Materiali

Pensare contro

Articolo pubblicato su “Politica & Società”, 1/2019, Bologna, il Mulino, pp. 69-88.

Mario Tronti [1] è senza dubbio tra i più importanti pensatori italiani che abbiano messo a tema la questione dell’antagonismo. Negli anni ’60 è stato, insieme a Raniero Panzieri, tra i fondatori dell’operaismo teorico italiano. Nato e vissuto attorno a due esperienze editoriali, la rivista Quaderni rossi e il giornale Classe operaia [2], l’operaismo ha rappresentato la più importante cesura teorico-politica nel campo del marxismo italiano del Novecento. La temperie intellettuale da cui trae origine l’esperienza operaista risale agli anni ’50 e alla crisi del marxismo italiano, nell’ambito della quale emersero vigorose, seppure minoritarie, le istanze di chi vedeva esaurita la funzione del filone storicistico che la politica culturale di Togliatti aveva elevato a impostazione ufficiale del PCI. Il tema su cui dibattevano intellettuali come Galvano Della Volpe era quello del ritorno a Marx e in particolare al Marx dell’analisi scientifica del capitale. L’esperienza operaista è stata periodizzata dallo stesso Tronti tra il 1961 e il 1966 (Tronti 2009a, 7), ma in molti si sono successivamente richiamati a quella stagione. È il caso di alcuni movimenti politici della sinistra extra-parlamentare, ma anche di filoni di pensiero come quello inaugurato da Toni Negri negli anni ’70, con la sostituzione dell’operaio massa, che era stata la figura chiave del decennio precedente, con l’operaio sociale (cfr. Negri 2007). Tronti giudica quegli esperimenti politici e intellettuali come una corruzione dell’operaismo (Tronti 2009a, 7) e infatti, a partire dai primi anni ’70, inaugurerà una nuova stagione del suo pensiero che va sotto il nome di autonomia del politico. Quale sia il rapporto intercorrente tra la posizione teorica espressa da Tronti negli anni dell’operaismo, racchiusa in quella vera e propria summa dell’operaismo classico che è Operai e capitale, e la fase successiva è un tema su cui molto si è dibattuto. Quando nel 1977 viene pubblicato il piccolo libro dal titolo Sull’autonomia del politico, si aprono accesissimi dibattiti nel panorama teorico e culturale del marxismo italiano (cfr. Peduzzi 2006). Le posizioni critiche nei confronti della teorizzazione trontiana sono principalmente di due tipi: la prima rimproverava a Tronti una deviazione dai contenuti e dallo spirito dell’operaismo, considerando l’autonomia del politico come «il contrappunto teorico che accompagnava il ciclo del compromesso storico»; l’altra vi si opponeva perché la nuova impostazione trontiana infrangeva «il dogma della politica come sovrastruttura» (Peduzzi 2006, 29-30). È senz’altro vero che l’autonomia del politico archivia il dogma originato dalla lettura che Engels ha tramandato delle poche pagine in cui Marx introduce la coppia concettuale struttura-sovrastruttura, e, in proposito, resta solo da discutere se di quel dogma sia giusto avere nostalgia. Che l’autonomia del politico rappresenti una deviazione rispetto all’operaismo è invece quanto meno dubbio. In realtà già nell’aprile del 1977, in un convegno organizzato a Padova dall’Istituto Gramsci, Tronti ebbe a dire che il richiamo all’autonomia del politico «viene fatto nel modo leninista di piegare il ferro dalla parte opposta per raddrizzarlo. Ma chi crede che sia questo l’approdo finale della ricerca, non ha letto bene neppure i passaggi precedenti. L’obiettivo è di unificare il discorso sulla classe e il discorso sulla politica (Napolitano et al. 1978, 17-18)». Negli anni ’60 il ferro storto da raddrizzare era quello del movimento operaio ufficiale e delle sue organizzazioni, nelle quali era operante un eccesso di separatezza tra l’ambito della politica ufficiale-istituzionale e l’ambito sociale in cui si esprimeva il conflitto di classe; una separatezza che impediva di esprimere a pieno le implicazioni sovversive dell’antagonismo politico di cui erano portatrici le lotte di fabbrica. Negli anni ’70 il ferro storto era invece quello dei movimenti che pensavano e praticavano, in senso opposto, a loro volta la separatezza di politico e sociale. Per comprendere il senso della profonda continuità teorica che sussiste tra Operai e capitale e l’autonomia del politico, bisogna assumere che Tronti non è mai stato un filosofo che producesse astrazioni a prescindere dalla realtà materiale-concreta delle condizioni e delle lotte politiche della sua parte. Tronti non è un pensatore politico, ma, come egli stesso si è definito, «un politico pensante» (Tronti 2006, 17). Innanzitutto, cioè, un militante della classe operaia che ha fatto del pensiero lo strumento del proprio contributo alla costruzione delle lotte della sua parte. In questo senso, egli è a tutti gli effetti un intellettuale organico. Organico non a un partito ma, appunto, a una parte del mondo portatrice di un antagonismo che produce rotture e salti in quello che Benjamin chiamò il continuum della storia (2012, 20); un antagonismo che trattiene, rallenta, frena ciò che il pensiero borghese ha chiamato progresso e, in questo senso, attraversa l’ambito teologico-politico incontrandosi con la prospettiva catecontica di Paolo di Tarso (cfr. Cacciari e Tronti 2007, Tronti 2015b); un antagonismo mai subalterno o meramente rivendicativo che, in quanto si oppone alla spontaneità, in quanto ri-orienta, in quanto dirige, non perde mai il suo carattere eminentemente politico.

