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Abbiamo perso. Scrivo all’indomani delle elezioni amministrative di Pisa, e usando per la prima volta la prima persona plurale: non avevo mai partecipato così attivamente a una campagna elettorale. Nel 2018 avevo guardato le amministrative a distanza, dalla posizione di attivista nel Teatro Rossi Aperto, una lunga esperienza di autogestione che era cominciata nel 2012, durante la stagione dei teatri occupati (dal Valle di Roma in poi), si è chiusa otto anni dopo senza raggiungere l’obiettivo sperato di una riapertura ufficiale e pubblica, ed è finita per autocombustione e stanchezza, aggiungendosi ad altre chiusure e agli sgomberi verificatisi in città anche sotto le amministrazioni di centro-sinistra. Così questa volta ho deciso di candidarmi. Mi sembrava il caso, mi sembrava urgente.

Trasgressioni di destra

Dal 2018, anno in cui il centro-sinistra ha perso il governo della città, a oggi la destra ha continuato ad accrescere i suoi consensi su scala locale e nazionale. A Pisa la ricetta del sindaco uscente e riconfermato Michele Conti (identifico volutamente l’azione amministrativa con l’operato del primo cittadino) è stata semplice: puntare tutto sui lavori pubblici e sulla capacità di attrarre risorse grazie alle prime mandate di ristori in epoca Covid e poi al PNRR. Risorse trasformate in bonus distribuiti a pioggia soprattutto nei quartieri diventati popolari, e nell’apertura continua di nuovi cantieri con cui portare a realizzazione progetti ereditati dall’amministrazione precedente e spesso già finanziati.

Muovendosi in una città governata sempre dalla sinistra nei vent’anni precedenti, Conti da un lato ha drenato competenze amministrative e progetti dalla controparte (il suo primo capogabinetto proveniva dal PD, ma è solo un esempio), dall’altro ha progressivamente potenziato l’idea di una discontinuità, attribuendosi il compito di trasformare una città «rovinata» e lasciata «nel disastro». Tutto questo de-politicizzando, a parole, il proprio operato e rappresentandosi insistentemente come un sindaco pragmatico e lontano dalle «beghe della politica».

Salito al governo della città con i voti della Lega (un partito che nel 2018 è passato improvvisamente dal 4% al 18%), pur provenendo dalla destra sociale (MSI, Alleanza Nazionale), Conti si è smarcato dall’aggressività delle politiche con cui ha inaugurato il suo mandato: ha progressivamente moderato i toni e attivato un marketing politico plurale e diversificato, qualcosa come la riedizione di una vecchia modalità di stampo democristiano, un po’ a tutti senza scontentare nessuno. Una politica che ha pagato moltissimo in termini di consenso e che ha prodotto una lista di sostegno al sindaco, «Pisa al centro», rivelatasi essenziale per la rielezione. Una lista costruita per tempo, intercettando il desiderio di protagonismo politico di persone diverse, molte desiderose classicamente di saltare sul carro del vincitore, ma non solo. Nelle persone del ceto medio istruito passate alla destra serpeggia un sentimento chiaro, qualcosa di molto simile allo spirito di rivincita che anima Fratelli d’Italia in Toscana, una sorta di affrancamento, una trasgressione rispetto al dover essere di sinistra che abbiamo respirato a lungo dalle nostre parti. “Nella mia famiglia se uno è di destra è considerato un demente, un ignorante” mi ha detto una giovane laureata in legge che ho intercettato durante un volantinaggio. “Gli ho spiegato che non è così” ha proseguito seria.

Le virtù di una politica “modesta”

In questo panorama cittadino, il candidato sindaco del centro-sinistra è stato individuato solo a dicembre, dopo una farfugliosa discussione interna ai partiti di cui in città si aveva notizia solo dai rumors. Qualcosa si era tentato di fare con un po’ di anticipo, un progetto chiamato “Officine Pisa” in cui cento persone provenienti dalle professioni, dalle associazioni e dall’impegno civico, suddivise in tavoli tematici, hanno scambiato idee e contenuti per far ripartire un progetto di città. Da questo percorso è nata l’idea di una candidatura civica, esterna ai partiti, capace di rigenerare idee e legami a sinistra grazie alle caratteristiche della persona individuata: Paolo Martinelli, un giovane uomo, cattolico democratico, proveniente dal terzo settore, dal pacifismo e dall’antimafia sociale, con il mandato di gestire una patata molto bollente.

