È possibile oggi, a sinistra, confrontarsi sul tema della maternità surrogata evitando semplificazioni e scomuniche, rifuggendo da polemiche sterili, sforzandosi di ascoltare e comprendere gli argomenti altrui? Credo che si possa per lo meno provarci, nonostante si tratti di un tema divisivo come non mai, fin dalle parole impiegate per nominarlo (maternità surrogata, gestazione per altri, utero in affitto) e nonostante il contesto politico e culturale entro cui il dibattito si svolge oggi, in Italia, sia tutt’altro che favorevole, inquinato com’è da irrigidimenti ideologici, confusioni, malintesi.
Il primo equivoco da cui tocca sgombrare il campo consiste nell’indebito intreccio tra la questione della maternità surrogata e quella dei diritti delle coppie omosessuali, che impone a chiunque si accinga a ragionare sul tema di dichiarare previamente il proprio posizionamento (un po’ come devono fare i pacifisti, costretti a premettere a qualsiasi considerazione sulla guerra in Ucraina la ferma condanna nei confronti di Putin). Non mi sottraggo a questo onere e dichiaro: sono favorevole al matrimonio paritario, alle adozioni per le coppie omosessuali, al pieno riconoscimento dei diritti dei loro figli e figlie, indipendentemente da come sono venuti al mondo. Mi riconosco nei valori di una sinistra laica e anti-paternalista, rispettosa della libertà di ciascuno e ciascuna di “cercare la felicità a proprio modo”. E tuttavia, nutro forti perplessità nei confronti della legalizzazione della maternità surrogata, anche nella forma “altruistica e solidale” difesa da chi è intervenuta prima di me su questo sito (Marisa Nicchi, Laura Ronchetti, Cecilia D’Elia) e in altre sedi (come Fulvia Bandoli e Franca Chiaromonte sul “il manifesto” del 22 aprile).
Elenco qui di seguito quelli che mi sembrano alcuni “punti ciechi” del dibattito che si è fin qui sviluppato, alcune questioni rimaste sullo sfondo e su cui varrebbe la pena di indagare.
La prima: riconoscere valore legale ai contratti di maternità surrogata, anche nella forma altruistica, significa comunque aprire le porte al mercato. Un mercato fatto di agenzie di intermediazione, cliniche, consulenti legali e psicologici, per parte loro non certo animati da spirito solidaristico. Ma quando si apre un nuovo mercato – anche se teoricamente al servizio del dono, come in questo caso (in cui a guadagnare sarebbero le agenzie e le cliniche, mentre alle donne spetterebbe un semplice “rimborso spese”) – la logica commerciale tende a espandersi e a fagocitare tutto il resto. Non stupisce allora che, là dove è stata legalizzata la gpa altruistica, come nel Regno Unito o in Canada, l’entità del rimborso spese finisca con attestarsi su cifre molto vicine a quelle del compenso previsto per la forma commerciale. Se così non fosse, del resto, sarebbero poche le donne disposte a intraprendere l’impegnativo percorso della gpa (somministrazioni di ormoni, prima e dopo l’impianto degli embrioni, controlli medici pervasivi, rischi di aborto e complicazioni superiori a quelli di una normale gravidanza), come poche sono le “donatrici” di ovociti quando il rimborso è esiguo. Non bisogna dimenticare, inoltre, che non esiste mercato senza marketing. Alcune testimonianze di donne assoldate dalle agenzie (talvolta gestite da ex madri surrogate), che dipingono la loro esperienza in termini univocamente positivi, come espressione di altruismo e spirito di sacrificio, andrebbero per lo meno contestualizzate in questa chiave. In definitiva, tenendo anche conto della facilità con cui i limiti legali ai rimborsi e i divieti di intermediazione commerciale previsti da alcuni ordinamenti possono essere aggirati, è molto difficile tracciare un confine tra gpa commerciale e altruistica. Resta il fatto che a prestarsi a portare avanti una gravidanza per altri, nei paesi in cui questa pratica è lecita, sono sempre donne di ceto medio-basso, scarsamente istruite, lavoratrici precarie o disoccupate al momento della stipula del contratto, non certo donne con una professione appagante, un buon stipendio e un elevato livello di istruzione. Un dato difficile da smentire, su cui bisognerebbe riflettere.