Proprio dall’assunzione della parzialità nel pensiero e dall’idea che questa sia necessaria persino ai fini della stessa conoscibilità del reale, ovvero da quello che gli operaisti hanno chiamato punto di vista, abbiamo preso le mosse di una conversazione che prova a dare conto della profonda unitarietà e attualità di un pensiero [3] che, pur passando attraverso un’evoluzione teorica che ha corrisposto alle trasformazioni politiche e sociali avvenute nell’ultimo mezzo secolo di storia, è tenuto insieme da una medesima scelta, esistenziale e politica prima che filosofica: la scelta di essere e pensare di e per una parte, contro la realtà nemica che questa ha davanti.

Che tipo di antagonismo era espresso nella nozione operaista di «punto di vista»?

La prima cosa che voglio dire è che oggi ci vuole del coraggio politico a parlare di antagonismo. È una parola scomparsa dal dibattito pubblico, non perché siano scomparsi i grandi conflitti ma perché i conflitti non si esprimono mai attraverso questa parola-concetto. Non è un caso che questa parola venne evocata nel periodo che fu segnato dall’esperienza operaista, perché quello era un passaggio storico che provocava fratture. L’evocazione operaista del concetto di antagonismo va collocata nel passaggio in cui l’Italia raggiunge le forme più avanzate del capitalismo moderno, cioè tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60. Prima l’Italia era un paese capitalisticamente arretrato, ma lì fa il salto verso la società a centralità di capitalismo industriale. Dentro quel clima, prima di tutto sociale, nasce una nuova forma di antagonismo.

Nel ‘62 poi ricominciano le grandi lotte, gli operai FIAT ritornano in campo dopo essere stati per anni fuori dalle lotte contrattuali dei metalmeccanici. Fu un evento straordinario che noi vedemmo da vicino, perché eravamo già pronti con Quaderni rossi. Da lì emerse la nostra concezione di allora: se ci sono due grandi classi contrapposte devono esserci anche due punti di vista, due parzialità che si combattono. I capitalisti industriali la loro parzialità la gestivano sempre con grande lucidità, anche se poi la mascheravano con l’ideologia dell’interesse generale; come in parte faceva anche l’opposizione socialista e comunista ufficiale, che anch’essa mirava a rappresentare l’interesse generale. La rottura teorico-politica fu proprio questa: noi cominciammo a parlare di un punto di vista di parte, che era allora un punto di vista operaio. Lo declinammo con una dizione che in seguito mi è sembrata eccessiva, scienza operaia. Eccessiva, perché non so se questi due punti di vista possano esprimersi in senso completamente scientifico e, in fondo, il punto di vista di parte aveva anche un’espressione positivamente ideologica. Insomma, c’era, sì, un vedere; ma c’era anche un voler vedere.

Il passo successivo, comunque, era l’idea che solo attraverso la parzialità si poteva comprendere la totalità. Non escludevamo che ci fosse un tutto da comprendere, però la convinzione era che il tutto non lo comprendi a partire dal tutto, ma solo a partire da una parte. E questo nell’analisi funzionava, anche perché l’analisi si incontrava con una parte dell’opera di Marx, che in quel periodo era abbastanza tenuta ai margini, cioè il Marx del Capitale e poi dei Grundrisse, che fu il nostro Marx. In quel Marx noi ritrovammo quel punto di vista parziale a partire dal quale si poteva fare un’analisi, in quel caso sì, scientifica. E noi dal punto di vista parziale andammo a studiare il moderno capitalismo industriale che ci trovavamo di fronte.

La rottura con Panzieri e la fondazione di «Classe operaia» maturano in seguito al suo rovesciamento del rapporto tra lotta di classe e sviluppo capitalistico. Lei dice: prima la lotta, poi lo sviluppo.

Il passaggio da Quaderni rossi a Classe operaia è molto importante. È stato rivisitato tante volte, ma il punto è quello che diceva lei. Il primo numero di Classe operaia comincia proprio da quella affermazione: abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, adesso dobbiamo vedere prima la lotta operaia. Quell’intuizione è stata il cuore dell’esperienza specifica di Classe operaia. Scoprimmo insieme che la classe operaia imponeva al capitale il suo sviluppo, costringendo il capitale a trasformare se stesso. Cos’è questa sovrapproduzione tecnologica interna alla produzione del capitale? È il fatto che il capitale per rispondere alla minaccia operaia era costretto a ridurre la presenza della forza-lavoro: più macchine e meno braccia operaie, cosa che continua ancora oggi con la robotizzazione della produzione. È un’operazione politica, nel senso che così il capitalismo emargina quel nemico interno che è la forza-lavoro. Ma lo faceva perché le lotte operaie, dentro e contro il capitale, lo costringevano a farlo. Questa
fu un’indicazione strategica che resse tutto il periodo di vita di Classe operaia.

