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Fuori norma. Lo “stile” operaista

Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì”, scrisse Mario Tronti in una breve autobiografia filosofica del 2008 che conteneva tutte le chiavi necessarie, autoironia inclusa, per cogliere tutt’intero il suo percorso al di là dell’icona del “padre dell’operaismo italiano” cui il successo internazionale di “Operai e capitale” lo ha consacrato. Quell’icona, certo, gli apparteneva, eppure non mancava di irritarlo quando faceva velo al resto e al seguito della sua ricerca: il pensiero negativo e la cultura della crisi, l’autonomia del politico e il corpo a corpo con gli autori e le categorie del pensiero politico moderno, il confronto con il pensiero teologico e mistico, e, dopo l’’89-‘91, il pensiero della fine – fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna – che, in polemica con le letture democratico-progressiste del cambio di stagione, apre il fronte della critica trontiana della democrazia politica. In questa intervista – una delle molte – che facemmo per “il manifesto” (20/06/2006) in occasione della ripubblicazione di “Operai e capitale” quarant’anni dopo la sua prima uscita, Tronti ripensa l’esperienza operaista non come scuola ma come stile di pensiero, ne restituisce la dimensione collettiva e ne ricostruisce i nessi inscindibili con il proprio percorso filosofico e politico successivo.

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Operai e capitale”, che in questi giorni viene riproposto da Deriveapprodi quarant’anni dopo la sua uscita einaudiana nel ’66, è considerato il libro di culto dell’operaismo. In poche parole, proviamo a restituire il messaggio e la dirompenza di quel libro?

Veramente, il risultato fu molto al di sopra del tentativo. Si trattava di una posizione isolatissima, che sfondò il muro dell’attenzione. Il merito va tutto ai magici anni Sessanta. Il messaggio era quello cantato da Bob Dylan: i tempi stanno cambiando. Tradotto: bisogna rivoluzionare il passo della ricerca sociale e della pratica politica. Poi, il linguaggio, come ha detto qualcuno, è l’essere. Questo soprattutto rompeva con la tradizione. “Operai e capitale” è l’età del mio romanticismo politico. E i poeti romantici piacciono, sempre.

Il libro uscì, nel ’66, quando le due testate dell’operaismo, i “Quaderni Rossi” di Panzieri e “Classe Operaia”, avevano già chiuso. In che rapporto sta quel tuo testo con la vicenda collettiva dell’operaismo?

Non ci sarebbe stato il libro senza l’esperienza operaista, depositata nella rivista e nel giornale. Nel libro precipitano saggi e articoli che venivano da lì e che salgono poi a riflessione teorica. È la solita nottola di Minerva, che spicca il volo al crepuscolo del giorno.

Nei confronti dell’operaismo italiano, nelle sue varie espressioni, c’è oggi in Italia e all’estero, e in condizioni sociali e politiche del tutto diverse, una forte ripresa d’interesse. Guardando indietro, cos’è stato per te l’operaismo?

Tre cose: un romanzo di formazione intellettuale, un episodio della storia del movimento operaio, una rivoluzione culturale contro la tradizione marxista ortodossa, italiana e non solo. Ma prima di tutto, l’esperienza di pensiero e di pratica di un gruppo di persone di straordinaria qualità umana e politica, che si muovevano in divergente accordo, cementate da un legame di amicizia indissolubile – quali che siano le strade che ciascuno di noi ha intrapreso in seguito. In una parola, direi che quell’esperienza ci ha lasciato uno «stile» inconfondibile: dal modo di scrivere, battente come il ritmo della fabbrica, al modo di pensare, fuori dalla norma, in una sorta di «stato d’eccezione intellettuale permanente». A contatto con la fabbrica e con il modello delle lotte operaie nacque un nuovo tipo di intellettuale, organico non al partito ma alla classe, e un nuovo modo di fare teoria, non di libro in libro ma nel corpo a corpo con la storia, per sovvertire l’ordine delle cose. Una pratica di pensiero politico perturbante, irriducibile a scuole e tradizioni, che tuttavia in seguito ha fecondato anche l’innovazione disciplinare, in filosofia, in sociologia, nella storiografia.

Quali erano i punti di polemica più duri con la tradizione comunista italiana?

Lo storicismo della linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci, cemento del gruppo dirigente togliattiano del Pci nel dopoguerra e negli anni Cinquanta. Il nazional-popolare, che Alberto Asor Rosa smontò nel ’64 – aveva trent’anni – in “Scrittori e popolo”. L’analisi del neocapitalismo e del nesso fabbrica-società-politica: mentre l’operaio massa, il taylorismo, il fordismo irrompevano sulla scena, il Pci restava fermo alla diagnosi dell’arretratezza del capitalismo italiano. E ancora, la retorica lavorista, che mandammo all’aria con lo slogan del «rifiuto del lavoro», e la visione salvifica della classe operaia, che nel lessico del Pci doveva sempre farsi “classe generale”, agire nell’interesse di tutti, emancipare sé stessa per emancipare l’umanità, salvare il paese, la pace, il Terzo Mondo…

Invece “la rude razza pagana”, secondo la tua celebre definizione, doveva salvare solo sé stessa… Cos’era, la rude razza pagana? E non avete rischiato anche voi di farne un mito salvifico, di riproporre una filosofia della storia con il Soggetto operaio al posto dello Spirito hegeliano?

