L’icona totale
Un estratto da Ida Dominijanni, “2001. Un archivio. L’11 settembre, la war on terror, la caccia ai virus”, manifestolibri, 2021, in ebook e dall’11 settembre in libreria.

L’impatto estetico dell’icona della seconda torre penetrata dall’aereo kamikaze – «la sublime opera d’arte che inaugura il terzo millennio», come la definì Karlheinz Stockhausen per poi scusarsene – fu tutt’uno con l’effetto cognitivo, e la portata mediatica dell’evento fu tutt’uno con la sua portata politica. L’11 settembre non fu solo trasmesso dalla tv in tutto il mondo, come già era accaduto con altri eventi minori di fine secolo; avvenne – tutto: lo schianto del secondo aereo, l’esplosione e il collasso delle torri, il volo disperato dei corpi nudi che dai piani alti del World Trade Center si lanciavano sul selciato in cerca di salvezza – in diretta tv, davanti agli occhi di un pubblico mondiale che guardava l’apocalisse dal tinello di casa. Da quel momento in poi, le immagini e l’immaginario si installarono nella cabina di regia dell’evento, decidendone la percezione e il significato. C’è immagine e immagine, ovviamente: il cinema, in seguito, fu capace di altre inquadrature e di altre curvature del senso; fece vedere l’impatto differenziato dell’attentato in luoghi e contesti differenziati, come in 11´09´´01 – September 11; seppe collocare la telecamera obliquamente su Ground Zero mostrando che in quella voragine erano finiti l’innocenza e il sogno americano, come ne La venticinquesima ora di Spike Lee. La fotografia decise, a sua volta e a suo modo, le inquadrature e la percezione delle torture di Abu Ghraib, così come i video on line sollecitarono il voyeurismo dell’orrore con le decapitazioni in differita degli ostaggi occidentali sequestrati dai gruppi fondamentalisti islamici nella guerra irachena. Ma in principio fu la televisione – e più precisamente, come subito notò Jacques Derrida, la reiterabilità e la reiterazione dell’immagine televisiva – a decidere l’impressione dell’attacco dell’11 settembre sui sensi dell’audience mondiale. Ripetuta all’infinito insieme con il deittico «11 settembre» – «un nome, una cifra», senza ulteriori specificazioni1 – l’icona mediatica dell’esplosione delle Torri gemelle costruì l’evento dandogli il crisma dell’unicità, dell’imprevedibilità e dell’ineffabilità: «come un’intuizione senza concetto, quasi fosse al di là al di là della portata di un linguaggio che confessa così la propria impotenza», accontentandosi di ripetere uno scongiuro che neutralizzasse il trauma senza comprenderlo e ne minacciasse il ritorno senza elaborarlo. E tuttavia proprio questa implicita confessione d’impotenza suggeriva – ancora Derrida – «di cercare di comprendere ciò che succede al di là del linguaggio», in due direzioni: nella reazione inconscia che non trovava traduzione in parola; e al di là del linguaggio accreditato, cioè di quei paradigmi consolidati del pensiero politico che l’attacco terrorista fece vacillare, e che in un certo senso ne erano il vero e centrato obiettivo.

Lo si può dire anche in un altro modo. Diversamente da quanto si affrettò a sostenere chi, da destra e da sinistra, non vedeva l’ora di farla finita con un postmodernismo reo di aver sostituito mondi di fantasia all’evidenza dei fatti, l’attacco dell’11 settembre non fu l’irruzione della realtà nella bolla patinata dell’immaginario cinematografico di Hollywood o di quello neo-tecnologico della Silicon Valley: fu viceversa la realizzazione letterale dell’immaginario della catastrofe che è l’antico risvolto incubotico del mito della frontiera americano, nonché una precondizione del funzionamento spettrale del capitalismo contemporaneo. L’immaginario e i suoi fantasmi si materializzarono, per usare il lessico lacaniano, in un Reale privo di traduzione simbolica. Nella sua immediatezza, la prima reazione emotiva che circolò nei titoli dei giornali e nelle conversazioni quotidiane di mezzo mondo, «non ci sono parole», esprimeva certamente l’esterrefazione per il fatto – lo sfregio subìto in casa propria, per la prima volta dopo Pearl Harbor, dalla più grande e per definizione inviolabile potenza del pianeta – e per il modo – la logica suicidaria dell’attentato, una sfida ultimativa al principio basilare della deterrenza per cui l’attacco alla vita altrui non può mai spingersi oltre il limite della conservazione della propria. Ma quel mancamento delle parole segnalava al tempo stesso che lo sfondamento delle Torri era anche uno sfondamento delle nostre categorie interpretative della realtà; e che il senso più profondo e più sorgivo dell’accaduto non stava in quello che ne sapevamo – le spiegazioni geopolitiche del terrorismo internazionale, ad esempio – ma precisamente in quello che non ne sapevamo, a conferma che «l’evento è ciò che accade e che, accadendo, giunge a sorprendere e a sospendere la comprensione». In questo senso si può continuare e si continuerà a discutere se l’11 settembre sia stato o meno un evento storico, cioè se abbia effettivamente modificato il corso precedente delle cose, secondo il refrain allora martellante «da oggi più niente sarà come prima»; ma è indubitabile che sia stato un evento filosofico, un trauma del pensiero che domandava un salto di paradigma di fronte all’impensato.