Secondo: chi difende la versione altruistica della gpa, e lo fa in nome della libertà delle donne, si esprime in genere a favore del riconoscimento del diritto al ripensamento di colei che, pur avendo firmato un contratto che la impegna a consegnare il bambino ai “genitori intenzionali”, dopo il parto potrebbe decidere di non interrompere la relazione creatasi tra lei e il bambino durante la gravidanza. Insistono su questo punto sia Marisa Nicchi, sia Laura Ronchetti, sia Cecilia d’Elia, che scrive: “L’asimmetria rende la donna che partorisce la figura centrale di questo sistema di relazioni, a lei spetta l’ultima parola sulla gestazione e sui rapporti che vorrà avere con la persona messa al mondo”. È una posizione sacrosanta, che condivido pienamente. Peccato che in nessun luogo in cui la gpa è legale venga riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola. Anche nel Regno Unito, spesso portato ad esempio di paese in cui sarebbe previsto il diritto al ripensamento, l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure del singolo, o della coppia, che lo ha “commissionato”. Non diversamente dispone il ddl Coscioni, che Bandoli e Chiaromonte indicano come promettente punto di partenza per legiferare sul tema. Comma 8 dell’art. 7 del ddl: “In caso di controversie in merito al riconoscimento del rapporto di genitorialità con i nati, le parti possono rivolgersi al tribunale del luogo in cui sono state effettuate le procedure mediche di fecondazione in vitro, che provvede, in camera di consiglio in composizione monocratica, adottando in via d’urgenza un provvedimento nell’interesse dei minori anche in base alle intenzioni manifestate dalle parti e recepite nell’accordo di gravidanza solidale e altruistica”. L’ultima parola, dunque, è di un giudice. Che – l’esperienza insegna – nel superiore interesse del bambino a essere cresciuto in una famiglia più agiata di quella della madre naturale, lo affida di regola ai “genitori intenzionali”. Si potrebbe forse immaginare di scrivere una legge diversa, che riconosca davvero alla donna che partorisce lo status di “domina dell’esperienza della procreazione”, come auspica Ronchetti? Temo sia poco realistico. Come potrebbe reggere alla concorrenza, anche internazionale, un’agenzia che ha la fama di reclutare donne che cambiano idea all’ultimo minuto? L’unico modo per garantire davvero la libertà delle donne consiste nel non riconoscere valore legale ai contratti e fare piazza pulita di qualsiasi forma di intermediazione commerciale. Una via percorribile fin d’ora in Italia, anche con la legge 40, che non impedisce certo a una donna che partorisce di non riconoscere il figlio e di lasciare che lo faccia, al suo posto, il padre, che potrà poi crescerlo con “la”, o “il” partner (D. Danna,“Fare un figlio per altri è giusto”. Falso!, Laterza, 2017, pp. 137-38). Come ha osservato Silvia Niccolai, il principio mater semper certa est, nell’implicare il divieto di qualsiasi contratto di surrogazione: “Crea problemi solo a chi ambisca a ottenere la sicurezza, garantita dalla legge, di avere il potere di controllare una donna durante la gravidanza, e di ottenere la consegna della creatura che nasce; non crea alcun ostacolo a chi si rimetta con fiducia alle scelte autonome di una donna; nulla dice circa se e in quale ‘coppia’ una donna possa avere un figlio ed è amica della maternità lesbica, che non lo contraddice in alcun modo e ne dimostra la capacità di sintonizzarsi con ogni manifestazione di senso indipendente della maternità” (Surrogacy e principio Mater Semper Certa in dialettica, per riscoprire il valore del materno, in CIRSDe. Un progetto che continua. Riflessioni e prospettive dopo 25 anni di studi di genere, a cura di C. Belloni, A. Bosia, A. Chiarloni, C. Saraceno, Torino 2018, pp. 120-21).
