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Auto elettriche? Sì, grazie, basta che siano poche

Quello che manca nel documento-base della recente Alleanza Clima Lavoro. La componente ‘industriale’ delle strategie di contrasto del Climate Change va inserita all’interno di un approccio che metta a tema un passaggio di civiltà, i cui contorni restano ancora da disegnare con maggiore ampiezza di riferimenti e con più chiarezza

1. Sebbene la pubblicità che le riguarda, ormai dilagante, trasmetta messaggi pressoché insopportabili, non cederò alla tentazione di scrivere un’invettiva contro le auto elettriche. Piuttosto cercherò di dire quanto eccessiva sia l’attenzione che esse ricevono come parte dei mezzi che dobbiamo mettere in campo per affrontare la crisi ecologica in corso da trent’anni: in effetti, forzando appena un po’, si può sostenere che esse sono ‘parte del problema’, piuttosto che della soluzione. E per essere onesto, dirò anche perché mi sono risolto a scrivere queste righe: a causa dell’impressione che ho ricevuto dalla lettura del documento posto alla base della recente Alleanza Clima Lavoro, dove l’argomento è trattato senza neppure un cenno ai suoi motivi di fallacia. Aggiungo anche, subito, che questa circostanza mi sembra fin troppo rappresentativa della ristrettezza che perlopiù contrassegna il quadro interpretativo – e prima ancora lo spazio ideale– dei discorsi dedicati alle questioni ambientali, in tanta parte consegnato alle categorie dell’innovazione tecnologica, della riconversione industriale, del posizionamento sui mercati legati alla transizione, ecc. Né, al fine di allargarlo, basta far intervenire istanze di carattere ‘sociale’, perché anche queste ultime possono soffrire di un’interpretazione al di sotto dei problemi di civiltà che in effetti sono all’ordine del giorno.

2. In generale, a proposito delle auto elettriche, bisogna dire e pensare

  1. che sì, in quanto elettriche possono contribuire all’affrontamento dei problemi di natura ambientale, ma molto meno di quanto in genere si crede;
  2. che in quanto auto confermano una visione dei problemi legati mobilità nefasta sotto ogni aspetto.

Ancora, per riassumere il senso generale della posizione che mi sembra giusta:

  1. qualsiasi ragionevole funzione del benessere sociale, definita nello spazio dei bisogni di mobilità, non può che assegnare un ruolo sussidiario, integrativo, per non dire proprio ‘interstiziale’, al tradizionale modello dell’automobile posseduta privatamente da una singola famiglia;
  2. per conseguenza, la quantità delle automobili che servono è relativamente piccola, comunque un numero molto inferiore a quello che il secolo della motorizzazione di massa ha consegnato alla nostra immaginazione;
  3. e certo, le automobili che davvero servono sarà opportuno equipaggiarle con motori elettrici.

2.1. Per quanto riguarda il punto (a), l’unica virtù delle automobili elettriche sta nel fatto che il loro esercizio non comporta emissioni di CO2. Non così, però, la fase della loro produzione, che ne comporta una quantità maggiore di quella associata alla produzione dei veicoli di tipo tradizionale, tanto che il breakeven point, con le tecnologie attuali e per gli attuali modelli di punta, si raggiunge soltanto intorno a 90.000 chilometri di percorrenza1. Al riguardo, naturalmente, moltissimo dipende dalle fonti dalle quali vengono ottenute l’energia elettrica che serve alla trazione e l’energia che serve alla produzione2. Tuttavia, anche nella migliore delle ipotesi – tutta l’energia ottenuta da fonti rinnovabili – i vantaggi raggiungibili in termini di mancate emissioni di CO2 comporteranno un inevitabile aumento del consumo di materiali, sia legato alla riconversione rinnovabile del sistema elettrico, sia, e in misura consistente, al maggiore consumo di materiali che le automobili elettriche, molto più pesanti di quelle termiche, comportano in se stesse.