L’epifania del globale

Infantile è del resto, letteralmente, la condizione di chi non ha parole, e riviverla da adulti può portare a due esiti opposti: ad un salto creativo, lo stesso che si fa da bambini per imparare a parlare, o al precipizio nella regressione. L’11 settembre li provocò entrambi, la regressione e il salto. La divaricazione si vide subito, nell’analitica dell’attentato e nel vissuto della ferita, e subito disegnò il campo del conflitto teorico-politico.

Doppie e gemelle, speculari e falliche, nell’attimo del crollo le Torri di Manhattan ci mandavano a dire che il mondo bipolare e gemello, speculare e fallico, geometricamente spartito nei suoi spazi politici, militarmente e ideologicamente ordinato dalla logica amico-nemico, era definitivamente crollato con loro: all’alba del XXI secolo non era più pensabile con le coordinate del XX, né tantomeno con la favola bella di una globalizzazione senza attriti e di una democrazia senza rivali che era stata raccontata in coro da tutto l’Occidente dopo un altro crollo, quello del Muro di Berlino. Nei dodici anni intercorsi fra la fine della Guerra fredda e l’attacco di Al Qaeda la globalizzazione aveva scavato più della vecchia talpa, non solo sul piano economico ma sul piano politico, sociale e antropologico, comprimendo lo spazio e il tempo, forando i confini, erodendo la sovranità nazionale, ibridando le culture, stracciando i certificati d’identità, cambiando i soggetti e le forme dello scontro geopolitico e ideologico e stabilendo fra i nuovi contendenti ostilità irriducibili e somiglianze inconfessabili. Bastava leggere attentamente l’icona per capirlo.

Corpo-cyborg, uomo-macchina, uccello-Ufo, l’aereo-kamikaze venuto da Oriente per distruggere autodistruggendosi i simboli del potere imperiale incorporava l’immaginario tecnologico occidentale d’inizio millennio e ne aveva appreso il know-how in America e dall’America: più che da fuori veniva da dentro, come un doppio partorito in casa, e più che a un alieno somigliava al perturbante freudiano, qualcosa di familiare e segreto che riaffiora imprevisto in nuove sembianze, nella realtà e nell’inconscio. L’attacco proveniva da un nemico invisibile e virale, organizzato in una rete senza territorio e senza confini come reticolare, deterritorializzato e sconfinato era l’Impero che voleva colpire, ed entrambi, l’Impero e il suo nemico, si alimentavano degli stessi flussi globali di capitali, tecnologie e informazioni. Perfino la logica suicidaria degli aerei-kamikaze era tutt’altro che estranea, fu sempre Derrida a rimarcarlo, alla logica autoimmunitaria, inconsciamente suicidaria anch’essa, che aveva ispirato la politica di potenza americana durante e dopo la Guerra fredda, ivi compreso il finanziamento dell’islamismo radicale contro l’Unione sovietica in Afghanistan. Ancora. Le 2977 vittime dell’attentatato appartenevano a sessantacinque nazionalità diverse, a dimostrazione che se il bersaglio era il vertice americano del potere globale a essere colpita era in realtà la globalizzazione dal basso incarnata da quella ibridazione di lingue, colori e culture rimasta incenerita sotto le Torri. E la ferita nello skyliner di Manhattan era il segnale di una nuova distribuzione della vulnerabilità, che da prerogativa dei deboli e degli oppressi ossequiosa delle gerarchie del dominio diventava altresì rischio imminente per i forti e gli oppressori, condizione umana e politica generalizzata, marcatura di una interdipendenza globale da cui nessuno può credersi esente.

A far mancare le parole era dunque una sorta di epifania incendiaria dello spazio globale, che rimandava le contraddizioni inedite di un mondo interconnesso e drammaticamente fratturato, secolarizzato nell’uso della tecnica e teologico nelle derive apocalittiche, ibridato nei suoi flussi e identitario nei suoi proclami di guerra. Bisognava reinterpretarlo, superando gli schemi mentali del passato. Il seguito della vicenda è, in buona sostanza, storia del conflitto fra chi ha tentato di aprirli e chi ha fatto di tutto per richiuderli, riportando il disordine globale al rassicurante ordine duale del bipolarismo perduto: l’Occidente contro l’Islam, la democrazia contro il nemico totalitario, l’identità americana contro la minaccia dell’alterità.

Note

1 Giovanna Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 94.

Archiviare. L’eredità di un evento
Catrin Dingler

Con la coincidenza fra il ventennale dell’attacco di Al Qaeda agli Stati Uniti e il ripristino dell’Emirato islamico in Afghanistan sembra che un arco di storia si chiuda e torni al punto di partenza. Ma la raccolta dei lavori di Ida Dominijanni sull’11 settembre e sulle guerre al terrorismo che seguirono mette in guardia da queste facili sembianze. Anzi, 2001. Un archivio (manifestolibri, in ebook e a giorni in libreria) chiede oggi come allora di riflettere su ciò che non (ci) torna, sull’evento inteso derridianamente come «ciò che accade e che, accadendo, giunge a sorprendere e a sospendere la comprensione». Il libro si apre così con la sovrapposizione di due eventi che per chi c’era già vent’anni fa non ha perso il suo impatto emotivo e la sua difficile decifrazione: prima la violenta repressione della protesta altermondialista al G8 di Genova, poi l’attacco terroristico e il crollo delle Torri gemelle a New York.

Il doppio e il gemello sono le figure che ritornano continuamente nella lettura degli eventi che Dominijanni propone, ma solo dopo aver sentito e riflettuto il vuoto, la mancanza di «parole per dire» e di «concetti per pensare», perché questa mancanza segnalava «che lo sfondamento delle Torri era anche uno sfondamento delle nostre categorie interpretative della realtà». L’11 settembre è quindi per Dominijanni un evento filosofico, ovvero un «trauma del pensiero» al quale si può reagire o difendendosi con delle spiegazioni razionali e rifugiandosi nel già pensato, o reggendo lo spaesamento e aprendosi alla sfida dell’impensato. Il libro raccoglie commenti critici alla reazione di chiusura e ripropone i contribuiti in cui l’autrice stessa si metteva – e torna a mettersi – in gioco spingendo verso una reazione di apertura.

In quegli anni Dominijanni era editorialista di punta de il manifesto nonché docente del dipartimento di Filosofia politica dell’Università RomaTre. Il vantaggio di questo doppio punto d’osservazione si coglieva nelle lunghe interviste con altri pensatrici e pensatori così come nella sua rubrica settimanale di allora «Politica o quasi». Ora il libro restituisce l’esperienza vissuta vent’anni fa dalle sue lettrici e dai suoi lettori affezionati: l’invito e l’insegnamento a pensare il presente.

La prima parte ripropone in ordine cronologico dal 2001 al 2008 una serie di interviste, più spesso veri e propri dialoghi per comprendere il mutamento in atto insieme a interlocutori di lunga data (fra gli altri Giacomo Marramao, Carlo Galli, Antonio Negri, Mario Tronti, Ètienne Balibar), della rete femminista (Rosi Braidotti, Tamar Pitch, Carol Gilligan) oppure incontrati nei contesti creatisi proprio in seguito all’11 settembre (Jeffrey Schnapp, Judith Butler, Wendy Brown, Homi Bhabha, Slavoj Zizek). La seconda parte del libro raccoglie sotto il titolo «Diario» alcune delle rubriche scandite per temi (kamikaze, ostaggi, fronte europeo e altri).