Libertà delle donne, dunque, diritto ad autodeterminarsi. Se questo è il tema, se siamo d’accordo nel riconoscere alle donne l’ultima parola su ciò che riguarda il loro corpo, c’è un terzo nodo da sciogliere: quello che riguarda il rapporto tra diritto e libertà. E, più nello specifico, tra legge e contratto. Da più parti si levano oggi proteste nei confronti del panpenalismo dilagante. Batte molto su questo tasto Tamar Pitch, nel suo libro Il malinteso della vittima (EGA 2022), in cui denuncia “l’uso politico del potenziale simbolico della pena” in cui incorrerebbe non solo la destra, ma anche un certo femminismo “punitivo”. Ora, se questa critica coglie nel segno nel denunciare la tendenza (non certo delle femministe) a criminalizzare la povertà e colpire il dissenso, affrontando qualsiasi problema in chiave di repressione, mi sembra che rischi di misconoscere il contributo che il diritto (anche, ma non solo, penale) può offrire alla difesa della libertà. Pensiamo al diritto del lavoro. Se la Costituzione italiana, all’art. 36, vieta di rinunciare al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite è per evitare che i lavoratori siano costretti a una concorrenza al ribasso per la loro sopravvivenza. In modo analogo, il divieto di istituire un mercato legale della maternità surrogata, o degli ovociti, protegge tutte le donne che si trovano in condizioni di vulnerabilità economica e socio-culturale dalla “tentazione” di risolvere i propri problemi affittando o vendendo parti del proprio corpo. Cecilia D’Elia sembra molto turbata dal fatto che “il divieto tout court [della gpa] significa non riconoscere mai la possibilità che una donna scelga la gpa”. Ma anche vietando di rinunciare alle ferie neghiamo la possibilità che un ipotetico Stachanov scelga di ammazzarsi di lavoro! E stabilendo l’obbligo del congedo di maternità vietiamo a un’ipotetica super-donna la possibilità di scegliere di lavorare fino al giorno prima del parto e nei mesi immediatamente successivi. È tutto ciò paternalistico? Implica un’indebita limitazione del principio di autodeterminazione o non piuttosto, una presa di posizione del diritto a favore della generalità dei lavoratori e delle lavoratrici, che del riposo settimanale e del congedo di maternità hanno bisogno? A me sembra, insomma, che questo genere di divieti e di obblighi servano proprio a garantire che il diritto all’autodeterminazione (che è cosa diversa dall’autonomia negoziale) sia messo al riparo dalle pressioni e dai condizionamenti che provengono dal mercato, oltre che dallo Stato.
Un’ultima osservazione in merito all’impostazione di queste nostre discussioni. Si tende spesso a ragionare a partire da un ipotetico (quanto diffuso, non si sa) desiderio femminile di compiere scelte altruistiche, che il diritto vorrebbe paternalisticamente ostacolare. Molto poco si riflette sul fatto che questo altruismo nasce in riposta al desiderio di genitorialità delle coppie infertili, eterosessuali e omosessuali, che sono il vero motore di tutta la faccenda. Vogliamo interrogarci su questo desiderio (al centro del bellissimo volume L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, di Luisa Muraro)? Un desiderio che, oltretutto, riporta in auge un modello di genitorialità arcaico, in cui a contare è la genetica (per lo meno quando i “genitori intenzionali” forniscono, in tutto o in parte, i gameti) e l’esperienza concreta della gravidanza e del parto viene banalizzata, ridotta a mero processo biologico? Vogliamo aprire una riflessione sul fatto che il desiderio di accudire, crescere, educare i nuovi nati può essere soddisfatto attraverso molteplici forme di genitorialità sociale, basate sull’adozione o l’affido, ma talvolta anche sulla disponibilità ad accompagnare la crescita dei figli altrui, in nome di legami di solidarietà e di affetto che non hanno bisogno di contratti per manifestarsi?
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