Peraltro, noi facevamo militanza politica, andavamo a vedere la fabbrica, facevamo intervento politico sugli operai nelle lotte contrattuali ma proponevamo anche soluzioni sulla composizione tecnica del lavoro operaio. Non eravamo intellettuali che ragionavano solo sui libri. Era una convinzione teorica, quindi, che veniva anche da una presa empirica sulle cose e quella fu un’operazione teorica che aveva, sì, in questo senso, una base scientifica in quanto aveva una prova empirica che poi allargavamo anche ad altri settori: chiamavamo il lavoro contadino, sempre più emarginato, fabbrica verde per dire che lì c’era lo stesso rapporto di classe; poi guardavamo anche alle prima forme di logistica dentro il rapporto di produzione sociale, cioè al tema dei trasporti. Andavamo anche a vedere quanto c’era di proletarizzazione di una parte del ceto medio. Però quel grido che c’è nel primo numero di Classe operaia, prima le lotte operaie poi lo sviluppo capitalistico, fece fare un salto a tutta l’esperienza operaista e ancora oggi ne rimane un po’ il fulcro.

Vedevate una differenza qualitativa tra operai e capitale, i primi categoria politica e il secondo categoria economica. Quale era il significato di queste definizioni?

Intanto c’è una differenza antropologica e umana tra operai e capitalisti. Il libro si chiama Operai e capitale, uno al plurale e l’altro al singolare, perché operai si concepisce solo come collettività, non c’è mai l’operaio singolo. C’è sempre il collettivo operaio, la forza lavoro sociale soprattutto dentro la grande fabbrica. Noi guardavamo sempre alla FIAT, che aveva decine di migliaia di operai che erano unificati dalla catena di montaggio. E stavano di fronte all’imprenditore singolo, figura anch’essa oggi quasi scomparsa. Questa è la differenza antropologica tra una collettività e una individualità, che messa così è subito anche una differenza politica.

Poi c’era un altro versante di discorso, che allora non valutammo a pieno ma che poi ho ripensato in seguito: per noi la classe operaia già non era più proletariato. C’era un salto dal proletariato alla classe operaia. Il proletariato era un magma, sì anche di rivolta, ma con dei caratteri individuali, anarchici. E poi la parola proletariato indicava una classe che aveva come caratteristica anche forme di miseria, di emarginazione. La classe operaia si stacca da questa condizione e infatti io, dopo, ho elaborato il concetto della classe operaia come erede di tutte le insorgenze sovversive delle classi subalterne, da Spartaco ai contadini di Thomas Müntzer, fino al giugno del 1848 e alla Comune di Parigi. La differenza era che la classe operaia si era liberata dalla subalternità: prendeva in sé l’eredità delle classi subalterne, però ponendosi come classe non più subalterna ma come classe dirigente e potenzialmente dominante. Il passaggio decisivo io poi l’ho trovato nella rivoluzione d’Ottobre: la classe operaia che assalta il Palazzo d’Inverno e conquista il potere, per la prima volta finalmente vince e si scrolla di dosso una storica oppressione. Vince e il potere non solo lo conquista, ma lo gestisce almeno per alcuni decenni. Questo è il salto, il passaggio da classe subalterna a classe dirigente e, ripeto, anche a classe dominante. Per noi lì c’era l’idea che la classe operaia è un’aristocrazia di popolo: un’aristocrazia di popolo che non abbandona il rapporto con il popolo, ma che lo guida svolgendo una funzione dirigente. Questi concetti non sono poi entrati nelle esperienze post-operaiste e seguono un filone che sarà mio e non di altri.

Il suo operaismo tentava di tenere insieme «il discorso sulla classe e il discorso sulla politica». L’autonomia del politico sarà però vista da molti come una deviazione. Invece già in «Operai e capitale» c’era una traccia di quella impostazione.

Ha ragione. In Operai e capitale c’è una buona traccia dell’autonomia del politico. Tanto è vero che lì c’è sempre un’attenzione, oltre a Marx, anche a Lenin. Il passaggio da Marx a Lenin è proprio il passaggio dalla classe operaia come classe sociale alla classe operaia come classe politica. L’ho detto tante volte: proprio attraverso l’esperienza operaista, sia pratica che teorica, mi sono reso conto che le lotte operaie sul terreno immediatamente sociale non riuscivano a mettere in crisi il rapporto di produzione capitalistico, perché quello aveva nei confronti del suo antagonista operaio una risorsa in più in quanto possedeva il terreno politico tutto intero e in particolare le istituzioni statali. Senza passare attraverso la messa in crisi anche di quel livello, le lotte operaie da sole non sarebbero riuscite a ottenere il rivolgimento che era implicito nell’antagonismo operaio. Questa mia idea non fu compresa immediatamente dal grosso di chi aveva fatto l’esperienza operaista, perché lì era ancora fortemente presente la tesi marxiana della politica come sovrastruttura, mentre io mi resi conto che il livello politico giocava un suo ruolo del tutto autonomo che gli permetteva di controllare tutto il processo; perché poi quello politico era un terreno in cui venivano coinvolte le forze di opposizione e quindi emergeva un gioco che aveva delle sue leggi specifiche. Marx aveva parlato di leggi di movimento della società e dell’economia, io cominciai a dire che ci sono anche delle leggi di movimento della politica. Trovai la conferma di questo in una stagione di intenso studio del pensiero politico moderno negli anni dell’Università di Siena, nei primi anni ‘70 e per i decenni seguenti, insieme a un gruppo di giovani collaboratori. Partii naturalmente da Machiavelli, attraversai tutto il ‘600, saltai non a caso un bel pezzo di Settecento, passai produttivamente per i teorici e gli storici della Restaurazione. Quella mia iscrizione alla tradizione del realismo politico partì da allora: Machiavelli, Hobbes, i teorici della ragion di Stato, i gesuiti, i controrivoluzionari dei primi dell’800, la in parte anche lo stesso Marx, fino al grande ‘900 quando questa cosa viene ripresa dai grandi pensatori: Pareto, Weber, Schmitt. Questa linea è stata fondamentale per approfondire la comprensione della totalità da un punto di vista di parte, che continuo a coltivare
anche oggi. Però fu uno scandalo per gli operaisti, perché sembrava un abbandono del terreno antagonistico e invece no, era un arricchire quel terreno di un’altra opzione, di un’altra posizione, di un’altra risorsa.

