Nelle seguenti righe, avanziamo una breve analisi del tema del lavoro per come trattato nei programmi elettorali dei partiti che, per il lavoro, rivendicano un ruolo diverso nel nostro Paese dal punto di vista economico, sociale, politico. Per ragioni di spazio, ci focalizziamo su tre questioni strettamente interrelate: precarietà, intesa nel senso generale del termine (in tutte le sue forme); lavoro autonomo, in quanto espressione sempre più rilevante del precariato; salario minimo, che necessariamente incrocia i temi del reddito di cittadinanza e della contrattazione collettiva.

Prendiamo a riferimento le formazioni che riconoscono esplicitamente – benché con diversi gradi e intensità – la necessità di imprimere una sterzata alle politiche per il lavoro italiane, e dunque di superare la matrice di pensiero neoliberale che tali politiche ha ispirato: Unione Popolare, Alleanza Verdi e Sinistra (di seguito Verdi-Si), Movimento 5 Stelle. Includiamo, inoltre, nell’analisi il Partito Democratico per via della volontà recentemente espressa di superamento del Jobs Act, così come per il rinnovato accento posto sulla questione del salario minimo, con una ritrovata consapevolezza, forse, delle condizioni in cui versa il lavoro, e con esso il grosso della società, nel nostro Paese. Non prenderemo, invece, in considerazione il programma proposto da Azione-Italia Viva-Calenda visto che persiste nel rivendicare, e rilanciare, passaggi legislativi chiave quali il Jobs Act. È trascorso sufficiente tempo dall’approvazione di questa misura per asserire senza ombra di errore che il mix di politiche introdotte al fine (dichiarato) di contrastare la precarietà e incentivare il lavoro a tempo indeterminato – quantomeno sul piano formale – è stato un fallimento, peraltro previsto e prevedibile. In questo lasso di tempo, il precariato è aumentato addirittura in misura proporzionalmente maggiore che in precedenza (per una fotografia dello stato dell’arte in un settore importante come il turismo, si veda: Il turismo di chi ci lavora).

Prima di procedere, sembra necessario avvertire che l’analisi proposta di seguito andrebbe tarata sulla base di tre elementi, che dichiariamo e riprendiamo solo in parte nel testo. In primo luogo, un focus su temi programmatici specifici – il lavoro, nel nostro caso – necessita comunque di una visione d’insieme del programma di riferimento e di una connessione con le altre questioni che tale programma affronta. Ad esempio, le misure prese a fronte della guerra avranno ripercussioni prevedibilmente molto forti sul peggioramento delle condizioni economiche di vasti strati della popolazione lavoratrice (e non). In secondo luogo, e di rilievo ancora maggiore, una valutazione complessiva delle proposte deve tenere conto della storia delle formazioni che se ne fanno portatrici, che pure ne sancisce la credibilità. È utile quantomeno ricordare a questo riguardo come nelle ultime legislature il PD e il M5S abbiano detenuto importanti incarichi governativi. Infine, la nostra analisi non entra nel merito, tutto politico, delle scelte che le formazioni di riferimento hanno effettuato sul piano delle alleanze elettorali, e che pure sono misura della reale importanza attribuita a certi temi. Alleanze che da un lato portano a quasi certa sconfitta e dall’altro complicano di molto la possibilità di una pure necessaria ripresa delle lotte contro l’eventuale governo delle destre. Per esempio, la convergenza, che osserviamo più avanti, tra MS5, Verdi-Si e UP su alcune questioni centrali attinenti al lavoro rimane evidentemente tradita dalle scelte elettorali effettuate. Nel complesso, assai più che un’analisi tecnico-oggettiva – ben sappiamo che i programmi elettorali rimangono in buona misura, e per loro natura, lettera morta – ci interessa valutare quali siano gli orientamenti della diverse formazioni e la misura in cui guardino in una direzione genuinamente politica: che abbia cioè all’orizzonte un cambiamento nei rapporti di forza tra capitale e lavoro per come si sono riconfigurati nell’ultimo quarantennio. Anche per questo motivo ci limitiamo, rispetto ai temi selezionati, a discuterne alcuni aspetti principali.

Precariato

Sulla questione del precariato, UP e Verdi-Si denotano certamente le posizioni più nette, peraltro parzialmente sovrapponibili se non per alcune pur presenti differenze in termini di formulazioni e accenti. Entrambi gli schieramenti mettono un punto fermo sul superamento di tutte le forme di precarietà del lavoro progressivamente introdotte in Italia, e sulla reimposizione del lavoro a tempo indeterminato quale tipologia contrattuale prevalente. In entrambi i casi, inoltre, il ricorso a contratti a tempo determinato è considerato possibile solo per motivi che ne giustifichino l’impiego. La differente formulazione delle norme sul superamento del Jobs Act (esplicitamente menzionato da UP, ma non da Verdi-Si) e sul ripristino della legge 300, art. 18, risulta solo relativamente rilevante: l’insieme delle misure che va sotto quel titolo non ha introdotto nuove tipologie di lavoro precario, ma ha facilitato l’accesso al contratto a termine indebolendo drasticamente il contratto a tempo indeterminato. Semmai una sottolineatura meriterebbe l’omissione da parte di Verdi-Si della norma sul demansionamento presente nel Jobs Act e che, stando al programma, potrebbe sembrare confermata.

