L’amarone della Valpolicella, la cipolla di Tropea, il pomodoro pugliese e, infine, il kiwi del basso Lazio: sono alcune delle eccellenze agricole che arricchiscono i produttori e lustrano il pedigree del cibo Made in Italy. Sono lontani anni luce i tempi grami del dopoguerra, quando la fame era tornata protagonista: oggi mangiare è diventato anche uno status symbol e proliferano chef, marchi, il marketing conia sempre nuovi slogan. Anzi, se un problema si pone è quello della sovraproduzione, dello spreco, ma questa è un’altra storia. Quei prodotti che luccicano nelle vetrine di alimentari che sembrano gioiellerie o su banchi nobili di catene multinazionali hanno una storia: qualcuno li ha seminati, coltivati, curati, protetti, raccolti e alla fine confezionati per la vendita al dettaglio. Insomma, fanno parte di una filiera, cioè di un’organizzazione complessa e articolata che impiega circa un milione e mezzo di lavoratori, se contiamo anche i cosiddetti “invisibili”. C’è un mondo alle spalle di quei prodotti: fatto di sudore, fatica e molto spesso sfruttamento e non riguarda soltanto gli immigrati, ma sempre più spesso anche gli italiani. “Sulle spalle degli altri” è un viaggio, attraverso il racconto e le voci dei protagonisti, nei territori in cui si coltivano e si confezionano quei cibi aristocratici. Disponibile online dal 23 giugno 2023, è stato realizzato da Susanna Bucci e Paolo Butturini ed è stato prodotto da Akùo in collaborazione con FLAI-CGIL.
Scoprirete così che esistono ancora forme di “caporalato” anche nel ricco Nord-Est, che nella Capitanata le donne lavoratrici sono quasi tutte italiane, che i sikh si sono stancati di prendere botte ed essere sfruttati, che in Calabria è pericoloso anche soltanto parlare con i lavoratori. E tanto altro. Ma vedrete anche che ogni giorno ci sono donne e uomini della FLAI-CGIL che provano a contrastare questo sfruttamento, a far crescere la coscienza anche dei lavoratori immigrati. La loro fatica è più lieve di quella di chi sta chino sui campi, ma è preziosa per ridare a queste persone prima di tutto la dignità.
L’amarone dello sfruttamento
Una bottiglia può costare anche centinaia di euro e nel veronese se ne producono milioni, ma non ditelo a Said, perché a lui, di euro, ne davano al massimo 5 all’ora per 12 o 14 ore di lavoro al giorno. Comincia da questo immigrato dal Pakistan il nostro viaggio alla scoperta di come si produce, nella verde Valpolicella, quell’oro rosso che si chiama Amarone. Scoprirete così che anche nel mitico Nord-Est, la locomotiva d’Italia, esiste ancora lo sfruttamento. Migliaia di donne e uomini che quotidianamente faticano fra le vigne per raccogliere grappoli così delicati che vanno staccati e riposti uno a uno. Una volta c’erano gli ucraini, i romeni, insomma quelli dell’Est, oggi a sudare sulle colline del disonore lavorativo, sono soprattutto pachistani e africani. “Gli invisibili” li chiamano i sindacalisti della FLAI-CGIL del Veneto, che provano a organizzarli a convincerli che hanno anche dei diritti e a rivendicarli. Ovviamente c’è anche chi sta meglio, ha un contratto, un orario di lavoro, una paga decente e, qualche volta, persino dei benefit. Ma non è un caso che questo avvenga dove il sindacato è più forte e organizzato. Insomma, dietro a questo vino costoso, che dà piacere al palato e procura profitti milionari, ci sono storie di donne e di uomini, di lavoratori e sindacalisti, con un comun denominatore: prova a difendere e riaffermare la dignità delle persone. Noi proviamo a raccontarveli.
