dalla diffusione di massa delle tecnologie digitali.
Note
1 Si veda ad esempio l’intervista rilasciata da Harris alla rivista Wired: http://www.wired.com/story/our-minds-have-been-hijacked-by-our-phones-tristan-harris-wants-to-rescue-them/
2 Con l’acronimo GAFAM ci si riferisce a Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft.
3 È il termine con cui gli americani indicano le cosiddette “gole profonde” che tentano di rendere pubbliche gravi violazioni dei diritti umani o civili dall’interno dei luoghi di lavoro in cui tali violazioni avvengono.
4 Si tratta del titolo di un libro di Vance Packard uscito nel 1958 negli Stati Uniti e tradotto in Italia solo nel 1989 da Einaudi. L’autore, analogamente a Williams ed Harris, denunciava le tecniche pubblicitarie degli anni del boom economico. La sua analisi era orientata prevalentemente alla teoria dell’inconscio secondo Freud.
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