L’assunzione del «politico» però cambia l’idea di antagonismo e comporta il momento della mediazione. È per questo, forse, che fu così criticato da sinistra…

Sì, ma anche nel politico c’è l’antagonismo. Anzi, bisogna tradurre l’antagonismo sociale in antagonismo politico perché se non si fa questo passaggio l’antagonismo sociale diventa una cosa sterile e assume, come ha assunto regolarmente, una impostazione spontaneista della lotta. La mia differenza rispetto a molti altri marxisti operaisti è il mio leninismo. È Lenin lì il punto cruciale. La mia scelta di Lenin e non della Luxemburg è una scelta strategica che risale ad allora ed è rimasta ancora oggi: la politica per me è organizzazione. Le ideologie che predicano la virtù oggettiva delle masse spontaneamente in movimento sono sempre generose illusioni che non corrispondono alla realtà. L’antagonismo sociale va organizzato e questo vuol dire che va politicizzato, perché senza organizzazione non c’è possibilità di successo dell’antagonismo. Questa è una mia convinzione profonda: le lotte hanno bisogno di una direzione, da questo non recedo. Noi viviamo in una società, la società borghese-capitalistica, che è tutta fondata sull’ideologia delle cose che avvengono spontaneamente. La produzione, il mercato, il consumo sono presentati come un circolo autonomo. Ma poi non è vero nemmeno lì, perché anche loro hanno bisogno dello Stato quando i meccanismi spontanei entrano in crisi, come entrano in crisi periodicamente: e allora chiedono gli interventi politici dall’alto. Loro dirigono e anche dall’altra parte bisogna dirigere, perché se le lotte non sono organizzate si perdono. Io non sono mai stato un teorico e un pratico dei movimenti, anche nei periodi recenti in cui questi movimenti sembravano la nuova forma di antagonismo. Ma che fine hanno fatto i movimenti? Il movimento non è in grado di durare e una forza che non è capace di durare non è una forza, è una debolezza. Questo è il punto. I movimenti presentano una discontinuità che non crea nessun problema al potere costituito. Quando io dico che gli unici che hanno messo veramente paura ai capitalisti sono i comunisti, lo dico in questo senso: i comunisti avevano costruito un apparato di organizzazione che è durato per decenni, avevano addirittura tentato di farsi Stato in un immenso Paese euroasiatico. E gli avversari ne hanno avuto davvero paura.

A proposito di Lenin, uno degli elementi di continuità nel suo percorso è l’attenzione sulla questione della NEP. Quale peso teorico attribuisce a quell’esperienza?

Questo è un tema molto importante e anche molto attuale. Ha ragione nel dire che la mia attenzione verso quell’esperienza è stata sempre molto viva, sin dai tempi dell’operaismo. Adesso l’ho anche rivisitata perché mi pare che sia una delle cose su cui si riflette poco. Il punto è il rapporto tra politica ed economia. Il capitalismo ha avuto la capacità di mettere in campo un compromesso sociale: lo Stato sociale è stato un compromesso che si è evidenziato nei trent’anni gloriosi (1945-1975), ma che aveva un grosso precedente nella fase rooseveltiana-keynesiana di uscita dalla crisi del ‘29-‘33 negli Stati Uniti. Lì ci
fu la grande iniziativa politica capitalistica. Era la stessa cosa che aveva fatto Lenin appena preso il potere. Anche lui isolatissimo, contro gran parte dei bolscevichi che volevano continuare indefinitamente la fase rivoluzionaria, dice sostanzialmente: “adesso che abbiamo conquistato il potere, cari compagni, dobbiamo trovare un compromesso con le leggi oggettive di sviluppo del capitalismo”. Bisogna passare attraverso il capitalismo perché lì c’è la forza di un sistema che sviluppa le forze produttive ed è capace di produrre ricchezza. Scandalo tra i bolscevichi e infatti tutto fu rovesciato, purtroppo, nel dopo Lenin con la fase staliniana.

