Capitalismo, Digitale, Temi, Interventi

No, stavolta non possiamo cavarcela maledicendo il lungo elenco di errori lontani e recenti di azionisti, manager e governi; le scalate a debito, le buonuscite milionarie dei capi d’azienda, le cordate do ut des costruite a tavolino a palazzo Chigi, la riduzione inesorabile della occupazione e del perimetro aziendale.

Stavolta siamo arrivati al capolinea e, anche se TIM è forse il caso più grave, non c’è nessuna impresa di telecomunicazioni in Europa che sia in grado di resistere allo spostamento di ricavi e di valore dai servizi di rete a quelli che si svolgono sopra la rete e sono interamente capitalizzati dagli Over the top.

E siccome purtroppo non è alle viste una azienda di dimensione europea, l’unica necessaria e sufficiente per negoziare i prezzi di accesso alla rete degli OTT, occorre prendere in considerazione in Italia anche soluzioni di politica industriale non ancora sperimentate all’estero.

I sindacati sono sempre stati contrari agli scorpori delle grandi imprese. Come dargli torto quando gli spezzatini sono presentati come invenzioni finanziarie per vendere poi le parti a un prezzo superiore a quello che si otterrebbe vendendo l’insieme? Come è possibile immaginare la sopravvivenza di una società di servizi TIM che non controlla ma affitta la rete come i suoi concorrenti, ma sarebbe gravata di un debito e di un numero di dipendenti che i concorrenti non hanno?

Eppure, per non farsi dettare tempi e soluzioni solo dalle logiche finanziarie, è arrivato il momento in cui questo esercizio occorre farlo, contemplando l’ipotesi di due società: una pubblica, l’altra privata, una per la rete l’altra per i servizi alla clientela.

Il perimetro, i dipendenti, il debito e i costi fissi che si possono caricare su una società di servizi, non possono essere superiori a quelli dei concorrenti.

Il resto va attribuito alla società della rete. Non mi piace chiamarla Rete unica, perché non si può proibire a nessuno di costruire pezzi di rete o di usare altre tecnologie. Chiamiamola “Società pubblica della rete intelligente”, nel triplice significato di controllo regolamentare, controllo azionario e missione pubblica esplicita e controllabile.

È evidente che questa Spri partirebbe molto indebitata e con un organico molto numeroso. Oggi si parla molto del debito di TIM, in futuro può emergere anche il tema del debito di Open Fiber, che è una società a maggioranza pubblica. Sommando le quote di Cassa e depositi in TIM e in OF, si avrebbe un operatore con un solido controllo pubblico. Riunificando quelli che oggi sono i due venditori di rete all’ingrosso in una infrastruttura pubblica, il costo del debito può essere in gran parte ristrutturato, anche senza dichiarare insolvenza, trasferendo la crisi al sistema bancario che da venti anni annovera TIM tra i suoi migliori debitori solventi.

Il modo più facile e più stupido per affrontare i problemi di organico è quello di costruire un grande piano di esuberi e ammortizzatori finanziato con denaro pubblico. In materia l’Italia vanta precedenti ingloriosi.

Il modo più complesso, ma l’unico con una probabilità di successo, è scommettere su un disegno nazionale di politica industriale che sostenga sia l’occupazione sia il servizio del debito. Ma questo disegno di politica industriale non può nascere all’interno dell’attuale modello di business delle telecomunicazioni. La nuova società della rete non potrà infatti vendere direttamente alle famiglie, né sognare una esplosione della domanda da parte degli operatori privati di servizi (tra cui la nuova TIM commerciale) che comunque rispondono alla domanda delle famiglie. I prezzi retail sono in Europa inferiori a quelli americani e la domanda delle famiglie italiane è inferiore alle medie europee. Nessun piano industriale di breve e medio periodo può essere disegnato sognando di risolvere questi due problemi ormai strutturali.

Restano solo due strade: il sostegno alla domanda privata, con incentivi alle piccole e medie imprese e voucher alle famiglie meno abbienti oppure una domanda pubblica aggregata legata a uno o più grandi progetti paese.

Sulla prima strada non sono contrario, ma molto dubbioso: innanzitutto non interesserebbe direttamente la società della rete, ma tutti gli operatori retail (la nuova TIM inevitabilmente allo stesso livello dei suoi concorrenti); poi esistono già fondi per la connessione nelle aree disagiate, strutture di trasferimento tecnologico alle imprese e varie forme di sostegno alle famiglie, il cui innesco si è spesso rivelato lento e macchinoso.