In effetti, uno dei maggiori limiti del discorso mainstream intorno alla crisi ecologica sta proprio nel fatto che i problemi esistenti dal lato della materia soffrono di un’indebita messa in ombra da parte di quelli che sorgono dal lato dell’energia, direttamente connessi al livello delle emissioni di CO2. Ora, veramente, non si vorrebbe perdere tempo a dire che non si tratta in alcun modo di ridimensionare il peso di questi ultimi, che difficilmente potrebbero essere più gravi, tanto che nessuno può seriamente pensare che i target di Parigi siano ancora raggiungibili. Ma è pur vero che il ‘senso comune’ della crisi ecologica soffre di un vistoso riduzionismo energetico, propiziato da certo riduzionismo climatico, e che questa circostanza, da sola, dice molto circa la povertà del quadro interpretativo ad oggi prevalente. Perché appunto si dà il caso che i problemi sorgano invece su due versanti, anzi tre, l’energia, la materia e la materia vivente; che tutti e tre si connettano per ragioni che difficilmente potrebbero essere più profonde, legate alla costituzione fondamentale del Sistema Terra; e che i vincoli più stringenti, in verità, intervengano proprio dal lato dei flussi di materia. In breve, “dato che la terra è aperta a un massiccio flusso in entrata di energia solare ma è sostanzialmente un sistema chiuso dal punto di vista materiale, non sorprende che la materia a bassa entropia, non l’energia, emerga con chiarezza come il vincolo di ultima istanza [the ultimate constraint] delle attività produttive umane”3. Tra l’altro, visto che il riuso della materia richiede sempre l’impiego di energia, la cui produzione richiede a sua volta l’impiego di materia, e nel caso delle fonti rinnovabili un impiego di quest’ultima in grandi quantità, si comprende come le strategie intitolate all’‘economia circolare’ incontrino per forza di cose, esse stesse, precisi limiti di ‘sostenibilità’4.

Naturalmente, i modi particolati nei quali la finitezza della materia disponibile si fa valere nelle funzioni di produzione pertinenti al nostro caso richiederebbero considerazioni di tutt’altra ampiezza. Ma proprio questo è il fatto: viste le ragioni di principio che lo rendono senz’altro inaggirabile, l’ultimate constraint della citazione andrebbe sempre tenuto a mente e appunto indagato in termini analitici, per come di volta in volta prende corpo, mentre il mainstream dello sviluppo sostenibile ne parla poco e niente – e il documento-base dell’Alleanza non ne parla affatto.

2.2. Al di là del limitato contributo alla riduzione delle emissioni di CO2, i motori elettrici lasciano inalterate, e talvolta accentuano, le molteplici ragioni di inefficienza che le automobili fanno registrare in quanto tali, per via del loro stesso concept, e in quanto mezzi privati, posseduti e usati da singole famiglie. Senza pretese di completezza, qualche dato a sostegno della tesi5.

  • Dal 1989 al 2019 la tara media (il peso del veicolo senza passeggeri a bordo) è passata da 870 a 1.238 chili. Come risultato, il suo attuale rapporto con il carico utile è pari a 11:1 per le automobili più leggere e fino a 32:1 per quelle più pesanti. Peggio ancora nel caso delle auto elettriche. Il motore è più efficiente, ma le tare sono maggiori: quella della Tesla S, per esempio, è di circa 2.400 chili, 1/3 dei quali dovuti alla batteria. Questi dati dicono anche quanto poco l’energia consumata serva a spostare le persone, e quanto, invece, sia al servizio di veicoli che in massima parte, per così dire, trasportano se stessi.
  • Nel complesso, le automobili elettriche non riducono la produzione di polveri sottili, causa principale dei danni che la mobilità privata reca alla salute umana. Più precisamente riducono del 4-7% la produzione di PM10 ma aumentano del 3-8% quella di PM2,5.
  • In media, veicoli che possono trasportare 4-5 persone ne trasportano 1,5.
  • La tipica automobile europea resta ferma per il 95% del suo intero arco di vita.
  • Chi guida passa circa 1/5 del tempo a cercare parcheggio.
  • Le tre figure alla fine del testo mostrano che le automobili, in confronto con altri mezzi di trasporto, (i) consumano un’enorme quantità di suolo, (ii) riescono a convogliare pochissime persone, (iii) per distanze fino a 8 chilometri comportano un consumo di tempo più o meno uguale a quello dell’uso di una bicicletta (meno fino a 4.5 chilometri).
  • Per non parlare delle questioni legate alla sicurezza e di tutti i danni alla salute diversi dalle malattie polmonari legate alla produzione di polveri sottili.