Lenin sapeva che la presa del potere non è il socialismo e che dopo la presa del potere il socialismo è ancora da venire. La presa del potere serve a creare le basi per la costruzione del socialismo. E, per porre le basi, non si può che passare per lo sviluppo del capitalismo, ma con un partito che tiene in mano il potere e gestisce questo passaggio. È un punto essenziale e, ripeto, di grande attualità. Oggi la stessa parola “socialismo” non gode di buona stampa, anche perché è riferita al socialismo realizzato in Unione Sovietica che è ormai improponibile. Né oggi si può indicare una prospettiva di passaggio dal capitalismo al socialismo puro e semplice, ma, come dicevamo allora, bisogna immaginare una transizione dal capitalismo al socialismo: né attraverso una rottura rivoluzionaria né attraverso una gradualità di riforme. Oggi le due tradizioni classiche del movimento operaio, quella rivoluzionaria e quella riformista, sono ambedue incapaci di indicare una strada. Allora si ripropone il problema di conquistare una potenza di gestione da parte di una forza antagonista che prenda in mano il potere politico. In questo caso anche gestito e organizzato democraticamente, perché sono impossibili soluzioni autoritarie oggi. Una forza che però ha in mente, dall’alto del potere politico, di guidare quella transizione di superamento del capitalismo facendo servire la stessa struttura economico-sociale del capitalismo al suo superamento. La difficoltà sta nel creare una forza politica in grado di farlo, ma l’opzione strategica di una cosa come la NEP è senza dubbio oggi molto più attuale di altre. Però questa forza politica dovrebbe assumere la tradizione del realismo politico. Vede, io non ho abbandonato, a differenza di quanto molti credono, la prospettiva rivoluzionaria. Non l’ho abbandonata, ma voglio declinarla realisticamente: voglio capire come si fa effettivamente a sovvertire l’ordine. Nell’ultimo libro, Il popolo perduto, parlo di un civile sovversivismo. Ma non mi basta dirlo, voglio capire come si fa a essere oggi dei sovversivi, civili in quanto la prospettiva non può, e non deve, essere violenta, e realisti in quanto deve essere capace di governare lucidamente dei passaggi, dei momenti di transizione. È questo oggi il compito del pensiero politico rivoluzionario. Non abbiamo altro compito che questo. In fondo tutti i passaggi recenti del mio pensiero sono declinati su questa linea, tutti. Anche quando parlo di teologia politica sto dicendo esattamente questo, anche se può sembrare che in quel caso stia parlando d’altro. Capisco che il discorso può diventare complicato, ma la fatica del concetto che ho imparato alla scuola di Hegel è esattamente questa.

In seguito, lei ha avviato una riflessione retrospettiva sul Novecento. Qual è il ruolo di quella riflessione sui passaggi più recenti del suo pensiero?

È forse il passaggio più complesso di tutto il mio percorso. Noi siamo eredi di quella frattura che è stato il biennio ‘89-‘91. Dico ‘89-‘91 perché il dato epocale non è stata la caduta del muro di Berlino, ma il crollo dell’URSS. Un dato epocale non pensato, soprattutto da quelli che stavano dentro quella storia, perché gli avversari di classe non avevano bisogno di grandi riflessioni: loro avevano ottenuto quello che cercavano da settant’anni, eliminare quella eccezione che era l’URSS e che rappresentava un freno alla lobalizzazione capitalistica che infatti poi ha vinto e occupato il mondo. La colpa grave è di quelli che stavano dentro quella storia e che, vedendo crollare il proprio retroterra, non si sono fermati a spendere pensiero su quell’evento. E siccome era un grande evento ci voleva un grande pensiero. Invece si è poveramente solo visto come un atto di liberazione quello che era un vero e proprio punto di catastrofe. Io mi trovai pronto a cogliere quell’evento perché in parte negli anni ‘80 avevo visto e denunciato la deriva culturale di quel fronte, che era il fronte che veniva dal movimento operaio, che aveva tentato eroicamente di costruire una società alternativa e chiaramente non era riuscito nell’intento. Ho trovato sempre strano che non ci si fosse messi a riflettere seriamente su quel passaggio e infatti ciò che è venuto dopo è stato disastroso perché, non avendo riflettuto sulla portata della cosa, i rimedi che sono stati messi in campo erano del tutto inadeguati, al di sotto della grandezza dell’evento. Devo dire che mi sembra di aver capito meglio di altri quel passaggio, soprattutto grazie alle belle esperienze intellettuali fatte negli anni ’80 e ‘90 con Bailamme, una rivista di spiritualità e politica, con gli Incontri di Monte Giove, e grazie al discorso sul politico che avevo elaborato negli anni ‘70 e approfondito dopo.

Nell’autonomia del politico c’era una tesi implicita, per cui io vedevo il movimento operaio come il grande erede della politica moderna e cioè erede del filone del realismo politico. Quel percorso mi è servito per interpretare quel passaggio d’epoca. Una delle conclusioni a cui sono arrivato è che si è messo fine troppo presto a quell’esperimento. Ho molto accolto nelle mie riflessioni, oltre al filone realistico, la scuola della longue durée: settant’anni non sono niente nella storia umana. I comunisti sono stati gli unici a tentare di costruire una società diversa dal capitalismo. Lo hanno fatto realizzando un socialismo che non corrispondeva né ai canoni tradizionali della teoria marxista né ai bisogni reali del momento. Ma tutti i grandi processi storici hanno bisogno di una durata lunga, abbreviarli e ridurli nel tempo non è una buona azione. Si diceva che il socialismo era irriformabile, io non so se questa cosa fosse vera. So che tutte le grandi istituzioni, quelle che hanno avuto una durata nel tempo (ho sempre in mente quella costruzione iperpolitica che è la Chiesa Cattolica), sono passate attraverso percorsi, anche difficili, in cui sembrava a volte che negassero il valore delle origini. Mantenendo l’esperimento a lungo si poteva intervenire dentro per adattarlo, cambiarlo, trasformarlo e comunque portarlo avanti. Ho dato sempre un giudizio molto negativo su Gorbaciov, personaggio che viene presentato come un eroe dei nostri tempi, e che è stato uno dei maggiori responsabili nell’aver affrettato quella fine. D’altra parte, quando metti in moto un processo che non controlli, quel processo si rivolta contro di te. È così che quella storia, che era cominciata con Lenin, finisce con Yeltsin in una parabola tragicomica. Già questo doveva indurre una riflessione che non c’è stata. In un futuro forse ci saranno grandi storici che la faranno e quella riflessione tornerà perché si capirà che tutto è partito da lì.

