Democrazia, Politica, Temi, Interventi

Tra i tanti meriti della breve (finora) era Draghi, non ultimo è quello di aver riportato alla ribalta dei principali quotidiani nazionali generi letterari a tratti poco frequentati ma certo con una tradizione gloriosa e antica. All’inizio, l’apologia, già in realtà rispolverata nei primi giorni del governo Monti ma poi perfezionata con l’avvento dell’altro Super Mario – di cui il primo non era evidentemente che la prefigurazione tipologica. Ricordiamo tutti, credo, il profluvio di lodi sparse come petali di rose sul cammino del salvatore mentre ancora si preparava il suo ingresso trionfale a Palazzo Chigi. E le celebrazioni sarebbero durate per settimane.

Oggi, che quell’esperienza minaccia (e sottolineo l’ambiguità non casuale della scelta lessicale) di essere giunta ai titoli di coda, ecco che sui giornali si fa largo un’altra forma di scrittura anch’essa non nuova, ma solo raramente utilizzata con tanta intensità: l’appello a restare. Al coro si sono aggiunti via via individui più o meno famosi e figure più o meno istituzionali – i sindaci, gli imprenditori, la conferenza dei rettori, i professionisti sanitari, gli autotrasportatori, eccetera eccetera. Tutti hanno trovato ampia risonanza sui principali organi di informazione. Il punto che si vuol far passare è chiaro: l’intero Paese (o almeno la sua sanior pars, quella adulta e perbene) –chiede al Presidente di rimanere saldo al suo posto.

Ora, sarebbe interessante affidare a una linguista o a un critico letterario il compito di un’analisi formale delle strutture distintive e degli schemi ricorrenti di questi due corpora, l’apologia e l’appello. Il materiale non manca, e la base dati sarebbe, credo, più che sufficiente a tentare un’indagine anche quantitativa con una qualche fondatezza scientifica. Non avendone però le competenze, né essendo questo il luogo adatto a farlo, mi limiterò qui al close reading di un unico pezzo recente appartenente al secondo gruppo, scelto tra i tanti possibili perché la sua confezione marchiana e la sua prosa magniloquente (ai limiti del caricaturale) permettono di evidenziare dei tratti comuni che però, in altre occorrenze della stessa specie, ricorrono molto più in sordina.

Il testo che ci servirà da campione è la lettera del romanziere Antonio Scurati – premio Strega 2019 per M. Il figlio del secolo – pubblicata sul sito del Corriere della Sera lo scorso 17 luglio. Il messaggio è sempre lo stesso, ed è quello che definisce la sua appartenenza al genere: l’invito al premier a proseguire nella sua azione di governo. Ma è la forma che lo isola e lo mette in rilievo. Sin dalle prime righe, la lettera è impostata su un piano squisitamente personale, in un rapporto di uno a uno. Per quanto si premuri di ricordare che «moltissimi italiani» sono con lui, Scurati non pretende di parlare a nome di una categoria – gli scrittori, ad esempio – né si preoccupa di corroborare la sua invocazione con le firme di altri colleghi. E del resto, non è su virtù pubbliche e obblighi istituzionali che cerca di fare leva per convincere il suo interlocutore: nella lettera non si fa appello a nessun “senso dello Stato”, a nessuna “responsabilità per le sorti dell’Italia” o altri simili apparati retorici. Viceversa, è alle doti individuali di Mario Draghi, al suo carattere e alla sua persona, che Scurati guarda per scongiurare il pericolo.

Ma, ed ecco il guizzo del romanziere, le qualità che si chiede al Presidente di dispiegare sono tutt’affatto paradossali, perché si tratta qui di trovare dentro di sé la forza non per vincere le difficoltà e affermarsi nuovamente da trionfatore indiscusso ma per rinunciare al «suo amor proprio» e addirittura «al senso della sua dignità personale» e arrivare a «umiliarsi». Il paradosso tuttavia è solo apparente. Da abile narratore, Scurati sa inserire questa sua prima facie sgradevole richiesta all’interno di una costruzione coerente con tanto di lieto fine. Si parte spingendo sul pedale dell’apoteosi:

«Qualunque cosa si voglia pensare di lei, non si può negare che la sua sia la storia di un uomo di straordinario successo. Durante tutta la sua vita, lei ha bruciato le tappe di una carriera formidabile. Prima da Governatore della Banca d’Italia e poi da Presidente della Banca centrale europea, lei ha retto le sorti di una nazione e di un continente; le ha tenute in pugno con il piglio del dominatore, sorretto da una potente competenza, baciato dal successo, guadagnando una levatura internazionale, un prestigio globale, un posto di tutto rispetto nei libri di storia».

