Capitalismo, Cultura, Digitale, Scienze, Interventi

Nell’anno domini 2022, mentre esce in Italia Matrix Resurrection, l’ultimo capitolo della saga iniziata ventidue anni fa presentando al pubblico globale la possibilità di un mondo governato dall’intelligenza artificiale dove gli uomini “vivono” in un universo virtuale creato ad hoc per occultare la loro reale condizione di larve sfigate dominate dai robot, il Metaverso è alle porte.

Ma siamo pronti a entrarci? O meglio: davvero vogliamo entrarci?

Il mercato ha già risposto. La pandemia deve essere valsa da prova generale e a dare il segnale di via è stato Mark Zuckerberg, attuale padrone di quasi tutte le piattaforme globali di comunicazione, che ha cambiato il nome della sua azienda in Meta segnando per tutti la strada. Microsoft pure non scherza e punta a farsi spazio negli universi paralleli a colpi di miliardi, non da ultimo con l’acquisto della compagnia di produzione di videogiochi – fondata da Bill Gates – Activision Blizzard (che di miliardi di dollari ne è costata 68,7, per essere esatti).

La corsa all’oro è dunque già partita e molti brand si stanno accaparrando spazi nelle piattaforme online che ospiteranno i nostri avatar e, se le monete utilizzate per gli acquisti di “terreni” sono virtuali, anzi criptiche, l’investimento è molto reale.

Eppure il Metaverso destinato a diventare la nostra nuova casa pone svariati problemi ai non nativi digitali. Intanto, oltre che meta, è anche pluriverso. Sì, perché le piattaforme disponibili sono varie e hanno nomi esotici: Roblox, Sandbox, Decentraland, Samsar, Virbela, tanto per citarne alcune, neanche ci fosse un big bang digitale al giorno. In pratica ci troviamo di fronte alla stessa tediosa questione che si pone ogni volta che “dobbiamo” andare in vacanza nel vecchio mondo globale dove tutte le destinazioni sono raggiungibili e ormai abbastanza equivalenti. E dove, non da ultimo, abbiamo paura di incontrare sempre le solite persone. Non a caso proliferano in rete altrettanti articoli che cercano di guidarci nei variegati metaversi con poco allettanti “tips di viaggio”, frasi come “sembra un videogioco ma è popolato di utenti”, oppure “ogni oggetto è un Nft”, altra parola magica di questi tempi su cui ora non ci soffermeremo.

Ma, per citare un’esperienza forse ancor più calzante, chiedersi in quale delle varie sfumature di meta entrare a dare un’occhiata è un po’ come sfogliare sul divano i cataloghi delle piattaforme di streaming a cui siamo abbonati senza trovare nulla che vogliamo davvero vedere.

Eppure è lì che dobbiamo andare, nel Metaverso, e tutti si sono messi a dircelo. Per primo il sopracitato Mark nel celebre video in cui, tra le altre cose, in versione avatar gioca a carte con tre folgorati e un robot color rosso aragosta in una squallida sala 3D dall’arredamento minimal che fa tanto primi anni duemila. Ma dopo di lui l’invito è arrivato a cascata da entusiasti tech, mamme blogger, esperti di marketing e dirigenti che vogliono cavalcare l’onda e convincere tutti i sottoposti di essere sul pezzo.

L’industria della moda, che effettivamente ha un talento nel convincerci a fare qualunque cosa, è in prima fila. Molti marchi, tra cui il pionieristico Gucci, hanno acquistato lì i loro store virtuali, stanno creando collezioni virtuali con annesse sfilate virtuali. L’unica consolazione nello spendere cifre insensate per donare ai nostri avatar un look di tendenza potrebbe essere che magari – si spera – una sciarpa o una borsetta virtuale non si possa rovinare, macchiare o perdere. Ma chissà che non esistano già i criptoscippi.

Perché la domanda è anche cosa dovremmo andare a fare nel Metaverso, a parte lo shopping o il “turismo”. Per ora si tratta soprattutto di giocare, per svago o preferibilmente per soldi in uno dei vari criptocasinò e, ovviamente, di lavorare nei fantastici uffici virtuali che ci stanno preparando le aziende. In tanti però mettono le mani avanti dicendo che il Metaverso avrà funzioni e sviluppi utilissimi in grado di far progredire l’umanità, e non è difficile crederlo.

Ma di cosa abbiamo davvero bisogno oggi che ci sono eserciti di rider pronti a portarci la spesa a casa? Oggi che le riunioni Zoom ci hanno cavato dall’impaccio della coabitazione con i colleghi negli open space? Cosa ancora dobbiamo semplificare, velocizzare, virtualizzare? Non potevamo fermarci a questo livello di dipendenza dal digitale?

Non potevamo accontentarci del voyeurismo passivizzante di Instagram? Quanto controllo sulle nostre vite vogliamo ancora cedere alle industrie tecnologiche, quanto ancora siamo disposti a pagare in termini di libertà di dare forma al nostro mondo?

La tecnologia ci ha abituato alle continue richieste di aggiornamento, ai martellanti upgrade, al malefico rinnovo delle password, alle espansioni dei fantomatici cloud, ai device che invecchiano nell’arco di pochi selfie in una rincorsa estenuante di ciò che è più nuovo e presumibilmente più fico, più efficiente, migliore. Ora ci sta semplicemente chiedendo di cambiare mondo.

Gli avatar, poi, accontenteranno definitivamente il diffuso desiderio di fluidità dandoci libertà assoluta di modellarci a piacimento e di cambiarci i connotati. E così almeno delle paure legate al corpo e all’essere in vita, nei confortevoli ambienti virtuali pensati – sì, può sembrare paradossale – per agevolare la socialità umana, potremo fare a meno. Al sesso virtuale, dopotutto, siamo abituati già da un po’ e la faccenda non sembra preoccupare troppo nessuno. Probabilmente nel meta ci libereremo anche della morte, dato che l’IA potrà ridurre ogni comportamento dei nostri “io” diventati avatar a una serie di algoritmi eternamente replicabili. Si risolve di colpo anche l’enigmatica domanda su che cosa resterà di noi. L’algoritmo, amen. Sempre che ci sia spazio sufficiente nei server.

Insomma, in un mondo malato che si surriscalda a ritmi vertiginosi, dove sta esplodendo la prossima guerra energetica, nulla appare più interessante e ragionevole che rinchiudersi in bolle virtuali tenute in vita da bollenti server succhia-energia.

Imponenti risorse economiche si muovono per costruire nuovi mondi virtuali che si profilano da subito come iperneoliberali e ipercapitalistici – forse per il capitalismo l’ultimo brandello di frontiera rimasto, a sua volta pieno di “buchi” e infiltrazioni, era proprio quello del corpo di cui è smanioso di liberarsi?

E il nostro mondo “naturale” e unico? È sempre più climaticamente instabile, preda di virus, iniquo, sovrappopolato da umani attaccati agli smartphone e tendenti all’abbrutimento; ma siamo davvero pronti ad archiviare la vita finora conosciuta dalla nostra specie?

In ogni caso, nessuno pare interessato a salvarla.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *