Tante persone, tanti compagni il 27 e 28 novembre scorso a Rimini per i dieci anni dalla morte di Lucio Magri. Età media alta, stragrande maggioranza di maschi, atmosfera dolce e imbarazzata. Dopo tanti anni siamo tutti (o quasi tutti) fisicamente cambiati, invecchiati, quasi timidi, con l’imbarazzo di non riconoscere chi dovresti riconoscere. Eravamo un centinaio di irriducibili e stavamo lì a stupirci di quanti erano venuti a convegno, per parlare di Lucio Magri, sì, ma per qualcosa come una vaga sensazione che oscillava tra l’eravamo e il ci siamo. Il ricordo è nostalgico, la memoria è malinconica. Mi è sembrato che prevalesse il sapore malinconico della memoria associato a una voglia diffusa di richiamarsi al passato ma in rapporto al presente e alla necessità di mantenere la critica dell’esistente. Sono fra coloro che si fermarono nel 1984, quando il Pdup decise di confluire nel Pci. Pensavo che una storia fosse finita come pure un’idea di politica. Lo scrissi su il manifesto. La confluenza nel PCI si accompagnò al non troppo lento declino di questo partito che, non moltissimo tempo dopo la caduta del Muro di Berlino, si sciolse per diventare qualcos’altro e poi qualcos’altro ancora.

Ma una storia si era consumata e così l’illusione che si potesse affermare una rivoluzione democratica attraverso un partito di massa come il Pci. Enrico Berlinguer morì troppo presto, ma era già isolato. Lucio Magri si rese conto che una storia era finita e che il sogno di un grande cambiamento politico e sociale era condannato a restare solo un sogno. Tutto il resto divenne nicchia e marginalità politica di una sinistra alternativa che di alternativo non aveva quasi più niente. Sopravvivenza, mentre il mondo cambiava e il capitalismo, invece di crollare, si radicalizzava.

Chi eravamo quei cento compagni riuniti a Rimini? Reduci? Di sicuro ancora capaci di offrire analisi critiche interessanti e importanti ma incapaci, tutti noi, di guardare lontano, oltre l’orizzonte, perché è questo che oggi ci è precluso, ma solo perché abbiamo introiettato la preclusione, il sogno di un mondo diverso, la ricerca di una poesia della vita che nasce, come avrebbero detto Frederich W. Hegel e Maurice Merleau-Ponty, dalla prosa del mondo.

Continuiamo a dividerci e la cosa, oggi che una sinistra ancora (quasi) irriducibile al neoliberismo è ridotta a una serie di piccole nicchie marginali, sfiora il ridicolo ed evidenzia una buona dose di presunzione e di narcisismo, o forse, una scarsa convinzione.

Ero stato fra quelli che avevano fondato a Pisa il Manifesto. Personalmente ero attratto dal discorso sui consigli come forma antagonista di democrazia, una ripresa dell’analisi del giovane Gramsci adattata ai grandi movimenti studenteschi, operai e sindacali del ’68-’69. Lucio Magri – e con lui Luciana Castellina, tuttavia, forse più di Rossana Rossanda e Luigi Pintor – era convinto che una rivoluzione politica e sociale in chiave democratica poteva prodursi soltanto se vi fosse stato un partito di massa in grado di portarla avanti. Senza organizzazione politica ogni discorso sui consigli, sull’allargamento della democrazia, sulle forme democratiche e partecipate dell’antagonismo, non avrebbe retto. Ma la domanda oggi è: il Pci era veramente questa possibilità? Quando Berlinguer, prima della sua morte improvvisa, si schierò dalla parte degli operai mentre il movimento sindacale stava subendo una sconfitta e i famosi quarantamila manifestavano per le vie di Torino, non era forse già troppo tardi? Questo, a mio parere, era il nocciolo dei diversi punti di vista di Magri, Castellina, Milani, Rossanda, Pintor Ma non si tratta solo di fare o rifare una riflessione storica. Il problema che resta aperto è il rapporto tra una visione critica del mondo e il campo storico delle possibilità del suo affermarsi. Che cosa è accaduto dopo la caduta del Muro di Berlino? Cosa è rimasto della visione del mondo anche di chi fu critico del cosiddetto realismo socialista? E dove si è spostato storicamente il campo delle possibilità?