Le propongo un parallelismo con la rivoluzione borghese del 1789. Dopo il 1815 la borghesia ha coltivato il mito della rivoluzione nonostante le tragedie della fase napoleonica. Dopo la caduta del socialismo, invece, gli eredi di quella esperienza hanno assecondato l’istanza liquidatrice che veniva dagli avversari.

Ha ragione, si può leggere così, ma ci sono anche altre differenze: innanzitutto la borghesia era una classe dominante e dirigente, che si era costruita in un tempo molto lungo. Con le rivoluzioni fa solo l’operazione di prendere il potere, ma prima di quello aveva avuto una lunga storia nella società reale: nel mercato, nella produzione. Non dimentichiamo che la prima rivoluzione industriale avviene nel ‘700, prima della rivoluzione politica francese. La classe borghese era già protagonista, aveva prodotto cultura, si era radicata nelle nazioni. Lo Stato nazione è stato il luogo di coltivazione della borghesia moderna e lo Stato nazione aveva una storia lunga che veniva dalle monarchie assolute. Il proletariato veniva da una storia recente, legata alla rivoluzione industriale cioè da fine ‘700; la borghesia invece veniva già dal ‘500 dei commerci e delle città. Il proletariato era troppo poco esperto, non aveva avuto mai funzioni di comando, era stato sempre una classe emarginata, esclusa, oppressa.

Altra differenza. La Rivoluzione francese ha avuto l’occasione napoleonica, che lei richiamava, di esportare la rivoluzione in Europa; la rivoluzione socialista non ha avuto questa possibilità. È stata costretta ad accettare controvoglia la costruzione del socialismo in un solo paese perché tutte le rivoluzioni fuori dalla Russia falliscono. Il fallimento dei tentativi rivoluzionari in Germania e in Italia nei primi anni ’20, peraltro repressi sanguinosamente, è un passaggio decisivo. Il fatto che la rivoluzione socialista, che aveva come punto di forza mitologico oltre che scientifico l’internazionalismo operaio, abbia dovuto arretrare e fare il tentativo di costruzione di una società diversa in un paese solo, peraltro circondato da tutte le potenze colonialiste e imperialiste, è stato un handicap iniziale molto forte. Ed è stata anche la prima grande contraddizione, perché quella rivoluzione doveva sfondare in Europa e allora poteva avere anche quello che la storia borghese ha avuto e cioè quelle repliche sovversive che nel corso dell’800 ci sono state. Quelle insorgenze erano originate dal fatto che la rivoluzione borghese era andata fuori dalla Francia, mentre la rivoluzione socialista non è andata fuori dalla Russia. Questo ha condizionato tutta l’esperienza. Nessuno ricorda, ad esempio, che la rivoluzione leniniana è dovuta passare attraverso una guerra civile terribile. E quella guerra civile, sconfitta militarmente, è continuata con l’accerchiamento capitalistico che ha prodotto internamente meccanismi di difesa violenti. In fondo la realizzazione del socialismo si è mossa sempre dentro una condizione di comunismo di guerra e la violenza che c’è stata nella costruzione del socialismo è stata anche una risposta alla violenza che veniva portata dall’esterno, perché bisognava difendere le conquiste della rivoluzione. L’Unione sovietica è sempre stata in guerra, anche prima dell’attacco dei nazisti. Negli anni ‘20 e ‘30 c’era sempre l’accerchiamento che tentava di abbattere quel sistema in qualsiasi modo. Non si tratta di giustificare, non è questo il nostro compito. Dico, però, che ci vorrebbe una grande scuola storica per capire questi macroeventi. Pensa a quanta storiografia si è spesa sulla Rivoluzione francese, e quanta poca storiografia si è prodotta sul tentativo di costruzione del socialismo. Perché c’è stato un pregiudizio intellettuale, tutto borghese, per cui quella era una cosa illegittima, che doveva essere prima emarginata e poi distrutta. Quando poi viene distrutta cambia tutta
la storia contemporanea e l’oggi è ancora condizionato dalla fine di quell’esperimento.

Persino la sinistra sembra aver assunto l’ideologia della fine del conflitto di classe. Come si è passati dalla sconfitta alla totale liquidazione delle radici di un pensiero antagonista? E perché lei propone oggi una critica della democrazia?