La rude razza pagana era quella che davanti ai cancelli delle fabbriche ci prendeva di mano i volantini e ridendo diceva: Che sono, soldi? Salario contro profitto, ecco cos’era la classe. Non l’interesse generale, ma un interesse di parte, che smascherava l’universalismo borghese e metteva in crisi il rapporto generale di capitale. “Il salario come variabile indipendente” non era uno slogan economico, era uno slogan politico, come avrebbe dimostrato il ’69. Ma ben prima dell’autunno caldo, fin dalle lotte del ’62 a Torino si era dispiegata l’inventiva operaia di pratiche antagoniste nella guerra di posizione quotidiana contro il padrone: le lotte a gatto selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla linea di montaggio, l’uso insubordinato dei tempi di produzione taylorismi. Imparavamo da lì: al capitale che voleva estendere il modello della fabbrica alla società, noi rispondevamo estendendo il modello dell’insubordinazione operaia alla politica.

Stai parlando dei primi anni Sessanta, che da tutta la memorialistica comunista, anche di posizioni diverse dalla tua – penso ai recenti libri di Ingrao e di Rossanda – risultano quelli cruciali della storia repubblicana. Quegli anni però sono racchiusi fra due date: alle spalle c’è il ’56, davanti il ’68. Come collochi l’esperienza operaista fra quelle due date?

Il ’56 fu una data strategica: la statua di Stalin rotolò sulle nostre teste, e nelle nostre teste nulla fu più come prima. Le magnifiche sorti e progressive erano finite, il comunismo non ci attendeva più dal futuro, domandava autocritica del presente. Ma mentre i più, di fronte ai fatti di Budapest, riscoprivano il valore delle libertà borghesi, per noi si schiudeva casomai l’orizzonte della libertà comunista. Trovo intellettualmente e politicamente inutili molte autocritiche a posteriori di oggi: il nodo, duro, da sciogliere era come ricostruire le condizioni della rivoluzione nell’occidente neocapitalistico, spostando in avanti il terreno sia del conflitto operaio, sia dell’organizzazione politica, senza separarli l’uno dall’altra. Personalmente – ma qui parlo per me, perché questo era il punto del contenzioso interno all’operaismo – non ho mai pensato che potessimo organizzare noi gli operai per scagliarli, duri e puri, contro il capitale. In mezzo c’era un passaggio politico che non si poteva saltare – anche se essere operaisti ha sempre significato, allora e dopo, saltarlo.

Qual era questo passaggio?

La formazione, dentro l’esperienza di classe, di un gruppo dirigente alternativo a quello togliattiano, che sapesse giocare dentro il “disordine” che stava per venire, e che sarebbe esploso nel ’68-’69. La crisi del Pci post-togliattiano, che sarebbe esplosa nell’XI congresso del ’66, avrebbe forse potuto incoraggiare “la lunga marcia dentro l’organizzazione” che mi pareva necessaria: il Principe restava la classe, il primato restava alle lotte, ma per tentare di dare loro un esito vincente era necessario lo strumento del partito. Ma questa ipotesi del “dentro e contro” non passò, prevalse quella del “o dentro o fuori”, cioè fuori: una logica per il movimento, un’altra per il partito. Con gli esiti perdenti degli anni Settanta, e oltre.

Ma in mezzo c’è stato il Sessantotto, che cambia non poche cose, rispetto al rapporto con il partito e con l’organizzazione… In che rapporto sta l’operaismo con il Sessantotto?

Ti rispondo per me, in un modo che molti dei compagni di allora contesterebbero vibratamente, e tu con loro. L’operaismo è stato una premessa del ’68, e al tempo stesso una sua critica anticipata. In Italia il ’68 ha ricevuto dal ’69 operaio una caratterizzazione diversa e più duratura che altrove, anticapitalistica e non solo antiautoritaria. Operai e capitale si trovarono materialmente uno di fronte all’altro: a quel punto bisognava spostare potere, non solo contestare autorità. È una regolarità storica: se nel terremoto provocato dalle lotte non si apre un processo rivoluzionario guidato e organizzato, che sposta il rapporto di forze, lo sviluppo capitalistico finisce con l’utilizzare le lotte operaie ai propri fini, e l’intero apparato di dominio si ristabilizza democratizzandosi. Esattamente quello che è avvenuto dopo il ’68. Alle lotte per la liberazione del secondo Novecento è mancata la forza del movimento operaio organizzato che agì in quelle per l’emancipazione del primo. Grandissima parte della soggettività antagonista degli anni Sessanta si era formata fuori ed era cresciuta contro i partiti e i sindacati, e operava per accelerarne la crisi. Finché nel ’77 se ne separa definitivamente.