Tenuto conto di questi punti e delle cose dette in 2.1, la situazione sembra tanto chiara quanto sconfortante. La crisi ecologica (climatica) dovrebbe essere considerata una dolorosa occasione per sbarazzarsi finalmente del peso che l’automobile esercita sull’insieme delle questioni legate alla mobilità, e di qui sulla configurazione e sulla dinamica dell’intero sistema economico e sociale, mentre – via sostituzione dei motori a combustione interna con i motori elettrici – si sta trasformando in un’opportunità per ottenere che il suo peso resti invece confermato, e casomai rilanciato, visti i problemi di maturità che ampie parti del settore dell’automotive presentano ormai da molti anni a questa parte. Né si tratta di cosa poco rilevante, visto che la suddetta sostituzione costituisce una delle applicazioni più importanti dell’idea che l’innovazione tecnologica, se adeguatamente finanziata, ha tutte le carte in regola per portarci fuori crisi, sicché in effetti non vi è alcun bisogno di chiamare in causa il quadro dei rapporti sociali che presiedono al corso dell’attività economica. Nella sua proverbiale flessibilità, e da sempre alleato della scienza-tecnica, l’ordinamento capitalistico dell’economia è perfettamente in grado di affrontare i problemi di carattere ambientale, e anzi di sfruttare le necessità di inverdimento delle attività produttive e dei consumi per aprire una nuova stagione della crescita: poche cose trasmettono questo messaggio meglio del ‘discorso’ che verte sulla possibilità/necessità che le auto elettriche prendano il posto di quelle ‘a benzina’, equipaggiate con motori a combustione interna.

Beninteso, non voglio dire che anche il documento-base dell’Alleanza trasmetta un simile messaggio – sebbene in molti punti risulti ispirato alla necessità di tenere il passo delle trasformazioni in corso sui mercati, nelle quali il messaggio si viene a concretare. Nel testo, però, della situazione economico-culturale appena richiamata non si trova traccia e quindi, neppure, un qualsivoglia cenno di denuncia, restando così disatteso un compito critico che viceversa mi sembra proprio inderogabile. Certo, nessuno può criticare un altro perché non dice quello che egli stesso pensa. Ma qui siamo in presenza di una questione di egemonia chiaramente iscritta all’ordine del giorno del tempo in cui viviamo, e veramente troppo grossa perché sia lecito tacerne; come noti e difficili da ignorare sono anche i punti che ho citato, per i quali le auto elettriche, lungi dal testimoniare la possibilità di affidare alla tecnologia l’uscita dalla crisi dei nostri rapporti con l’ambiente, sono piuttosto la prova provata di quanto una prospettiva del genere risulti alla fine impropria, incomprensiva, asfittica. Spero vivamente che su questo si possa convenire – ma se così è, ripeto, la cosa va detta a chiare lettere.

3. Anche perché in tal modo risulterebbe molto rafforzata l’importanza del trasporto pubblico, che il documento rivendica con la dovuta convinzione. D’altra parte, questo stesso argomento va collocato all’interno di un quadro interpretativo di diversa ampiezza. In breve, raccogliendo le indicazioni che provengono dalla letteratura e dalle migliori esperienze europee, dirò che si tratta di operare un completo capovolgimento della gerarchia dei modi di trasporto ereditata dal secolo passato, in vista del seguente ranking:

  1. quello che ormai va sotto il titolo di Trasporto Attivo, vale a dire gli spostamenti a piedi e in bicicletta;
  2. il Trasporto Collettivo, nel quale, con un ruolo marginale, si possono anche includere i vari casi nei quali le automobili sono condivise da un numero indeterminato di persone;
  3. last and least il Trasporto Privato, per mezzo di automobili possedute e usate da singole famiglie.