Cruciale per la lettura dell’evento e delle sue ripercussioni era per Dominijanni la consapevolezza che «il mondo bipolare e gemello, speculare e fallico, geometricamente spartito nei suoi spazi politici, militarmente e ideologicamente ordinato dalla logica amico-nemico» fosse definitivamente crollato assieme alle Torri». La divergenza nel modo di rapportarsi al vuoto lasciato dal crollo del paradigma della politica moderna segna la linea di conflitto teorico-politico dopo l’11 settembre. Da un lato quelli che cercano di ripristinare un ordine bipolare o sulla demarcazione teocon tra Occidente e Islam o sulla vecchia linea di conflitto antimperialista tra potenti e oppressi. Dall’altro lato i «vulnerabili» che non negano la fragilità della condizione umana, le contraddizioni del mondo globale, le sue fratture trasversali e cercano di pensare il mondo all’insegna dell’interdipendenza e della relazionalità. Relazionalità che peraltro Dominijanni mette in pratica sia nella forma dell’intervista sia nel contenuto delle rubriche che sovente prendono spunto da un pensiero, un film, un libro altrui, testimoniando così nella scrittura l’urgenza di opporsi al «profilo inquietante dell’io sovrano, identitario e nazionalista pronto a reinsediarsi sulle macerie di Ground Zero».

Che questa pratica della relazionalità fosse già sperimentata nel femminismo della differenza lo esplicita il saggio di chiusura del libro. Basato su una lezione tenuta al Grande Seminario della comunità filosofica Diotima dell’università di Verona alla fine del 2001, quel testo rivela il filo conduttore di molti scritti dell’autrice non solo a partire dall’11 settembre. Da pensatrice acuta del pensiero della differenza sessuale, Dominijanni ribadiva nel corso di quella lezione che gli eventi del 2001 rendevano urgente e non più rinviabile che la parola femminista si facesse sentire «nella piega del presente», rendendo visibile un sapere già guadagnato «in nome di una relazionalità costitutiva dell’esistenza singolare e collettiva che ci espone sempre e comunque tanto alla violenza quanto all’amore e alla cura dell’altro». Perciò il “Noi vulnerabili» che dà il titolo all’introduzione della raccolta non nomina soltanto la condizione umana del mondo globale, ma accentua la prospettiva dalla quale l’autrice ripensa lo statuto del soggetto e del politico. L’ontologia della vulnerabilità getta un ponte fra il pensiero della differenza italiana e il pensiero femminista americano di Butler e altre. E proprio con lo sguardo sull’altra sponda dell’Atlantico Dominijanni chiude il suo archivio nel 2008, quando l’elezione di Barack Obama annunciò un «cambio di stagione».

Sulla valutazione ottimistica con cui l’autrice giudica gli Usa più capaci dell’Europa di reagire alla destra identitaria che nel frattempo ha segnato una continuità dallo sciovinismo bellico di George W. Bush al sovranismo suprematista di Donald Trump ci sarebbe da discutere, visto che la stessa coalizione antitrumpiana costruita all’insegna dell’intersezionalità non è esente a sua volta da ricadute identitarie. Uno strabismo che Dominijanni stessa ha più volte messo a fuoco e continuamente sfidato come testimonia anche quest’ultimo lavoro.

Il titolo rimanda a un pensatore che le era e le rimane caro per pensare la soggettività e l’ordine politico in un mondo fuori sesto. Jacques Derrida metteva in guardia dalla concezione dell’archivio come mero sito di conservazione minacciato dalla coazione a ripetere, e suggeriva di intenderlo piuttosto come una prassi di inscrizione nel discorso e quindi come medium di trasmissione di un sapere in continua trasformazione. Così per Dominijanni il «gesto d’archiviare» è un atto con cui il pensiero e la pratica femminista della differenza si inscrivono nel conflitto politico-simbolico del presente. Non per lamentare la ripetizione dell’uso e dell’abuso delle donne, vuoi come vittime del patriarcato islamico vuoi come supposto emblema della libertà occidentale; né per rivendicare il sapere già accumulato, come quello che già nel lontano 2003, alla prima comparsa della Sars e dopo due anni di analisi «virologiche» del terrorismo internazionale, avrebbe dovuto rendere palese che «le risposte emergenziali non servono a niente se il virus in questione è il prodotto di una normalità malata che non viene modificata». Il gesto d’archiviare di Dominijanni è piuttosto un invito a continuare a pensare l’evento e la sua eredità, a reggere le controversie pure all’interno della parte dei «vulnerabili» e a segnare di volta in volta l’attualità con il taglio della differenza.

