Materiali

L’industria e oltre

Scandagliando tre settori industriali fondamentali, Vincenzo Comito nel suo ultimo libro ci offre un quadro delle linee di sviluppo e di competizione globali, stimolandoci a guardare la materialità del presente per pensare con radicalità al futuro

La recente pubblicazione dell’ultimo libro di Vincenzo Comito – Come cambia l’industria. I chip, l’auto, la carne, Futura Editrice, 20031 – offre una nuova, preziosa occasione per provare a riflettere sui dati immediati della realtà economica con la dovuta larghezza di riferimenti. Per un verso, siamo di fronte a una serie di percorsi affatto interni agli ambiti che l’opera prende in considerazione, e senza dubbio, a questo suo carattere, si connette un peculiare e cospicuo motivo di interesse. Si tratta di ricostruzioni puntuali, vivaci, ricche di particolari: a leggerle, si ha la precisa e grata sensazione di imparare una grande quantità di cose. Ma nulla, al tempo stesso, vieta di accedere a un secondo piano di lettura, sul quale gli itinerari interni, proprio perché seguiti fino in fondo, si aprono a considerazioni di diverso genere – mettono capo a esiti alla cui altezza il ‘discorso dell’industria’, per così dire, non basta più a se stesso.

Delle tre, la parte del libro nella quale la possibilità di questa duplice lettura risulta più evidente è quella dedicata al settore automobilistico, soprattutto i paragrafi che descrivono l’avvento dei veicoli elettrici. E in omaggio al principio ‘meglio meno ma meglio’, a essa è riservato il grosso di questa nota di commento. D’altra parte, la conclusione alla quale arriveremo è abbastanza generale da poter essere riferita anche agli due settori citati nel titolo, dei quali, magari, avremo modo di occuparci in prossimi interventi.

Innanzi tutto, nel limite che ho detto, vale senz’altro la pena provare a restituire qualcosa del panorama che, pagina dopo pagina, si viene a formare sotto i nostri occhi.

Il dato saliente è senza dubbio il peso dell’industria cinese, che nel 2021 garantiva oltre il 50% della produzione globale di auto full electric (da 2,9 a 3,5 milioni su un totale compreso tra 5,6 e 6,7 milioni, secondo diverse fonti), e una quota ancora maggiore nel 2022 (5,3 su 7,7). Né la situazione sembra destinata a modificarsi: secondo una stima del 2021 – che per altro Comito giudica abbastanza conservativa – nel 2028 la Cina dovrebbe produrre 8 milioni di unità contro 5,7 dell’Europa e 1,7 degli USA.

Ancora, a conferma del dinamismo espresso dal maggiore paese asiatico va citata la propensione, già manifesta, a catturare quote importanti dei mercati estesi, in particolare della domanda europea, anche grazie a un livello dei prezzi ormai allineato a quello delle vetture tradizionali (che in Europa e USA, invece, restano ancora meno costose). Lo stesso per quanto riguarda la capacità produttiva accumulata nel comparto delle batterie (con il 70% della produzione globale) e la ricerca di punta che le riguarda, compreso lo sviluppo di sistemi di sostituzione immediata (che evitano i tempi di ricarica) per mezzo di impianti robotizzati collocati presso stazioni di servizio: una soluzione già sperimentata in patria e recentemente introdotta anche in Nord Europa. In effetti, nel complesso, “con lo sviluppo dell’elettrico, l’Europa potrebbe nei prossimi anni registrare un deficit nella bilancia commerciale del settore con il Paese asiatico”: a causa del combinato disposto di fattori di costo e di fattori competitivi nel campo dei dispositivi digitali, il vecchio continente “potrebbe trovarsi presto nella spiacevole posizione di comprare auto prodotte in Cina con software USA o cinese. Si tratterebbe di una rivoluzione inaudita” (p. 88).

D’altra parte, se tale è il dato saliente, sono moltissimi gli elementi che comunque rendono il panorama altamente incerto e movimentato – in buona parte proprio per effetto delle strategie adottate negli altri paesi a fronte dell’egemonia cinese.

In questo senso va subito citata quella che Comito chiama la “Variante Biden”. Giusta la parola d’ordine “Noi non lasceremo che essi vincano questa gara”, l’amministrazione statunitense ha varato un provvedimento da 147 miliardi di dollari, di netta impronta protezionistica, grazie al quale, a partire dal 2030, la quantità delle auto elettriche vendute nel paese dovrebbe arrivare al 50% del totale. In realtà, a giudizio degli esperti, proprio la parte delle norme che esclude la presenza nei veicoli di tecnologie e lavorazioni cinesi contribuisce a rendere l’obiettivo assai poco credibile (si prevede piuttosto un 20%) e ancora soggetta a tensioni la configurazione finale del programma.

Ma poi, in generale, al di là della particolare coloritura che l’argomento assume nel confronto USA-Cina, il libro restituisce bene la pluralità di posizioni, iniziative, accordi, progetti, programmi di investimento, ecc. che l’evoluzione del settore fa registrare a ogni latitudine e in tutti i suoi tutti suoi aspetti. Veniamo così informati dei diversi impegni assunti dai governi, dei contenuti e dell’entità finanziaria dei piani adottati dalle imprese (per altro, almeno fino a qualche tempo fa, con sensibili differenze di ‘propensione’ all’elettrico), dei propositi, anche europei, di superare il quasi-monopolio che la Cina esercita sulla lavorazione dei materiali critici (soprattutto litio, nichel e cobalto, disponibili in varie parti del modo, ma in massima parte importati e ‘processati’ nel paese asiatico). E di altro ancora, compreso un focus sul caso Tesla, che non può non colpire per verve imprenditoriale, e uno, molto più lungo, sul caso Stellantis, che non si presta alla stessa considerazione.

Ripeto. Il quadro che così viene a formarsi è tanto istruttivo quanto vivace, mosso, interessante; forse, in qualche punto, un po’ frammentario, ma anche in questo aderente a uno stato delle cose che ha poco a che vedere con l’idea di ‘un ordinato sviluppo dei mercati’. Come pure convincente è il gioco che viene a delinearsi dei tre fattori-chiave leggibili nella trama dei fenomeni: il corso del progresso tecnologico, in certo modo dotato di vita e forza proprie. “La legge coercitiva esterna della concorrenza”, come la chiamava Marx, attraverso la quale quello fluisce nella realtà economica; la politica, le scelte dei governi, certamente legate a preoccupazioni ecologiche, ma a loro volta tutt’altro che esenti da motivazioni di ‘competitività’.

Tuttavia, verso la fine della parte in questione, quando il discorso sembra aver toccato tutti i punti che doveva, accade qualcosa di inatteso, una specie di colpo di scena. Sotto un titolo apprezzabilmente sobrio (Gli sforzi sull’elettrico non sono ancora sufficienti), riceviamo una notizia che per così dire, invece, deve sconcertare. Vale la pena di citare.

Anche se stiamo assistendo a un forte decollo nella produzione e vendita di veicoli basati sulle nuove energie, allo stato dei fatti e anche secondo le previsioni più ottimistiche, quelle di Morgan Stanley, nel 2030 l’insieme delle vetture elettriche e affini circolanti nel mondo rappresenteranno soltanto il 10% del parco totale e vi saranno ancora 1,5 miliardi di auto alimentate dalla benzina o dal diesel (150 milioni più di oggi). Tale situazione significherà che la domanda di combustibili tradizionali in tale anno, anche assumendo un incremento dell’efficienza degli stessi veicoli, sarà ancora simile a quella di oggi (p. 96).

Ora, a me, questo non sembra proprio un ‘particolare’, un dato che possa essere messo sullo stesso piano dei tanti altri già presi in considerazione: piuttosto, ragionevolmente, ne va del giudizio complessivo che conviene formulare circa l’avvento delle auto elettriche, né si può evitare di essere colpiti dal fatto che tanto dinamismo industriale generi alla fine vantaggi tanto piccoli, di fatto trascurabili. Perché certo, la situazione sarebbe ancora peggiore se anche quel 10% restasse a combustione interna, ma questo non toglie che la povertà dei risultati appaia senz’altro clamorosa, tanto più che la climate science ci avverte che il decennio in corso è quello decisivo al fine di evitare il superamento di punti critici, oltre i quali la probabilità di (ulteriori) processi irreversibili diventa molto alta.