A costo di una certa forzatura, aggiungo che l’ordinamento così sinteticamente messo in forma va inteso proprio in senso ‘lessicografico’, vale a dire come un ordinamento di priorità piuttosto che come un insieme di possibilità fungibili. Così, in primo luogo, si tratta di massimizzare gli spostamenti affidati al Trasporto Attivo, facendo di tutto per ‘proteggerlo’ e renderlo appetibile; esaurite le sue possibilità, all’aumentare delle distanze, il Trasporto Collettivo provvederà al bulk degli spostamenti veloci, secondo il principio del Servizio Universale, presidiato dalla mano pubblica; infine, esauriteanche le possibilità di quest’ultimo, il Trasporto Privato provvederà alle situazioni nelle quali in effetti non è immaginabile che gli altri due tipi riescano a funzionare a costi ragionevoli, di tempo e di denaro.

Parte integrante di un approccio del genere è l’operazione di sottrarre gli spostamenti ottenuti con l’impiego di energie personali alla visione di una realtà minore, magari apprezzabile, ma inevitabilmente marginale rispetto al grosso dei problemi (in effetti, il documento-base dell’Alleanza riserva a essi poco più di un cenno). Che si tratti di una visione sbagliata – vecchia, superata – si può provare con i fatti, grazie all’esperienza di varie città: a Parigi, per esempio, la metà degli spostamenti avviene appunto in forma attiva. Ma qui, soprattutto, va detto che quest’ultima può assumere il rilievo che deve soltanto se l’intero problema dei trasporti è (re)interpretato in chiave ‘urbanistica’ (più in generale di pianificazione territoriale), ragionando quindi, innanzi tutto, in termini di accessibilità dei luoghi e delle funzioni. La massimizzazione degli spostamenti a piedi o in bicicletta è una faccenda di distribuzione delle centralità urbane, allocazione dei servizi, disegno dei quartieri, valorizzazione strategica degli spazi pubblici – tutte cose, d’altra parte, che stanno nel cuore del tipo di città che ha senso volere sotto ogni aspetto. E considerazioni analoghe valgono anche per quanto riguarda la ‘successiva’ massimizzazione delle possibilità di spostamento offerte dal Trasporto Collettivo.

A ragionare in questo modo, il ‘trasporto’ cessa definitivamente di essere inteso come un’‘industria’, o un ‘settore’, per acquistare il senso di un layer dell’esperienza urbana, catturata, volendo, in termini di ‘funzionamenti’ e ‘capacità’6; e l’innovazione tecnologica cede il passo alle prerogative (diventa parte) dell’innovazione sociale, appunto in quanto riferita alla configurazione dei fatti insediativi, ai modi del nostro stare e muoverci negli spazi che stanno intorno a noi. Inoltre, a pensarci bene, lo stesso tema dell’innovazione sociale subisce in questo modo una sorta di intensificazione, al punto che le stesse categorie del capabilities approach risultano per qualche verso incomprensive: non si tratta più, soltanto, di ‘soluzioni’, ‘assetti’ e ‘funzionalità’, bensì di pratiche e forme di vita delle quali (poter) essere partecipi, con tutto il portato esistenziale e valoriale (di significazione) che l’ultima locuzione s’incarica di comunicare. Appunto in questo senso, all’inizio, dicevo che l’ordine del giorno comprende questioni di civiltà che superano (di gran lunga) il modo corrente di intendere il ‘sociale’ e del cui tenore, però, bisogna mettersi all’altezza.

Troppo? Forse no. Da sempre uno dei compiti principali del pensiero critico è quello di sciogliere la rigidità ‘cosale’ dei problemi, che in genere contrassegna il primo momento nel quale si presentano. E la stessa profondità della crisi ecologica, a intenderla come si deve, invita ad alzare il profilo dell’argomentazione, in direzione dell’eterna e fatica domanda ‘come vogliamo vivere’, che d’altra parte, per sua natura, è fatta apposta per selezionare contenuti e indicazioni pratiche. Per molti aspetti i bisogni di mobilità sono – dovrebbero essere – un terreno elettivo di un simile esercizio di progettazione alta, culturalmente attrezzata, portato avanti a ridosso di esperienze che tutti noi, ogni giorno, ci troviamo a vivere.