Lacrime di cipolla
È rossa, croccante, un tocca sana per la salute e un ingrediente che nessuno chef stellato si fa mancare per preparare piatti rivisitati della tradizione e no. Stiamo parlando della cipolla rossa di Tropea, vera eccellenza della Calabria e un importante comparto dell’economia di questa regione. La storia di questo prodotto ce la facciamo raccontare dai lavoratori e dalle poche lavoratrici, dai sindacalisti che ne sostengono diritti e rivendicazioni e da alcuni visionari giovani imprenditori calabresi. È una storia, questa della coltivazione e produzione della cipolla rossa di Tropea, che ha per tutti un elemento comune: la fatica. E per quanto riguarda i sindacalisti della FLAI-CGIL che ci accompagnano in questo viaggio, è anche una storia di quotidiano coraggio. Di rischi e di sfide quando il loro intervento in difesa dei lavoratori entra in rotta di collisione con gli interessi della criminalità organizzata. Nessun italiano vuole più raccogliere cipolle, ed è per questo che sono arrivati Omar, Amadou, Mohamed e tanti altri ragazzi africani che oggi vivono nelle case fantasma dei calabresi che negli anni sono andati via, altrove, a cercar fortuna. In uno scenario distopico, senza la forza lavoro degli stranieri, spesso ai margini della società, il settore agricolo calabrese si fermerebbe.
Sangue di pomodoro
Di fatica si può anche morire, sembra impossibile nel pieno del terzo millennio, eppure è successo, non più tardi di otto anni fa: si chiamava Paola Clemente, lavorava all’acinellatura dell’uva ad Andria. È stata stroncata dal caldo e dallo sforzo in un assolato giorno di luglio. Una condizione a volte drammatica, quella delle donne, soprattutto italiane, nei campi della Capitanata. Qui si coltiva, si raccoglie e si confeziona il celebre pomodoro. E se alla raccolta provvedono i maschi, soprattutto africani, sono le donne che lo devono lavare, selezionare e inscatolare. Lo sfruttamento è uno dei pochi campi in cui si realizza la piena parità dei sessi. Incontriamo Bajankey, lui arriva dalla Sierra Leone passando per l’inferno libico. La sua storia è un concentrato dei drammi dell’immigrazione. Ovviamente è scappato in cerca di un lavoro, di un futuro e se, dopo lo sfruttamento iniziale, è riuscito a trovare un barlume di speranza, lo deve al lavoro della FLAI-CGIL che anche qui prova a contrastare fenomeni come il caporalato, la violazione dei diritti, l’assenza di regole. Ma vi raccontiamo anche le storie di Lucia e Mariella, la prima operaia dell’agroalimentare e quadro della Flai, la seconda una signora romena ancora precaria dopo anni di vita in Italia. Accanto a loro ci sono le donne e gli uomini della FLAI, impegnati a far crescere le coscienze e la voglia di riscatto dei lavoratori, in una terra che ricorda ancora la lezione di Giuseppe Di Vittorio, indimenticato segretario generale della CGIL del secondo dopoguerra.
Come è duro questo kiwi
Agro pontino, per secoli zona paludosa e malarica nel sud del Lazio, è oggi considerato un angolo di Nuova Zelanda. È qui infatti che il kiwi, frutto relativamente nuovo sul mercato internazionale, ha trovato la sua terra di elezione. L’Italia, infatti, è il terzo paese al mondo produttore di kiwi e più di un terzo dell’esportazione di questo frutto proviene dal Lazio. Immaginiamo di sorvolare con un drone quest’area: è un susseguirsi di serre, ed è un gran via vai di biciclette che attraversano i borghi i cui nomi ricordano la grande immigrazione di braccianti giunti per le bonifiche dal Veneto e dal ferrarese. Oggi, quei contadini che Antonio Pennacchi ha immortalato nei suoi libri sulla saga della famiglia Peruzzi, non ci sono più. Al posto loro, a partire dagli anni 80’ sono arrivati dall’India 30.000 sikh, ormai alla terza generazione. Molti lavorano in agricoltura. Vi racconteremo la storia di un pulmino un po’ sgangherato della FLAI-CGIL con il quale i sindacalisti, tra i quali Laura, figlia di due immigrati indiani, vanno letteralmente incontro ai lavoratori all’uscita dal lavoro per informarli sui loro diritti e aiutarli su tante altre cose. Vi racconteremo anche di Mitica, che 20 anni fa lasciò la Romania e la fabbrica per raccogliere kiwi e del suo impegno per il sindacato anche a rischio di perdere il lavoro.
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