Naturalmente, ci si può sempre appellare a un’accelerazione del processo di sostituzione. Cosa che Comito non manca di fare, ma giusto in due righe e usando un condizionale (“sarebbe necessario…”) che non suggerisce molta fiducia circa la credibilità della prospettiva. E poca fiducia, in effetti, mi sembra sia giustificata: data l’enormità del dato venuto in evidenza, che potremmo definire un ‘errore’ di due o tre ordini di grandezza, il claim di un processo più rapido appare per molti versi sottodimensionato. A maggior ragione per il fatto, richiamato anche da Comito, che la diffusione delle auto elettriche, già sotto le ipotesi correnti, comporta un’impennata del fabbisogno dei materiali critici già citati (più, crucialmente, il rame), dalla quale possono venire pesanti strozzature di quantità e di prezzo. La minaccia delle quali, inoltre, sarebbe tanto più grave se mai si volesse che le auto elettriche diventassero davvero ‘pulite’, ovvero se tutta l’energia necessaria a estrarre i materiali dei quali si compongono, a produrle, ad alimentarle e a riciclarne o smaltirne le parti alla fine della vita utile fosse fornita da fonti rinnovabili, che a loro volta, come è noto, comportano forti pressioni ‘estrattive’ (crucialmente, di nuovo, sul rame). In effetti, oggi siamo lontanissimi da questa condizione2, che per altro rinvia a una questione tutt’altro che ‘accidentale’. Non è per sfortunate ragioni contingenti se il problema delle compatibilità ambientali, cacciato dalla porta con l’abbandono dell’energia ottenuta dai fossili, rientra dalla finestra con la quantità di materiali richiesti dalle fonti rinnovabili: piuttosto, si manifesta qui l’esistenza di un nesso energia-materia iscritto nella costituzione fondamentale del mondo in cui viviamo, che si presta a considerazioni fin troppo impegnative su tutti i piani che rilevano, dalla fisica teorica a ogni applicazione tecnologica.

Ripensare radicalmente l’uso dell’automobile e la mobilità

Quindi? Quindi, a mio parere, la via maestra per contenere l’impatto ecologico dei nostri bisogni di mobilità è quella di disincentivare nella massima misura possibile l’uso del mezzo di trasporto che chiamiamo ‘auto’. Certo, detta così, la cosa non può che suonare alquanto approssimativa; e il termine ‘disincentivare’, soprattutto, esprime in modo molto debole il quadro delle strategie da adottare affinché il parco delle macchine in circolazione conosca un drastico downsizing e quelle già in funzione, intanto, siano usate il meno possibile. Inoltre, maestra non significa unica. Nella misura in cui abbia senso contemplare l’automobile come uno dei mezzi di trasporto utilizzabili, converrà certamente che i veicoli di nuova produzione siano full electric, e possibilmente full green – ma la misura in questione, ripeto, è molto più piccola di quanto l’era della motorizzazione privata di massa, figlia del petrolio a buon mercato, ci ha portato a immaginare.

In qualche punto, del resto, la prospettiva di una riduzione della quantità di macchine in circolazione si affaccia anche nel libro di Comito: in particolare con riferimento al futuro avvento dei veicoli a guida autonoma e, in tutt’altra chiave, al “disamoramento” nei confronti dell’automobile che comincia a essere manifestata dalle nuove generazioni. Circa la guida autonoma proverò a dire qualcosa a conclusione di questo commento; ma in generale la linea da seguire mi sembra proprio quella di dare quanto più fiato sia possibile a tutte le tendenze che, già oggi, mettono in questione il dominio dell’automobile (in quanto tale, presa nel suo concetto, in nulla modificato dai motori elettrici). E soprattutto due punti, al riguardo, mi preme affermare3.

Primo. L’exit dal dominio dell’automobile è una faccenda di civiltà, se si vuole di ‘cultura materiale’, all’altezza della quale l’innovazione tecnologica deve cedere il passo alle prerogative (diventare parte) dell’innovazione sociale, particolarmente in quanto riferita alla configurazione dei fatti insediativi, ai modi del nostro stare e muoverci negli spazi che abbiamo intorno a noi. Dunque, essenzialmente, una questione ‘urbanistica’4. Con il risultato, a pensarci bene, che lo stesso tema dell’innovazione sociale subisce in questo modo una sorta di intensificazione. Nella fattispecie, la preferenza che conviene accordare a tutte le forme di trasporto attivo e di trasporto pubblico non è soltanto una faccenda di ‘soluzioni’ e di ‘assetti’ più o meno funzionali, bensì, anche, di esperienze e di forme di vita delle quali (poter) essere partecipi, con tutto il portato valoriale (di significazione) che l’ultima locuzione s’incarica di trasmettere. Appunto in questo senso, all’inizio, dicevo che esistono punti oltre i quali il ‘discorso dell’industria’ non basta più a se stesso – oltre i quali le sue ragioni interne, il progresso tecnologico, le dinamiche competitive, le stesse politiche industriali, vanno prese in blocco e commisurate a criteri d’altro genere. Di civiltà, appunto.