4. Non mi sfugge che in tutto ciò sono implicati gravi problemi di quantità e qualità dell’occupazione – e che il ranking che ho proposto non rende più facile il compito di affrontarli. Anche per quanto li riguarda, però, bisogna adoperare le armi della critica, e il modo per farlo, in estrema sintesi, consiste nel richiamare in servizio l’illustre categoria del lavoro socialmente necessario, definito come (i) la quantità di lavoro (remunerato) della quale vi è bisogno per produrre (ii) le quantità di beni e servizi (professionali) che abbiamo motivo di desiderare. L’ordinamento dei diversi tipi di trasporto ha appunto a che fare con (ii), e va quindi riguardato come il punto di partenza dal quale, a ritroso, inferire (i), che in tal modo viene a coincidere con i livelli occupazionali che effettivamente ha senso perseguire e ‘difendere’, pretendendo che siano garantite le loro condizioni di raggiungimento e di stabilità. Ragionare al contrario, fare di un determinato livello occupazionale qualcosa di simile a un fine ‘in sé’, ricorda in certo modo l’operazione di mettere il carro avanti ai buoi, cosa tanto meno ragionevole quando si tratti di un livello maggiore di quello necessario a conseguire (ii): come ognuno di noi è lieto di scoprire che un certo risultato, che desidera, può essere ottenuto impiegando meno tempo di quello che aveva messo in conto, lo stesso ha senso pensare che debba valere per la società nel suo complesso. Con la fondamentale implicazione, si capisce, che il lavoro socialmente necessario sia “as widely shared as possible”, per citare Keynes, condiviso con quanta più larghezza sia possibile, per mezzo, se del caso, di tutte le operazioni di riduzione del tempo di lavoro pro-capite delle quali risulti che vi è bisogno, ovviamente a parità di reddito.

Inutile dire che la sequenza logica appena presentata è appunto tale – un quadro di riferimento ideale, o meglio un modo di ragionare, un’idea regolativa, la cui messa in opera dovrà tener conto delle circostanze che di volta in volta si presentano. Del resto, sia pure nella forma di un cenno rapidissimo, il tema della riduzione del tempo di lavoro, a parità di salario, fa capolino nel documento-base dell’Alleanza, con specifico riferimento all’occupazione nel settore dell’automotive. Ecco, per poco che le cose che ho detto siano sensate, la variabile ‘tempo di lavoro’ non va citata di sfuggita, nella forma di un ‘anche’, bensì messa al centro del quadro interpretativo, al modo di una ‘via maestra’. Anche al netto dei problemi legati alle innovazioni labour saving, le considerazioni circa il ruolo ‘di terza fila’ che ragionevolmente conviene riservare alle automobili (elettriche, certo) costringono a mettere in conto la possibilità di cospicue riduzioni della quantità di lavoro assorbita dal settore, misurata in ore, e per quanto mi riguarda non è proprio il caso di pretendere che se ne produca un numero maggiore pergarantire i livelli occupazionali. D’altra parte, va anche detto che la parola d’ordine della riduzione del tempo di lavoro va sottratta a interpretazioni meramente settoriali e complessivamente ripensata all’altezza della configurazione ‘transizionale’ che i mercati del lavoro hanno assunto negli ultimi decenni, molto meno compatta di quella che l’età industriale ha consegnato alla nostra immaginazione. Sicché, in un modo o nell’altro, la prospettiva di un parziale disaccoppiamento di reddito e lavoro, perseguita erga omnes per mezzo di una qualche forma di basic income, sembra necessariamente ‘parte della soluzione’.

Neppure mi sfugge che è fin troppo facile ragionare di queste cose nel confortevole ambiente di un centro studi mentre sul campo, in tante situazioni, i problemi mordono nella carne viva delle persone. Considerazioni di tutt’altro genere meritano quindi le lotte in corso nelle aziende e nei territori, dove tutto è molto più difficile e stringente di quanto possa mai essere compreso nel registro di un discorso circa l’evoluzione di lungo periodo della realtà economica. Il documento-base dell’Alleanza, però, ha un’evidente ambizione strategica, registrata proprio sul periodo lungo, e si propone anche come un testo ‘retorico’, in senso buono, di ampio respiro ideale. Qui, allora, il versante ‘regolativo’ del pensiero critico riacquista i suoi diritti: lasciare che l’immediatezza dei problemi condizioni oltre misura il quadro del pensabile può fare danni anche molto seri (di lungo periodo).