Come aveva osservato Karl Marx ne Il capitale la base tecnica del capitalismo è rivoluzionaria e dunque sa cambiare e cambiarsi per mantenere e conservare sé stesso. Questi cambiamenti hanno storicamente prodotto un’ecatombe della classe operaia e dei lavoratori, gettati sul lastrico della disoccupazione. Quello che viene chiamato più o meno appropriatamente neoliberismo è la versione ideologica di un gigantesco processo di cambiamento che ha portato fino alle estreme conseguenze l’idea secondo cui la società è un semplice … per i fini privati degli individui. Niente di nuovo salvo che questa idea e la sua pratica si sono affermate e diffuse in modo esponenziale rispetto ai tempi di Marx, fino a diventare quel che è effettivamente un’ideologia, ovverossia una visione del mondo che si presenta come universale perché naturale, ovvia, scontata, unica.

La sinistra è finita perché in fondo accetta tutto questo e desidera vivere in quella che si può definire una democrazia senza democrazia. La condizione attuale della democrazia è oggi fondamentalmente caratterizzata da tre fattori: a) l’apatia politica b) l’ignoranza pubblica, c) il basso livello di partecipazione.

Questi tre fattori, che segnano un degrado delle forme di convivenza sociale e civile, erano stati previsti e auspicati già negli anni ’50 da quei sociologi che puntavano a una teoria élitista della democrazia, basata fondamentalmente su meccanismi referendari di legittimazione popolare dei leader e dei partiti politici che si sarebbero alternati al governo e al potere secondo un sistema di circolazione delle élites. Questo tipo di democrazia si opponeva alle idee di partecipazione politica e del rapporto tra politica, cultura e popolo che, per esempio, Antonio Gramsci ma anche tutti coloro che, usciti dal fascismo, contribuirono a scrivere la nostra Costituzione.

Oggi l’apatia politica, l’ignoranza pubblica e il basso livello di partecipazione sono diventati segni e sintomi caratteristici delle democrazie occidentali dominate da un sistema economico capitalistico che ha aumentato il divario tra ricchezza e povertà e alzato il livello delle diseguaglianze sociali. L’individualismo tende a dissolvere la sensibilità verso ciò che è comune, spostando il senso di appartenenza all’interno di gruppi sempre più corporativi e concorrenziali fra loro, la cui identità collettiva si forma regressivamente sulla base dell’ostilità nei confronti dell’altro. Dal bullismo al razzismo, la caratteristica è un senso collettivo più vicino all’idea di un branco che a quella di una comunità capace di convivere con altre comunità.

Inoltre pensare che i social abbiano aumentato il tasso di partecipazione politica è un vero e proprio autoinganno. Semmai hanno accorciato il tempo della riflessione collettiva fin quasi ad annullarlo e ridotto la comunicazione politica a battuta e a invettiva. Ma il problema non è dei social bensì del sistema politico attuale. Il problema riguarda in specifico il ruolo dei social nella politica o, più precisamente, la loro funzione sostitutiva rispetto alla partecipazione politica territoriale. Questa sostituzione non è il segno del destino o l’inesorabile procedere del tempo, è risultato di una democrazia voluta senza democrazia del capitalismo cosiddetto digitale che ha ottenuto il controllo e il dominio sui cittadini, assai prima della questione del Green Pass. Anzi mi domando se questa enfatizzazione della lotta contro il Green Pass in nome della libertà, non sia un vero e proprio diversivo puntato a farci dimenticare la contraddizione principale che è data dalle diseguaglianze sociali ed economiche e dallo sfruttamento dilagante ovunque.

Inoltre, il ricorso continuo al diritto e alla legge, anche su questioni che potrebbero essere risolte con la fiducia e il buon senso, mostrano come ormai si sia perso ogni riferimento rispetto alle relazioni comunitarie, istituzionali e civili mentre si diffonde un senso di frantumazione del ruolo sociale delle istituzioni pubbliche e del loro fine. La scuola e l’università, istituzioni per eccellenza legate alla formazione e al sapere, risentono fortemente di questa crisi, ma in generale ogni forma di amministrazione pubblica nei suoi rapporti con i cittadini.