Mi è sembrato giusto dare una mano e l’ho fatto nel mondo più semplice possibile inviando un messaggio diretto: “Se davvero ti candidi, io ci sono “. Come me tanti altri hanno aderito al progetto di aprire uno spazio nuovo nel centro-sinistra, attraverso una lista che garantisse l’autonomia di una candidatura civica e animata dal desiderio, politico, di riportare un po’ di fiducia nello scambio democratico. Ci siamo dotati di un metodo che ha dato molta forza al progetto, ma che non è stato visto da tutti per l’importanza che volevamo assumesse. A molti è sembrata ridondante e sopravvalutata la capacità di portare in fondo la costruzione partecipata del programma di mandato, attraverso tavoli di lavoro che, ricollegandosi a quanto fatto da Officine Pisa, hanno prodotto contenuti, a cui si sono aggiunti quelli emersi da una campagna di ascolto che ci ha portato a parlare davvero con tutti, quartiere per quartiere. Un lavoro lungo e appassionante di cucitura di esperienze, sensibilità, visioni da cui è uscito un testo in cui era possibile, ai molti che variamente hanno partecipato, ritrovare un pezzo di sé, un’idea partorita e consegnata al lavoro comune.

“Non si va contro questa destra con questo spirito da boy scout” ha tuonato uno dei tanti che sono rimasti alla finestra, a guardare, sempre convinti che sia necessario fare altro, e forse hanno anche ragione, ma noi siamo andati avanti così, con gentilezza, cercando di riguadagnare il terreno perso dall’abitudine ai politicismi e ai personalismi. Alla politica declinata in termini di carriera (e potere) abbiamo opposto quella di servizio e di impegno, semplicemente ascoltando problemi e proposte e attivando dispositivi in grado di far risuonare tutto questo in città.

Ho pensato molto a quello che scrive Latour riguardo alla necessità di una politica “modesta”. È un gioco di parole con cui Latour oppone a una politica “moderna” che stabilisce modelli, gerarchie, sistemi ordinati, una politica appunto “modesta” che avanza per composizione e che si muove fra le controversie cercando di capire cosa è giusto fare, attrezzandosi di spirito critico e desiderio di andare oltre il già dato.

Qualcosa da reinventare

Fare una campagna elettorale è come entrare in un grande frullatore in cui le voci di tutti ti vengono addosso e le cose da organizzare sono tantissime. Si imparano molte cose sulla città in cui si vive, è come vederla attraverso una radiografia, con tutte le sue fratture, i legami spezzati, le zone d’ombra. L’obiettivo principale che ci siamo dati è stato quello di occuparci della frattura più grande, quella tra elettori e rappresentanti, provando a raccogliere, e poi accompagnare, i frammenti di partecipazione attivi in città verso un nuovo protagonismo cui abbiamo dato la definizione di “progetto civico e progressista”.

Parte integrante, e motore, dell’idea di un progetto trainato dal civismo per allargare l’elettorato a sinistra, i partiti della coalizione hanno faticato a ridefinire il proprio ruolo. Molto dell’impegno della forma-partito, com’è noto, è profuso verso l’interno, e in queste elezioni ho visto che cosa questo comporti: il PD impegnato fino agli ultimi giorni di febbraio nelle operazioni per le primarie, Sinistra Italiana, Sinistra Civica Ecologista, Possibile impegnati nella discussione che ha infine portato alla decisione di una lista unica, e così via le altre sigle. Il Movimento Cinque Stelle, con cui il dialogo è iniziato prestissimo, si è unito al progetto per ultimo, in tempo per la formazione della lista, seguendo gli equilibri della politica nazionale. Comuni a tutti l’affanno per la presentazione delle liste, i problemi nella definizione dei capilista, le firme cercate di fretta, e poi la grande dispersione dei candidati in città per la ricerca di voti e preferenze. E la programmazione di iniziative in un tempo molto compresso.

In una città come Pisa, in cui il radicamento dei partiti di sinistra è stato forte nel tempo, grazie alle sezioni e ai circoli non è impossibile far partire la macchina organizzativa e si è visto bene con l’arrivo di big nazionali, o in occasione delle cene di finanziamento e di altre iniziative. Elly Schlein è venuta a Pisa due volte, due occasioni importanti e di spinta. Sono venuti Conte, Fratoianni e altri, ma a questi incontri, guardandomi intorno, avevo sempre l’impressione che fossimo tra di noi, tanti, ma tra di noi.

C’è qualcosa da reinventare, evidentemente, sia nelle forme organizzative che nelle liturgie della sinistra, qualcosa da capire anche alla luce della forza che esprime la destra, le cui liturgie mi hanno letteralmente spaventato per la forza muscolare ed economica che hanno espresso. La presentazione delle liste che sostenevano il sindaco in carica (3 partiti + 3 liste di sostegno che faccio fatica a chiamare “civiche”, ma a loro modo lo erano) è stata fatta con largo anticipo, in una piazza del centro, con tanto di maxischermo, banchetti, bandiere, sedie bianche da ristorante, catering da crociera. Tutto un po’ così, ma efficace.