Un punto ‘immediato’, però, mi preme comunque rivendicare, che ha a che fare con i problemi di qualità dell’occupazione. La sequenza che ho esposto – la connessione logica di (i) e (ii) – non implica affatto una visione del lavoro di tipo soltanto strumentale, ignara delle sue valenze in termini di autorealizzazione, autostima, manifestazione di capacità, ecc. – in breve, del fatto che il lavoro è di per sé un ‘bisogno’. Tale esso è senz’altro, e di assoluto rilievo antropologico (sebbene starei attento a dire che è ‘il primo’); ma appunto in quanto sia lavoro, vale a dire un impiego di energie riscattato dalla validità sociale di quello che produce, accertata nel dominio pubblico. Nel lavoro, insomma, nel suo medesimo concetto, è comunque presente un ‘nucleo’ di strumentalità, una scansione del tipo risorse-risultati, già implicita nel fatto che si tratta di ottenere determinati beni e servizi, che abbiamo motivo di desiderare. Questo non impedisce affatto di ravvisarvi il profilo di un ‘valore intrinseco’, che però va colto mettendo a fuoco qualcosa come una non-strumentalità (un ‘dignità’ morale, sociale, antropologica) della stessa strumentalità (materiale). Così, la qualità dell’occupazione sta innanzi tutto nel rispetto di questa condizione di ‘senso’, senza la quale nessun contenuto ‘professionale’, per quanto alto, nessun padroneggiamento della scienza-tecnica, per quanto in sé gratificante, potrà mai bastare. Anche l’‘industria’, senza dubbio, ha una sua bellezza, che tuttavia non basta a se medesima, e comunque deve commisurarsi all’evoluzione storica dei bisogni e delle possibilità: oggi, tutto quello che riguarda il Trasporto Privato, per quanto tecnologicamente evoluto, sta sulla frontiera più arretrata della civiltà.

5. Una considerazione finale. Non so come mai, ma quasi nessuno, nel dibattito corrente, segnala il fatto che le auto elettriche sono un classico esempio di ‘consumo difensivo’, nel senso specifico che la locuzione assume nell’ambito della teoria economica. Vale a dire un consumo che evita un ‘danno emergente’, ma non configura un progresso rispetto alla situazione di partenza, la quale, nella migliore delle ipotesi, resta uguale. In parole povere, le auto elettriche non forniscono in alcun modo un servizio diverso e superiore rispetto a quello fornito dalle auto a benzina, come accadde, per dire, quanto queste ultime sostituirono le carrozze a cavalli: soltanto, nella misura limitata che si è detta, aiutano a impedire che si manifestino perdite di benessere, legate a un ulteriore deterioramento dei parametri ambientali. Lo stesso, del resto, vale per l’intera riconversione energetica: in un kWh ottenuto per mezzo di fonti rinnovabili non è contenuta alcuna innovazione di prodotto che faccia la differenza rispetto a uno ottenuto da fonti fossili. E tanto peggio, si capisce, vanno le cose quanto le sostituzioni avvengano prima che i beni già prodotti (siano essi di consumo o investimento) abbiano esaurito i loro cicli di vita utile.

Al solito, va da sé che osservazioni del genere non tolgono che i danni vadano evitati, che consumi difensivi abbiano una loro precisa ragion d’essere. Ma restano tali, e il loro carattere un po’ depresso influenza profondamente il clima (appunto) della vita sociale ed economica. Come pure accade per tanti altri aspetti, fortissima è la sensazione di correre per restare fermi, per non andare indietro. Il che, in generale, la dice lunga circa il punto al quale è giunta la vicenda storica del capitalismo, come stesse attraversando una linea d’ombra, oltre la quale, ogni anno che passa, il carattere ‘progressivo’ del sistema diventa sempre più evanescente, quasi introvabile. Ma soprattutto, adesso, se le cose stanno in questi termini, la possibilità di impostare i problemi della mobilità in modo tutt’altro che difensivo, configurando piuttosto un passo avanti sul piano della qualità civile delle soluzioni, secondo una prospettiva che oltretutto ha il pregio di ridurre la quantità del lavoro socialmente necessario – questa possibilità dovrebbe essere esplorata con tutta l’intelligenza, la libertà di giudizio e la determinazione di cui si è capaci. Per il momento, lo dico con rispetto e sofferenza, l’Alleanza Clima Lavoro resta al di qua di questa prospettiva.