Una democrazia partecipata si misura sulla crescita collettiva del sapere e del suo apprendimento, sullo sviluppo dell’autonomia individuale e del senso critico, sulla sensibilità sociale e ambientale, sul rispetto della cosa pubblica, sulla cultura del bene comune, sul primato della cooperazione rispetto alla competizione ma soprattutto sull’idea che ciascuno può veramente affermare la propria diversità, la propria alterità, la propria autonomia, la propria dignità, soltanto se la società offre a tutti indistintamente una reale condizione di eguaglianza civile e sociale. E’ a queste condizioni che un essere umano può riconoscere se stesso ed essere riconosciuto dagli altri come cittadino.

Ma, al di là di tutto questo, sul versante della riflessione filosofica, forse è venuto il tempo di dire che l’epoca di Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jacques Derrida è finita e, come la sinistra, è finita con la caduta del Muro di Berlino, con il trionfo del neoliberismo, con l’arrivo del Covid-19. Oggi la giusta critica dello Stato autoritario, che acquistava una particolare urgenza al tempo dei socialismi reali, non si distingue più dall’idea liberale e liberista dello Stato minimo. Nel caso dell’utopia liberale, lo Stato minimo favorisce, in nome della libertà, la logica del profitto, della privatizzazione selvaggia, delle diseguaglianze sociali ed economiche, nel caso dell’utopia comunista il sogno della semplificazione burocratica di uno Stato minimo si è tradotto nell’incubo di un’ipertrofia statale autoritaria e violenta.

1) Lo Stato minimo è proprio l’unica soluzione possibile di libertà? E se si riprendesse in considerazione, alla luce del terzo millennio, l’idea di uno Stato sociale e di istituzioni pubbliche strutturate in modo non aziendalistico proprio per i fini che hanno, come la sanità, la scuola, la ricerca, l’università?

2) E’ necessario e urgente chiudere con il discorso sulla fine delle grandi narrazioni e della fine delle ideologie. Il risultato di queste fini è stato un totale oblìo del rapporto tra passato e futuro e la totale soggiacenza all’ideologia della fine delle ideologie.

3) Da metafore come il rizoma che esaltava il liberarsi del molteplice bisogna passare a metafore che si richiamino all’uno, ripristinando quella dialettica che fu della filosofia presocratica e poi Platone.

4) Oggi la storia politica e sociale non può più essere separata dalla storia naturale sulla quale inestricabilmente si innesta. Ciò richiede nuove grandi narrazioni e nuove grandi visioni globali legate al futuro in un mondo dove l’intreccio fra naturale e artificiale e fra umano e ambientale rischia di diventare una catastrofe là dove potrebbe diventare una risorsa fondamentale. E’ evidente che nel capitalismo i disastri ambientali sono connessi alle diseguaglianze sociali.

5) E’ importante affermare, nel lavoro come nella vita, il primato della cooperazione sulla competition.

6) Una democrazia senza democrazia con partiti leggeri e arcaicamente organizzati secondo l’accettazione plebiscitaria di un leader, partiti che si nutrono di consensi immediati non possono avere progetti di lungo periodo.

7) In un mondo dove tutto è emozione e dunque tutto si rinnova ripetendosi uguale a sé stesso, dobbiamo, come ha rilevato nel suo intervento Leonardo Casalino, ritornare alle passioni che sono fatte di emozioni, ma sono anche qualcosa di più, sono desiderio e progetto che si allungano nel tempo, sono il segreto del sapere scientifico e artistico, sono il seme della conoscenza.

8) Alla prosa del mondo (Hegel, Merleu-Ponty) si deve accompagnare la poesia della vita. Si può lottare per meno? Poesia significa fare e mi piace legarla al senso del fingere cioè del plasmare, dare forma e figura, creare nel senso umano, non dunque dal nulla, ma da qualcosa, da ciò che si trova nella prosa del mondo, che come tale non ci basta, così come non può bastarci un presente che non abbia futuro e si dimentichi del passato.

Nella poesia Il sarto di Ulm Bertold Brecht, dopo la caduta del sarto dalla finestra, fa dire al vescovo che mai l’uomo volerà. Invece poi riuscì a volare. Ma se proprio oggi non abbiamo i mezzi per riuscire a volare, non diamo retta al vescovo, accontentiamoci magari, come disse Woody a Buzz Lightyear, di atterrare con stile.

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Un commento a “Democrazia senza democrazia. In memoria di Lucio Magri”

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