I toni sono tanto strabordanti da far venire il dubbio che si tratti in realtà di una sofisticata canzonatura, ma Scurati non è certo noto per la sua ironia; più consistente l’ipotesi che, dopo tanto tempo passato a studiare e a scrivere del figlio di un altro secolo, la fascinazione per chi anche in questo secolo continua a esibire il «piglio del dominatore» sia ormai diventata deformazione professionale.

A ben guardare però, lo schema cui Scurati attinge risale a molto prima del Novecento. Dopo aver elevato Draghi nell’empireo del «potere, quello vero», dopo averlo innalzato a Dio Padre che, «da vette inarrivabili, decide quasi da solo della vita dei molti», ora gli si chiede di incarnarsi, di piegarsi, di scendere al livello terreno della politica che, ricorda la lettera con Rino Formica, è «sangue e merda». Il modello, solo leggermente velato dai riferimenti contemporanei, è insomma quello della kènosis cristologica, del Dio che «spogliò se stesso» della sua «natura divina» per farsi uomo tra gli uomini, «assumendo la condizione di servo», e che «umiliò se stesso [la sottolineatura è mia] facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Filippesi 2, 5-8). Ma l’umiliazione non è fine a se stessa: in gioco c’è la salvezza dell’umanità, e insieme però anche il conseguimento di una nuova gloria personale. San Paolo: «Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra». Scurati: «Quel che tanti italiani le chiedono sarebbe, me ne rendo conto, davvero un grande sacrificio personale in nome dell’interesse generale. Il suo personaggio ne uscirebbe, forse, diminuito ma la sua persona conoscerebbe un nuovo genere di grandezza».

Intendiamoci: l’uso di archetipi narrativi di derivazione biblica non è certo originale, e non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt per ricordare il ruolo che la teologia ha giocato nella costruzione dell’armamentario concettuale della politica. Il punto però è che qui lo schema è impiegato non per la formulazione di categorie astratte, ma per la descrizione di personaggi e situazioni particolari in un passaggio particolare della vita democratica di un particolare paese. L’analogia ha così l’effetto di separare il piano celeste del «potere» da quello terrestre della «politica», affidando al primo il compito messianico di salvare la seconda, «figlia bastarda della storia». A Cristo-Draghi si chiede di sacrificare la sua «storia di straordinario successo», di sminuirsi «nello stillicidio quotidiano del governo di uomini che hanno a cuore soltanto l’imminente tornaconto elettorale», solo però per poi sollevare sé stesso e l’Italia oltre le beghe degli interessi di parte e, infine, liberarci dal fastidio della democrazia. Perché è questo che si respira, al fondo, nell’intervento di Scurati: una vigorosa haine de la démocratie, il desiderio di affidarsi a un uomo forte che – come la scelta dell’impianto teologico politico rivela – ricorda meno le figure dittatoriali novecentesche che quelle sovrane di Antico regime.

Ho scritto prima che la lettera del Corriere appartiene al genere dell’appello, ma la notazione era imprecisa. L’appello è una forma ancora potenzialmente democratica, soprattutto se promosso e firmato da molti e molte e non da uno solo. No, quella di Scurati è, tecnicamente, una supplica, il modello comunicativo tipico dei rapporti tra sudditi e sovrano in epoca pre-rivoluzionaria (e pre-democratica). Una preghiera personale, da singolo a singolo, ma che non per questo oblitera l’«inarrivabile» superiorità del supplicato sul «modesto» supplicante, e che anzi serve a confermarla. La citazione compiaciuta di una battuta di Talleyrand, uno dei principali artefici dell’Europa della Restaurazione, conferma implicitamente la nostalgia per e il desiderio di un mondo che chiuda una volta per tutte la faticosa parentesi democratica aperta dalla Rivoluzione e dalle rivoluzioni. L’esaurimento della spinta rivoluzionaria e della passione democratica è infatti, a monte, la precondizione perché Scurati possa scrivere quello che scrive rimanendo nel perimetro dell’accettabilità del discorso pubblico: in altri tempi probabilmente non sarebbe stato possibile. È di questo che chi ha invece a cuore la democrazia (e la politica) dovrebbe preoccuparsi, intervenendo prima che l’avvento di un Nuovo regime sia già cosa fatta.

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2 commenti a “D. Il figlio di un altro secolo”

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