Figura 1 – Occupazione del suolo per diversi mezzi di trasporto in condizioni di moto e di sosta

Fonte. Immagine tratta dall’intervento di F. Filippi citato in nota 6.

Figura 2 – Capacità dei mezzi di trasporto

Fonte: TUMI-Transformative Urban Mobility Initiative[7], citata in F. Filippi, I trasporti urbani e lo sviluppo delle città, cit. (nota 6).

Figura 3Tempi di spostamento da porta a porta in un contesto urbano

Asse verticale: minuti, asse orizzontale: chilometri. Fonte: DeKoster J, Schollaert U, 1999, Cycling: the way ahead for towns and cities, European Communities, 11, citata in F. Filippi, I trasporti urbani e lo sviluppo delle città, cit. (nota 6).

Note

1 https://www.polestar.com/global/sustainability/climate-neutrality/, consultato il 20 aprile 2023 e https://www.polestar.com/dato-assets/11286/1630409045-polestarlcarapportprintkorr11210831.pdf

2 Il dato di un breakeven point intorno ai 90.000 chilometri di percorrenza riflette la una composizione della produzione di energia elettrica completamente rinnovabile. In Europa, dove il 50% della elettricità è prodotta priva di effetti climalteranti, sotto l’ipotesi di una vita utile dei veicoli di 200.000 chilometri, la minore emissione di CO2 è pari a circa il 30% dell’equivalente automobile a combustione interna.

3 Paul Burkett, Marxism and Ecological Economics. Toward a Red and Green Political Economy, Brill Leiden, Boston, 2006, p. 144.

4 Inevitabile, qui, un cenno a Georgescu-Roegen e alla cosiddetta quarta legge della termodinamica, che lo stesso Burkett (ibidem) formula come segue: “The key assumption […] is that the entropy law applies not just to energy but also to matter, that is, that ‘matter, too, is subject to an irrevocable dissipation’” [L’assunzione chiave […] è che la legge dell’entropia non si applica soltanto all’energia ma anche alla materia, vale a dire che ‘anche la materia è soggetta a un’irrevocabile dissipazione’.] Della questione converrà occuparsi con diversa ampiezza. Per il momento mi attesto sulla valutazione – equilibrata, mi sembra – che ne dà Tim Jackson in How the light gets in – The science behind growth scepticism (https://timjackson.org.uk/how-the-light-gets-in/). Iron turns to rust. Concrete turns to dust. Even silicon chips degrade over time. Some of these processes can be reversed, with sufficient high-quality energy. Others are to all intents and purposes irreversible. This is not some dubious fourth law of thermodynamics. But it is a feature of a biophysical world that is governed by non-equilibrium thermodynamics. Our understanding of the limits of that biophysical world was illuminated – and not obscured – by Georgescu-Roegen’s pioneering work [Il ferro diventan ruggine. Il cemento diventa polvere. Anche i chips di silicio si degradano nel tempo. Con una sufficiente quantità di energia pregiata, alcuni di questi processi possono essere fatti tornare indietro. Altri sono irreversibili a tutti gli effetti, Questa non è una dubbia quarta legge della termodinamica. Ma è una caratteristica di un modo biofisico governato dagli stati termodinamici lontani dall’equilibrio. La nostra comprensione dei limiti del mondo biofisico è stata illuminata – non oscurata – dal lavoro pionieristico di Georgescu-Roegen].

5 I punti che seguono sono tratti da F. Filippi, I trasporti urbani e lo sviluppo delle città, di prossima pubblicazione sul numero 3 della rivista I piedi sulla terra, ospitata in questo stesso sito, e dall’intervento dello stesso autore alla presentazione del libro di Nicolò Savarese, Spazio pubblico. Dai primi insediamenti umani alle città del futuro, Albatros Il Filo, 2023, consultabile al link https://centroriformastato.it/spazio-pubblico-dai-primi-insediamenti-umani-alle-citta-del-futuro/.

6 Ovvio il riferimento al capabilities approach legato ai nomi di Martha Nussbaum e Amartya Sen.

7 https://www.transformative-mobility.org/publications/passenger-capacity-of-different-transport-modes

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