Anni fatidici e lenti per leggere il mondo
Articolo di Lorenzo Coccoli uscito su “il manifesto” del 09.09.2021.

Chiunque si sia cimentato in esercizi di storia dal basso conosce bene l’importanza cruciale degli archivi: è lì che bisogna andare a scavare se si vuole tentare di ridare corpo alle voci dei senza voce, è lì che bisogna indagare se si vuole sperare di sottrarre al rimosso le vies oubliées – il conio è di Arlette Farge, una che di archivi se ne intende – degli spossessati e degli sconfitti. Vero. E tuttavia, che cosa succede quando i rapporti si invertono? Quando gli sconfitti e i dimenticati di cui gli archivi ci parlano non sono gli altri ma siamo noi? È questa la prima, spiazzante sensazione che prende davanti al materiale che Ida Dominijanni, con montaggio sapiente, ha raccolto e orchestrato a partire dal suo repertorio di firma storica del manifesto. 2001. Un archivio (manifestolibri, pp. 280, euro 18, in ebook euro 9) è il titolo di questa operazione condotta sul filo sottile tra presente e passato. E l’odissea a cui ci invita è nel tempo più che nello spazio. Le lancette sono riportate indietro di vent’anni, a quell’inizio di terzo millennio che ha segnato – da qualunque lato la si voglia guardare, e ammesso che si abbia gli occhi per vedere – la soglia tra un prima e un dopo.

Colpisce il tempismo con cui l’autrice e i suoi interlocutori registrarono, quasi in presa diretta, il senso e le dimensioni di questo passaggio d’epoca. Colpisce il tesoro d’intelligenza politica che attorno agli eventi di quell’anno fatidico – Genova, le Twin Towers, e poi l’inizio della guerra globale infinita – si era venuto accumulando, nutrito dal pensiero e dalla pratica di un movimento che ancora affollava in massa le piazze. E colpisce però anche la coltre di stupidità sotto cui quel tesoro fu sepolto, il deserto di disinteresse in cui quell’intelligenza collettiva e preveggente chiamò inascoltata.

Leggete le venticinque interviste e gli svariati articoli che compongono il volume: non troverete una parola che non suoni straordinariamente profetica. Non c’è dubbio, avevamo ragione: gli accadimenti anche recentissimi di questo primo scorcio di secolo si sono incaricati di dimostrarlo. E nonostante questo, o anzi proprio per questo, tanto più dolorosa e disperante è la consapevolezza della sconfitta che ti assale quando, davanti a una Kabul in fiamme, senti commentatori e pundits ripetere un già detto vecchio di vent’anni, con identica stolida sicumera.
Intendiamoci però: un tesoro resta un tesoro, e un tesoro sepolto è lì solo perché un giorno, magari prossimo, possa essere ritrovato. 2001 disegna allora la mappa necessaria per mettersene in caccia, e la affida – leggiamo nella dedica – «a chi vent’anni fa non c’era ancora». A venire trasmessa, in questo simbolico passaggio di testimone, è innanzitutto una lezione di metodo, una pedagogia del sospetto. «Ambivalenza» è qui il termine chiave, la lente attraverso cui Dominijanni e le pensatrici e i pensatori da lei convocati (da Rosi Braidotti a Homi Bhabha e Slavoj Žižek, da Étienne Balibar a Judith Butler e Wendy Brown) scelgono di guardare allo scenario post-11 settembre. Leggere il vuoto tra le righe esibite del pieno, riconoscere l’impotenza dietro l’affermazione armata della superpotenza, scorgere la crisi delle categorie politiche classiche al di là della loro urlata e meccanica ripetizione: ecco la ginnastica a cui 2001 ci invita.

Certo, nella guerra al terrore la logica amico/nemico, noi contro di loro, sembra trovare una spettacolare (e spettacolarizzata) conferma: ma, ricorda ad esempio Carlo Galli, la verità è che qui abbiamo a che fare con un nemico invisibile, deterritorializzato, interno e non esterno alle frontiere dello Stato – ammesso poi che parlare di «interno» ed «esterno», nello spazio globalizzato senza più un fuori, abbia ancora senso. E del resto, che farsene di Hobbes e Schmitt quando, come scrive Dominijanni, «la pratica suicida dei kamikaze fa saltare il dispositivo della deterrenza che da sempre regola la convivenza» e spinge alla nascita del patto sociale? Certo, nell’ostentazione muscolare dell’era Bush, l’imperialismo americano sembra aver raggiunto il suo apice: ma, segnala Toni Negri, non si tratta a ben vedere che di «un colpo di reni contrario e regressivo» rispetto alle tendenze di formazione dell’Impero, del tentativo disperato di riaffermare una centralità perduta in un mondo irreversibilmente multipolare (con quale successo ce lo dicono oggi, di nuovo, le cronache dall’Afghanistan).