Secondo. A ragionare in questo modo, è difficile sottrarsi alla sensazione di un doppio paradosso. Enormi risorse sono mobilitate al fine di rendere ecologicamente compatibile un mezzo di trasporto del quale, nel complesso, si può affermare che rappresenta una soluzione altamente inefficiente della maggior parte dei problemi di mobilità – per ragioni legate al grado di utilizzazione dei veicoli, al consumo di suolo e alle conseguenti esigenze di cementizzazione, al rapporto tra peso lordo e carico utile dei mezzi (che le auto elettriche tendono a peggiorare), alla produzione di danni ambientali diversi dalle emissioni di CO2 (la generazione di poveri sottili, che le auto elettriche probabilmente tendono a far crescere), all’incentivazione dei fenomeni di dispersione territoriale, alla produzione di danni alla salute diversi dalle malattie polmonari (crucialmente legate alle poveri sottili), ecc. Dopodiché scopriamo che anche il contributo strettamente ecologico è molto meno chiaro di quanto si vorrebbe: sia in termini di minori emissioni di CO2, sia per via dei problemi che necessariamente insorgono dal lato dell’estrazione e del consumo di materia. Così, di nuovo, quando si esce dalle necessità che parlano il linguaggio della competizione industriale, veramente non si vedono ragioni sufficienti per attribuire alle auto elettriche un ruolo di primo piano nel disegno di una mobilità davvero ‘sostenibile’ – il quale, giova ripetere, chiama in causa l’intera forma urbis, secondo linee che molti studi e ricerche hanno ormai tracciato in modi convincenti5.

Per quanto riguarda le auto a guida autonoma, il tenore della parte che le riguarda non è diverso da quello delle pagine dedicate a quelle elettriche: altrettanto istruttiva, e vivace, interessante, la ricostruzione dei fatti e delle prospettive. E a un certo punto, come anticipato, si incontrano le seguenti considerazioni.

L’auto autonoma può essere utilizzata sostanzialmente per il 100% del tempo, mentre quelle attuali lo sono di fatto normalmente per una percentuale molto piccola […]. Esse presumibilmente quindi saranno per la gran parte affittate e non più comprate, promettendo la fine progressiva, anche se forse non completa, dell’auto individuale. […] Conseguentemente, si dovrebbe verificare un drastico taglio nei livelli produttivi.

Per la verità, non trovo del tutto chiara la connessione tra le possibilità di utilizzo full time e l’affermazione di un prevalente regime di affitto. L’argomento, comunque, mi ha riportato alla mente una specie di esperimento mentale che Stefano Quintarelli propone nel suo Capitalismo immateriale. La citazione è lunga, ma anche, in qualche modo, divertente.

A New York, la sosta in un garage di Manhattan ha un costo medio di 20 dollari all’ora, mentre il prezzo della benzina è di 3,4 dollari al gallone. Con un’ora di sosta a Manhattan si possono quindi comprare 5,9 galloni di benzina. Un’auto media, recente, di quelle prevalentemente vendute negli USA, percorre 30 miglia con un gallone. Il costo di un’ora di parcheggio consente quindi di pagare il carburante necessario per percorrere 175 miglia. Dato che la velocità commerciale media a New York (incluso il poco traffico notturno) è 11 miglia all’ora, il risultato è che con un’ora di parcheggio si può pagare il carburante sufficiente a far girare un’auto per 16 ore.

Se una persona dovesse fare la spesa, cosa farebbe? Andrebbe in metropolitana? O andrebbe in auto parcheggiando in un costoso garage? Oppure farebbe fare alla sua auto autonoma il giro dell’isolato fino a quando ha finito di fare la spesa? E se dovesse andare in lavanderia? O portare i bambini a ripetizione di matematica o alla festa di classe?

Tra parcheggiare in un garage e lasciare che l’auto guidi autonomamente in giro per la città c’è un rapporto di convenienza superiore a 1:10. Se poi l’auto fosse ibrida, con un’ora di parcheggio si potrebbe pagare la benzina per 26 ore di guida autonoma. Inoltre si innescherebbe un effetto di feedback per cui più la città è congestionata minore è la velocità commerciale e maggiore il numero di ore che l’auto può guidare al costo del parcheggio. Se la prima scendesse a 8 miglia all’ora (poco meno di quella che già oggi si registra nei giorni di traffico), un’ora di parcheggio costerebbe come la benzina necessaria per 37 ore di guida.