Perché quella forma di organizzazione non si adattava più a quella spinta di libertà… Ma torniamo a guardare le cose con gli occhi di allora. Insomma, il punto di contenzioso nell’operaismo era l’organizzazione, il partito, il ruolo del politico. Prendiamo due formule emblematiche, l’editoriale “Classe operaia senza alleati” di Toni Negri su “Classe Operaia” del ’64 e il tuo saggio “Sull’autonomia del politico” (Feltrinelli) del ’77.

Toni Negri ha contato molto nell’esperienza di “Classe operaia”. L’analisi e poi la critica dell’operaio fordista-taylorista, maturata nel laboratorio strategico di Porto Marghera, è alla base di tutto il suo percorso di ricerca successivo. E nella teoria del passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale, a metà anni Settanta, c’è tutta la sua intelligenza. Ma “operai senza alleati” era un errore. Il sistema di alleanze predicato dal Pci – lavoratori dipendenti-ceti medi-Emilia rossa – andava smontato e contestato, ma bisognava costruirne un altro, con le figure professionali nuove che emergevano nel capitalismo sviluppato, con la produzione e il consumo di massa, le trasformazioni civili e il salto culturale in atto nel paese; e ridislocare più avanti tutto il terreno della politica, dal conflitto alla rappresentanza. L’operaismo dei primi anni Sessanta intuì un pezzo essenziale di questa realtà. A rivederla oggi, “Classe Operaia” risulta più vicina a “Quaderni Rossi” e più lontana da Potere operaio e da tutto quello che ne derivò fino a Autonomia operaia: le prime due esperienze si sentivano criticamente dentro il movimento operaio, le seconde gli si mettevano contro. Se quel «salto» nel politico non ci fu, tuttavia, non fu tanto o solo per i limiti di quel nostro esperimento, ma per i limiti dell’epoca: con gli anni Sessanta il tempo della grande politica non si apre, si chiude.

È una tua tesi nota, daLa politica al tramonto” in poi. Ma se quel tempo è chiuso e l’operaismo va inscritto in quel tempo, dell’operaismo cosa resta?

Parlo, non a caso, di «stile» operaista: un modo nuovo di essere intellettuali, con un pensiero legato alla pratica. C’è un padre e una madre: il primo è la grande storia del movimento operaio, la seconda è la grande cultura della crisi novecentesca. Una splendida contraddizione, vissuta. L’ho detta così: dare voce alta a quelli che stanno in basso. Un percorso inquieto: ma sfido chiunque a trovare una sola ombra di cedimento.

Perché l’operaismo incontrò la cultura della crisi, facendone il suo orizzonte culturale?

Perché il soggetto operaio, pur così centrale, a noi appariva come un soggetto sociale che risultava dalla crisi della sua forma politica tradizionale. E questo si inscriveva dentro una più generale grande crisi delle forme, che dopo la rottura delle avanguardie d’inizio Novecento non si era mai più ricomposta. È del ’69, su “Contropiano”, il saggio di Cacciari “Sulla genesi del pensiero negativo”, un orizzonte che non avremmo più abbandonato. E che apre a un passaggio successivo, dalla critica distruttiva dell’ideologia alla ricostituzione di categorie politiche come concetti teologici secolarizzati. Bisogna metterci la testa per capire come dalla rude razza pagana si arrivi alla teologia politica, ma il nesso c’è ed è forte. E per quanto riguarda me, c’è un filo di continuità fra “Operai e capitale” e “Politica e destino”, l’ultimo mio lavoro che esce in questi stessi giorni presso Sossella.

Lenin in Inghilterra” e “Marx a Detroit”, due titoli rimasti celebri di “Operai e capitale”. Dove li mandiamo adesso Lenin e Marx? Nelle fabbriche di Shangai, fra i co-co-pro italiani, fra gli stranieri-cittadini delle banlieue francesi, nei supermarket della Walmart in Arkansas? Il poscritto del ’70 alla seconda edizione di “Operai e capitale” era tutto un invito a imparare dalle lotte operaie americane degli anni Trenta, mentre oggi è come se tu avessi girato la telecamera tutta e solo sull’Europa, come Woody Allen…

È il mondo che sta girando davanti alle telecamere. I tempi stanno cambiando, oggi, più per ragioni oggettive che per volontà soggettive. Tanto queste sono generose e deboli quanto quelle sono arroganti e potenti. Vado dicendo che sta prendendo centralità la geopolitica. Lo spazio politico non è più quello delle piccole nazioni, ma quello dei grandi continenti. La verità è che gli Stati Uniti hanno paura di questo mondo che cambia. Noi europei siamo abituati alla decadenza, gli americani no. Non riescono a rassegnarsi: questo spiega la loro nevrosi internazionale. Sì, Marx lo manderei in Cina e in India. Lenin invece lo vedrei bene alle prese con i problemi di organizzazione politica del lavoratore precario: non è che sia questa la figura dell’operaio postfordista? E come si porta in un call-center la coscienza politica dall’esterno? E in una banlieue l’idea che bisogna fare sindacato e fare partito? E in un Cpt la pratica non dell’integrazione ma dell’insubordinazione? È dura. Marx ce la può fare a farci capire ancora. Lenin, a farci ancora agire, è un po’ più in difficoltà. Ma c’è sempre la misteriosa curva della sua retta…

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