C’è un punto che ancora va approfondito e riguarda il perché si sia voluto accantonare tutta quella storia. È la vittoria di un’ideologia tipicamente borghese che è molto espressa dal filone storicista-progressista per cui la storia va sempre avanti e andando avanti migliora. E quindi, in nome di questa ideologia, bisogna gettare dietro le spalle tutte le insorgenze del passato e addirittura rinnegarle. Come mossi da una sorta di complesso inconscio, quelli che stavano dentro quella storia e si chiamavano comunisti hanno tentato di far dimenticare il passato, perché dopo la fine dell’Unione Sovietica c’era stata la fine di un’epoca, che poi è stata letta addirittura come fine della storia. Voleva dire che, finito un mondo, se ne doveva cominciare un altro completamente diverso. Questo mentre il capitalismo trasformava se stesso. Vede, questi sono due processi complementari che vanno avanti insieme: mentre finiva quella storia, che era letta come una storia maledetta, veniva avanti un’altra storia, benedetta, cioè quella del capitalismo che abbandonava le pesanti eredità industriali e si presentava come un capitalismo dal volto umano. Si apriva un’era progressiva, come nell’America di Theodore Roosevelt, che aveva inaugurato una progressive era. E questa era una nuova progressive era, di innovazione e trasformazione: tecnologie che liberavano l’uomo dai lavori pesanti; non più ideologie contrapposte, ma società che si dovevano armoniosamente comporre in nome dell’interesse generale e così via, conseguentemente e finalmente non più nemici ma al più avversari. La fine delle vecchie narrazioni ideologiche, in realtà, ha coinciso con
una nuova narrazione ideologica che diceva sostanzialmente questo: per fortuna che è finito il Novecento. E naturalmente tutte le classi dirigenti, sia quelle di parte borghese, sia quelle che venivano dalla storia del socialismo e del comunismo, si sono unite in quella narrazione ideologica, perché entrambe vedevano ormai la fine del brutto Novecento e l’inizio di nuove magnifiche sorti e progressive. Lo stesso fatto che quelli che erano comunisti si siano a un certo punto nominati come progressisti dice tutto. L’ideologia progressista è un’ideologia anti-storica, anche vista soltanto all’interno della storia del capitalismo, che comunque vive di alterne fasi di sviluppo e crisi, di avanzamenti e ritorni indietro; e poi nella storia politica il meccanismo storico è stato sempre un alternarsi di Rivoluzione e Restaurazione. Ecco, quell’ideologia ha molto condizionato la mentalità delle classi dirigenti. Il nuovo capitalismo a centralità mercatista, che vuol dire anche consumista, sembrava più bello del vecchio capitalismo industriale. Poi è intervenuta la crisi economico-finanziaria che ha messo fine a questa bella ideologia di progresso e oggi tutti dicono che sono aumentate le diseguaglianze. Ma il punto sta qui: questi due fatti della storia, fine di un’alternativa a livello mondo e trasformazione del sistema capitalistico, si sono espressi in una forma politica che è la forma democratica. La democrazia realizzata è questa: una borghesizzazione crescente e totalizzante. Flaubert diceva che in fondo il sogno della democrazia è di fare di tutti i proletari dei borghesi. E infatti è nata questa forma di individualismo di massa che è rappresentata proprio dalla democrazia realizzata, quella in cui si vota con il principio una testa un voto, ma dopo che la testa è stata trasformata affinché funzioni solo in un certo modo e non in un altro.

Tra il piano geopolitico e quello sociale, quindi, c’è un nesso.

l tema che accomuna i due piani è quello che io chiamo reazione anti-novecentesca. Una reazione in cui non solo innovazione e conservazione si sono ritrovati insieme, ma l’innovazione è stata uno strumento di restaurazione. Si è tornati a prima, non si è andati al dopo. Con delle differenze: ad esempio si dice che si sia superata la conflittualità tra nazioni, che era tipica non solo del Novecento ma di tutta la storia moderna. Ma questa conflittualità tra nazioni è stata solo sostituita da una conflittualità tra continenti. Oggi ci troviamo di fronte non alla scomparsa dello Stato nazione, ma a una sua implementazione quantitativa nello Stato continente. Tutto questo va letto all’interno di un’altra bella disposizione concettuale che uso sempre molto, che è quella del tramonto dell’Occidente. È stata evocata negli anni ‘20 del Novecento con la grande opera di Spengler, ma poi non è esplosa: è dovuta passare attraverso due guerre mondiali e poi si è prolungata in una lenta deriva che è ancora in atto. Il tramonto dell’Occidente ha avuto un’espansione cronologica molto lunga e oggi siamo quasi all’esito finale. E l’esito finale ce lo fa leggere questo spostamento strategico dell’asse mondiale da Occidente a Oriente, dall’Atlantico al Pacifico.