È facile da questi dati immaginare lo scenario di una città paralizzata e inondata di auto6.

Qui, chiaramente, s’immagina un’auto a guida autonoma posseduta da una famiglia, sicché in effetti sarebbe importante capire perché il caso dovrebbe diventare tanto raro quanto dice Comito. Ma non è su un piano di realismo che il calcolo di Quintarelli merita attenzione, visto tra l’altro che dà per risolti tutti i problemi di fattibilità, costo, affidabilità, sicurezza, ecc., che la tecnologia in questione non manca di sollevare – cosa che si può fare soltanto per amore di discussione. Piuttosto, il suo motivo di interesse sta nel fatto che comunica efficacemente come il progresso tecnologico non abbia nelle proprie corde alcun principio di limitazione della pressione che le attività produttive e di consumo esercitano sui planetary boundaries. Casomai il contrario, come insegna da due secoli il Jewons Paradox. Continui guadagni di efficienza, cioè continue riduzioni delle risorse impiegate per unità di output, a maggior ragione in quanto foriere di innovazioni di prodotto, hanno portato a spettacolari aumenti delle risorse complessivamente impiegate dal sistema economico, con i risultati ecologici che abbiamo sotto gli occhi – secondo una dinamica che d’altra parte non imputeremo certo alla tecnologia in quanto tale, bensì al rapporto, apparentemente indissolubile, che la unisce agli obiettivi di valorizzazione del valore iscritti nel cuore del capitalismo, resi operanti dalla legge coercitiva esterna della concorrenza.

Proprio nelle pagine dedicate alle auto a guida autonoma, Comito sottolinea con particolare energia la profondità dei mutamenti destinati a intervenire nel settore dei servizi di trasporto “e nella stessa organizzazione delle città”, richiamando quindi il peso delle responsabilità che gravano sulle spalle della politica, “che tra l’altro dovrà decidere quanto spazio dare all’operatore pubblico e a quello privato”. Ecco, anche a me sembra che le cose stiano proprio in questi termini, ai quali, credo, dobbiamo sforzarci di conferire quanto più respiro ideale e pratico sia possibile, mettendo nel conto elevate dosi di radicalità7.

Il libro di Comito ha il merito, notevolissimo, di portare proprio sulla soglia dello spazio di riflessione che in questo modo si viene a delineare.

Note

1 Il volume può essere acquistato presso la casa editrice, senza spese di spedizione, citando il codice FUT16.

2 Per una brillante esposizione animata dell’argomento, significativamente intitolata How green is your electric vehicle? Cfr https://ig.ft.com/electric-car/.

3 Riprendo con poche variazioni, nei due capoversi che seguono, considerazioni già proposte in A. Montebugnoli, Auto elettriche? Sì, grazie, basta che siano poche, disponibile sul sito del CRS (https://centroriformastato.it/auto-elettriche-si-grazie-basta-che-siano-poche/).

4 In proposito vale la pena di ricordare che le aree urbane accolgono oggi più della metà della popolazione mondiale, che tale percentuale dovrebbe raggiungere i due terzi entro il 2050 e che a esse è imputabile il 70% delle emissioni globali di CO2.

5 Per una rassegna recente, cfr. F. Filippi, Itrasporti urbani e lo sviluppo delle città, in “I piedi sulla terra”, n. 3, giugno 2023 (https://centroriformastato.it/numero-1-2023/). Per quanto riguarda l’impostazione generale del problema, con riferimento al modello di ‘città del futuro’ che sembra possibile e desiderabile, cfr. N. Savarese, Spazio pubblico. Dai primi insediamenti umani alla città del futuro, Albatros, 2023, particolarmente pp. 147-171. Di Filippi vedi anche l’intervento in occasione della presentazione del libro appena citato organizzata dal CRS il 4 aprile 2023.

6 S. Quintarelli, Il capitalismo immateriale, Bollati Boringhieri, 2019, p. 141 e ss.. I prezzi citati dovrebbero essere quelli vigenti all’epoca di pubblicazione del libro. Il testo è un po’ modificato per renderlo più breve.

7 Richieste anche per trattare i problemi occupazionali evidentemente implicati dalla prospettiva discussa nel testo, ovvero per dar corpo, in modo non tradizionale, all’ipotesi di una cospicua riduzione del tempo di lavoro – che Comito, per parte sua, non manca di citare.

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