La nostra scelta istintiva ci ha portato dalla parte opposta. La formula ibrida che abbiamo portato avanti tenendo insieme un attivismo plurale, civico e di partito, ci ha spinto verso uno stile di prossimità alle persone, di cura delle relazioni, ma anche verso un certo “spontaneismo” (la definizione non è mia) che abbiamo potuto innestare su una struttura con un potenziale organizzativo forte e un radicamento antico nella politica cittadina. Qualcosa ha funzionato. Siamo riusciti per pochi voti ad arrivare al ballottaggio e la sconfitta al secondo turno non è stata così cocente come era stata data, dal sentire comune e dai sondaggi, fino a pochi mesi fa. Un più che onorevole 47,67% a 52,33%. Nei quindici giorni prima del ballottaggio è successo di tutto e la mobilitazione è stata imponente: volantinaggi, porta a porta, un movimento di 551 persone (tante erano quelle mobilitate nelle chat organizzative) che è servito a ribaltare il voto in molti seggi, vincendo le diffidenze degli elettori di “Una città in comune”, una lista di opposizione/movimento che, da sinistra, si è tenuta a distanza dai due principali candidati sindaco ritenendoli “diversamente uguali”.

Il clima è cambiato in città e in molti ci hanno detto che non si vedeva niente del genere da anni. Incredibilmente la coalizione di destra è diventata mimetica: classicamente in giacca e cravatta, politici ed elettori hanno virato verso performance più movimentiste. Ci hanno rincorso nei quartieri con lo stesso stile con cui noi abbiamo inaugurato una stagione di passeggiate urbane, ci hanno rincorso nei bar all’ora del caffè o dell’aperitivo, si sono dati alle biciclettate, ai cortei festosi, alle magliette tutte uguali, ai palloncini colorati. Stranianti.

Muoversi con grazia da sconfitti

Nelle intemperie sociali, e sono tante quelle che abbiamo tenuto sullo sfondo di una campagna elettorale giocata di fretta, è più forte chi sa adattarsi agli eventi inventando nuove modalità di navigazione. Con il suo mimetismo e la sua capacità di esibire numeri e muscoli per ora ha vinto il sindaco “che ha fatto tante cose”, più capace, in quest’epoca di transizione e di crisi che non sappiamo come affrontare, di rassicurare e avanzare. Contando su un’antropologia pessimista e su una cultura del potere autoritaria, la destra contiene le paure diffuse, fa leva su risentimento e delusione riuscendo però a far immaginare “un cielo sempre più blu” e sparando la canzone di Rino Gaetano a ogni comizio.

Quello che possiamo fare a sinistra è muoverci con grazia da sconfitti, immaginando un attivismo all’altezza dei bisogni e delle potenzialità, anche emotive, di ognuno. L’idea oggi è costruire dal basso un’organizzazione leggera che si dia il compito di non disperdere le energie raccolte e di connettere questa massa critica. Un’organizzazione porosa, in grado di non chiudersi nei propri confini ma di di entrare in contatto con ciò che si muove e con ciò che resta fermo nella società.

Le questioni da affrontare sono sempre più pesanti in una città di provincia come nell’intero pianeta. Le determinanti dell’economia capitalista e globalizzata hanno ridotto i margini di manovra della politica, fino a erodere la possibilità di pensare delle alternative. Non basta alzare i toni dell’allarmismo di fronte alla crisi ecologica e climatica, di cui ormai facciamo esperienza quando non piove e quando piove troppo. Se non abbiamo le categorie emotive per metabolizzare i rischi, non possiamo far altro che evitare di pensarci. La percezione della propria singolare impotenza rischia solo di espandersi. È anche questo che genera disaffezione alla politica, entusiasmo verso le destre e astensione da sinistra. La difficoltà di individuare percorsi d’impegno sostenibili individualmente, in cui lo scarto tra la spesa di sé e la possibilità di incidere concretamente sia accettabile, e qualche volta gratificante, si può superare solo se si riesce a immettere nell’agire collettivo qualche elemento di desiderio e di piacere o di fiducia se si sceglie un lessico più posato.

Serve una politica a misura e su misura dell’agire singolare, individuale, soggettivo. Servono dispositivi organizzativi che rovescino l’abitudine all’individualismo egoista in possibilità di azioni individuali ricche e che non scartino, anzi integrino, l’emotività e gli affetti. Resta vero quanto scritto da Mark Fischer, sensibile analista delle forme di vita contemporanee: “Se il neoliberismo ha trionfato assorbendo i desideri della classe operaia post-sessantottesca, allora una nuova sinistra potrebbe cominciare dal lavoro su quei desideri che il neoliberismo ha generato, ma che è incapace di soddisfare. […] Questa è una battaglia che può essere vinta, ma solo se a prendere forma sarà un nuovo soggetto politico”.

Sono parole di un testo del 2009. Mi piacerebbe poter dire che nel frattempo un soggetto politico nuovo, seppur frammentato, si sta ricostituendo, che in modi diversi da più parti si vedono le spore di soggettività politiche che si prendono cura dell’abitabilità del pianeta, dei territori, delle città senza fare riferimento a parole d’ordine ma a partire da sé, che è il metodo che il femminismo ci ha insegnato e che resta l’unico possibile punto di partenza.

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Un commento a “Ripartire dal desiderio. E dal piacere”

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