Questo però induce un’altra riflessione: lo spostamento strategico non è nemmeno esso una novità assoluta perché è una specie di ritorno, visto che quelle civiltà orientali a lungo sono state civiltà predominanti anche rispetto alla nostra. Quindi anche questo spostamento geopolitico non va letto come un’assoluta novità. E questo va nella direzione di una concezione della storia che è molto più quella dell’eterno ritorno che dell’avanzamento progressivo. Io credo che la concezione del mondo e della vita di cui il movimento operaio è stato portatore sia molto più conservatrice di quella progressiva. Per delle ragioni anche antropologiche: la storia del movimento operaio affonda le sue radici nel popolo, nelle persone semplici che non vivono mai la vita come la famosa ideologia americana della frontiera, mentalità tipicamente borghese, in cui tu devi andare sempre avanti. Vanno avanti perché loro sono convinti di fare la storia mentre le classi subalterne sono convinte di subirla. E subendola hanno l’idea che, seppure tutto cambia, in realtà tutto resta come prima perché non cambia la loro condizione di subalternità. Questo è un effetto psicologico-antropologico che va tenuto in conto. Io l’ho espresso poi, allegoricamente, con categorie che ho preso dallo Schmitt che parla di terra e mare: il capitale è mare, il lavoro è terra. Se il borghese viene dal mercante, dallo scopritore di continenti, l’operaio viene dal contadino e mantiene questo rapporto ancestrale con la terra in quanto luogo di stabilità. Sembrano astrazioni, ma funzionano nella comprensione delle cose. Io vedo la Brexit, ad esempio, come un’opportunità: il mondo anglosassone, che è un mondo di mare, se ne va dall’altra parte insieme agli Stati Uniti. E l’Europa continentale può liberarsi da quel vincolo, trovando corrispondenza a est dove non c’è nessuna interruzione di mare. Sembra di dire una cosa folle, ma il destino dell’Europa è nell’Eurasia. Lo dico
anche per ciò che sta accadendo in quella parte del mondo, di cui non riusciamo ancora a capire gli esiti finali.

Pensa al grande enigma della Cina?

Sulla Cina sospendo il giudizio, aspetto. Mi pare di vedere una transizione aperta a due soluzioni opposte e non si riesce ancora a vedere chi vincerà la partita. Però c’è un esperimento che in qualche modo richiama la NEP, anche se non vedo i richiami teorici perché la cultura cinese è molto autoctona e avrebbe bisogno di un bagno europeo anche sul piano della cultura politica. Però il Lenin della NEP, di cui abbiamo parlato, si ripropone in qualche modo. In fondo lì, a condizioni quantitativamente ingrandite, il processo è lo stesso: c’è un partito comunista che gestisce il potere politico delegando di fatto lo sviluppo economico agli spiriti animali capitalistici. Chi vincerà in questo braccio di ferro è una scommessa su cui non si può fare alcun tipo di previsione. Però bisogna osservare con attenzione, senza dubbio. Perché la Cina sta diventando la vera alternativa all’Occidente capitalistico e questo le élites occidentali cominciano a capirlo, e con una certa preoccupazione cominciano a parlarne come si parla del nemico. Invece io penso che bisognerebbe fare il contrario. Ho usato di recente un’espressione: salviamo l’Europa dal tramonto dell’Occidente. Perché il tramonto dell’Occidente è evidente. Gli Stati Uniti di Trump che cosa sono se non il tramonto dell’Occidente? E cosa sono gli attuali governi europei? Rimane, certo, una storia culturale che bisognerebbe appunto trapiantare dall’altra parte del mondo. Questa sarebbe una grande operazione del futuro: portare la cultura europea in Oriente sarebbe anche una conquista di egemonia, stavolta non per l’occidente capitalistico, ma per una grande cultura secolare. Sono discorsi che attualmente non hanno riscontro e nemmeno una loro effettualità pratica. Ma è importante anche che il pensiero sappia lanciare il cuore oltre l’ostacolo per sfuggire a questo grigio, opaco, insopportabile, presente.

Note

[1] Per una panoramica completa dell’esperienza biografica e intellettuale, cfr. Tronti
2008 e 2015a, Milanesi 2014.

[2] Per una storia dell’operaismo, cfr. Trotta e Milana 2008, Wright 2008.

[3] Unitarietà che chi scrive ha tentato di dimostrare analiticamente (cfr. Montelisciani
2018).

Riferimenti bibliografici

Benjamin, Walter
2012 Tesi di filosofia della storia, Milano: Mimesis.

Tronti, Mario e Cacciari, Massimo
2007 Teologia e politica al crocevia della storia, Milano: Albo Versorio.

Milanesi, Franco
2014 Nel Novecento. Storia, teoria, politica nell’opera di Mario Tronti, Milano: Mimesis.

Montelisciani, Marco
2018 Mario Tronti e l’irruzione del politico nella teoria marxista, Tesi di laurea in Filosofia, Sapienza Università degli Studi di Roma.

Napolitano, Giorgio, et al.
1978 Operaismo e centralità operaia, Roma: Editori Riuniti.

Negri, Antonio
2007 Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, Verona: Ombre Corte.

Peduzzi, Antonio
2006 Lo spirito della politica e il suo destino. L’autonomia del politico, il suo tempo, Roma: Ediesse.

Tronti, Mario
2006 Politica e Destino, Roma: Sossella.

2008 Autobiografia filosofica, https://www.centroriformastato.it/mario-tronti-autobiografia-filosofica.

2009 Noi operaisti, Roma: DeriveApprodi.

2015a Dello spirito libero, Milano: Il Saggiatore.

2015b Il nano e il manichino, Roma: Castelvecchi.

Trotta, Giuseppe e Milana, Fabio
2008 (a cura di) L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni Rossi» a «Classe Operaia», Roma: DeriveApprodi.

Wright, Steve
2008 L’assalto al cielo, Roma: Edizioni Alegre.

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