Certo, l’unione sacra stretta all’indomani degli attentati attorno alle vecchie parole d’ordine identitarie di Dio, patria e famiglia sembra certificare la vittoria della secolare alleanza di fondamentalismo, nazionalismo e patriarcato: ma proprio la carica di violenza con cui quelle parole si è cercato di imporle – da ambo i lati del presunto conflitto di civiltà – non è che il sintomo del delirio panico scatenato dai processi di profanizzazione del sacro (si legga quanto dice qui Mario Tronti), di ibridazione e meticciamento delle identità (lo sottolineano con acume, tra gli altri, Jeffrey Schnapp e Paul Gilroy), di implosione del dominio maschile sotto i colpi della parola femminile e della rivoluzione femminista (si veda il bel dialogo con Carol Gilligan, e il denso saggio conclusivo di Dominijanni).

Si badi bene: scoprire il trucco, svelare la dimensione spettrale dei revenants identitari non significa negarne la formidabile efficacia. 2001 torna anzi a più riprese sul potere dei fantasmi. Che realtà e immagine, verità e finzione non possono essere separati con un colpo occamiano di rasoio – tanto più dopo che, con l’attacco alle Torri trasmesso in diretta tv su scala globale, l’immaginario pare essersi definitivamente installato «nella cabina di regia dell’evento»; che ogni accadimento gioca sempre una partita su più campi, non solo sul piano del reale ma anche su quello del simbolico; che il riduzionismo economicista fa un cattivo servizio al materialismo se pensa di poter tagliar fuori dall’explanans le economie morali consce e, soprattutto, inconsce: ecco una lezione evidentemente utilissima a chiunque voglia provare a comprendere qualcosa di questa nostra complicata congiuntura.

Perché una cosa è certa: se non mettessimo nell’equazione la forza terribile degli spettri identitari e delle reazioni d’ordine, nulla capiremmo del momento populista che abbiamo attraversato e stiamo forse ancora attraversando; se non tenessimo in considerazione il fatto che il virus (l’Aids e l’antrace ieri, il Covid-19 oggi) è sempre anche una metafora, saremmo infinitamente più sguarniti nel registrare gli effetti sociali e simbolici che la crisi pandemica ha avuto e continuerà ad avere.

Ed eccoci così di nuovo proiettati sul presente. Pur nella sua tremenda letteralità – il punto è decisivo, come sottolinea Dominijanni nell’introduzione al libro – il coronavirus ha toccato un nervo della teoria politica scoperto già vent’anni fa dal virus allegorico del terrorismo. Venne a galla all’epoca, e con palmare evidenza, l’insufficienza di un’ontologia e di un’antropologia fondate tutte sul pilastro della sovranità – individuale o collettiva, poco importa; e insieme la necessità – avvertita soprattutto, e non a caso, nel campo femminista – di un loro ripensamento nei termini di un soggetto relazionale, interdipendente, vulnerabile. A distanza di vent’anni siamo ancora lì: il vecchio mondo è morto, ma continua a pesare come un incubo (come un fantasma) sul cervello dei vivi.
Quello che ci manca non è, scrive Dominijanni, «la finezza del concetto: manca il referente della pratica, la fiducia che davvero su questa base possa nascere qualcosa che si possa chiamare “politica”, l’individuazione di una figura antropologica nuova in grado di metterla al mondo e di farla camminare». E tuttavia, questo archivio è lì a ricordarcelo, nulla che nasca nasce mai da zero.

Vi segnalaliamo per venerdì 10 settembre alle 18.30 la presentazione, organizzata dalla Casa Internazionale delle Donne e dal CRS, del volume di Ida Dominijanni, edito da manifestolibri. Ne discuteranno con l’autrice Annalisa Camilli, Mattia Diletti e Bianca Pomeranzi.

2 commenti a “L’ombra lunga delle Torri”

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