Proviamo invece a immaginare un grande progetto pubblico che risponda sia alle domande occupazionali sia a quelle finanziare, comprese quelle di breve periodo, che non possono essere ignorate.

Ê possibile riconvertire l’occupazione e il debito di TIM e Open Fiber? È possibile addirittura creare nuova occupazione e mobilitare parte del gigantesco risparmio privato degli italiani? Sì, ma non chiamiamolo, per favore, piano di digitalizzazione, che non significa nulla, se non la resa agli OTT che il valore dei dati sanno dirottarlo altrove.

Chiamiamolo “Piano per il territorio intelligente” e incarichiamo la Società pubblica della rete di portare sensori, cavi, antenne, sui nostri edifici, monumenti, strade, ponti, vulcani, fiumi e acquedotti. Incarichiamola di sviluppare, brevettare e applicare, sistemi di intelligenza artificiale per il territorio. All’estero non è stato ancora fatto? L’Italia con il territorio più ricco, fragile e complesso del mondo è il beta test ideale e il più prezioso. L’Europa seguirà, prima che anche Orange, DT e Telefonica, affondino tra ricavi in calo e debito crescente.

L’errore delle aziende di telecomunicazione è stato quella di ritenersi imprese digitali o, peggio, aziende di contenuti. In questi mondi sono dinosauri, destinati nel migliore dei casi a evolvere in uccelli (come la TIM servizi commerciali e i suoi concorrenti).

La vera forza delle aziende di rete è invece quella di essere imprese territoriali, nel momento storico in cui il territorio ha perso la sua autonomia dalla intelligenza (e stupidità) delle decisioni umane. Questa perdita di autonomia (che qualche geologo ha ribattezzato Antropocene) si amplifica con il supporto delle soluzioni proposte o applicate dalla Intelligenza artificiale. Tra il mondo reale e quello virtuale non c’è solo il metaverso, ma anche le connessioni. La struttura che connette, avrebbe detto Bateson, è la forma che agisce tra mente e natura.

Dobbiamo pensare al fatto che gran parte dei lavori del futuro cureranno le connessioni tra ciò che è digitalizzabile, e quindi calcolabile, e le persone e le cose, cioè il territorio. Molti di questi lavori sono cattivi lavori catturati da piattaforme che rispondono solo alla logica di valorizzazione del capitale. Ma può esserci anche una quantità di lavoro maggiore e di miglior qualità di quella mai dispiegata dalle aziende di telecomunicazione.

Tralascio, perché questo è un altro problema, il fatto che le grandi imprese di telecomunicazione spesso appaltano installazione e manutenzione a un largo indotto, i cui addetti costituiscono spesso l’unico vero tramite con le amministrazioni e con i residenti. Infatti il problema di TIM non può essere risolto come problema aziendale, ma solo all’interno di una cornice molto più larga che crea e comprende i lavori del futuro.

Ho tralasciato tanti altri problemi occupazionali, regolamentari, industriali e finanziari, nessuno dei quali mi appare non risolvibile.

Quel che può sembrare più grave, è che non ho mostrato nessun numero a sostegno della fattibilità del piano. Un titolista cattivo e spiritoso potrebbe intitolare questo articolo “Arrivati al capolinea, vendiamoci il Colosseo”.

Persino KKR però annuncia una Offerta pubblica di acquisto con tanto di prezzo e di quota minima di adesione, senza un numero industriale allegato. Il problema ora non sono i piani finanziari o aziendali, i consulenti e neanche il management.

Nella mia esperienza professionale, ho conosciuto anche manager delle telecomunicazioni di grande buon senso; due nomi per tutti: Enrico Bondi e Beppe Sala. Neanche loro però avevano una visione per uscire da una crisi strutturale. Oggi una visione per una società della rete non la possono e devono dare né i manager né gli azionisti privati; può darla solo l’azionista di un’impresa con un esplicito indirizzo pubblico. I piani e i manager vengono dopo una missione pubblica misurabile, che coinvolga non solo il Governo di turno, ma anche i risparmiatori e i lavoratori.

La cogestione è un altro tabù dei sindacati. Ma qui non si tratta di cogestire alla tedesca le aziende che nasceranno da questa crisi. Il tema è quale soggetto sociale può forzare un Governo di manager e banchieri a dare un’anima al PNRR creando l’unico contesto nel quale è risolvibile la crisi delle telecomunicazioni italiane.

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3 commenti a “Società pubblica della rete intelligente”

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