Se l’obiettivo del superamento del precariato accomuna certamente gli orientamenti di UP e di Verdi-Si, con differenze prevalentemente formali e qualche differenza sostanziale, meno deciso appare in materia il posizionamento del M5S, su cui torneremo di seguito con specifico riferimento al lavoro autonomo. Quanto all’orientamento complessivo del PD, più che per ogni altra formazione, è da rilevare una sostanziale discrasia tra le dichiarazioni (già ricordate in apertura di questo contributo) e gli indirizzi scritti nero su bianco nel programma elettorale. Infatti, al di là di una menzione dell’esempio spagnolo, il richiamo al superamento del Jobs Act rimane privo di ogni necessaria specifica. Passando al piano delle parole scritte, poi, è appena il caso di menzionare come nel programma elettorale del PD il Jobs Act non sia nemmeno nominato; peraltro, come è stato argutamente notato prima di noi – si veda la discussione sul web animata da Marta Fana – l’attuale questione lavoro in Italia è lì ricondotta alla crisi in corso, non già alle riforme di cui il PD stesso è stato artefice. Sia sufficiente sottolineare qui che se in materia di precariato è rintracciabile nel programma del PD una adeguata menzione della necessità di ripristinare l’introduzione della causale sui contratti a termine, rimane al contempo indefinito il concetto di rendere più “vantaggioso il contratto a tempo indeterminato”.

Lavoro autonomo

Su questo tema rileviamo, in genere, un approccio insufficiente. Parlare del precariato nel suo complesso impone di tenere a mente, da un lato, le differenze di trattamento tra i lavoratori a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato man mano che aumenta la dose di precarietà (si pensi ai contratti di un mese); dall’altro lato, la differenza con chi è costretto al lavoro autonomo, specifica espressione del precariato. Una delle questioni fondamentali che pone il lavoro autonomo riguarda chi si trova a lavorare, per l’appunto, sotto tale regime svolgendo di fatto un lavoro assimilabile a quello dipendente. Differenza resa molto visibile dal Covid-19, per esempio, sul piano degli ammortizzatori e della loro copertura (sul tema generale, e sugli ultimi provvedimenti in materia, si veda: Di cosa si parla quando si discute di ammortizzatori sociali e Più inclusione, ma senza universalità).

Il tema del rapporto tra lavoro autonomo e legislazione vigente è oggetto di molti studi (per una discussione, si veda: Generalizzare i diritti o la subordinazione? Appunti per il rilancio del diritto del lavoro in Italia). In estrema sintesi, sono rilevabili due possibili opzioni. Una prima opzione è di ridefinire, come propongono alcuni specialisti lavoristici francesi, lo stesso concetto di lavoro e riscrivere tutte le regole del diritto del lavoro. Si tratta, tuttavia, di un compito immane, che può essere messo sì in agenda, ma non essere risolto a breve. L’alternativa è quella di porsi il problema di ridurre al minimo le zone grigie tra lavoro autonomo e dipendente. Da questo punto di vista, la proposta del M5S risulta la più avanzata. Il M5S è l’unico partito che rinvia allo Statuto dei Lavori, per come già proposto dalla CGIL, in cui tutti i diritti che attengono al lavoro subalterno a tempo indeterminato vengono estesi all’insieme del lavoro precario e autonomo (maternità, diritto di organizzarsi sindacalmente, ecc). Le altre formazioni risultano più deboli su questo punto. Vero è che lo affrontano indirettamente: quando evocano la necessità della contrattualizzazione dell’accordo con il datore di lavoro, e rivendicano anche per il lavoro autonomo il diritto ai minimi salariali. Ciò però non prende in considerazione l’insieme dei diritti sul lavoro, né il tema dei rapporti di forza, oggi talmente sbilanciati da rendere difficile il rifiuto di un lavoro. Soprattutto, dal nostro punto di vista, la questione viene affrontata sul piano dell’individualizzazione della contrattazione e della ‘lotta’, uno dei peggiori mali, a nostro giudizio, del lavoro autonomo.

La maggior adeguatezza della proposta dei 5S risulta tanto più evidente se si prende in considerazione il tema del lavoro autonomo digitale. Su questo punto, apparentemente i 4 programmi – reimmettendo dentro il PD – trovano gioco facile quando richiamano le leggi europee. Soprattutto, Verdi-Si, 5S e PD sono molto simili quando citano la direttiva sui lavoratori digitali del Parlamento europeo. Si tratta di una direttiva di grande importanza se si considera che il lavoro autonomo digitale rappresenta una fetta crescente e rilevante del precariato (per alcune prime considerazioni si veda: Regole e opportunità per il lavoro da remoto). Tuttavia, bisogna ricordare che, trattandosi di una semplice direttiva, ogni Stato ha facoltà di recepirla a proprio modo; è evidente dunque che si potrebbero moltiplicare le differenze tra Stati europei su questa materia. Inoltre, comunque la si applichi, rimarrà sempre vivo un campo grigio, una fascia oscura, di confine, tra il lavoro autonomo propriamente detto e il lavoro subalterno a tempo indeterminato. È a fronte di questa zona grigia che riteniamo utile inserirsi riconoscendo a tutti i lavoratori, i subalterni come gli autonomi, gli stessi diritti.

Salario minimo e reddito di cittadinanza

Nei programmi elettorali di tutte le formazioni prese in considerazione, si rileva la compresenza di indicazioni sul salario minimo e sul reddito di cittadinanza. Consideriamo questo un importante passo in avanti sul piano degli orientamenti complessivi, là dove, sino a qualche anno fa, il dibattito in merito tendeva a concettualizzare come reciprocamente escludenti le due misure. Ci piace ricordare a tale proposito che – anticipando il ‘senso comune’ odierno – già nel 2018 il nostro centro di ricerca organizzava un importante convegno in cui le ragioni di una coesistenza tra le due politiche venivano ampiamente argomentate. In quella stessa sede, si argomentava inoltre ampiamente la necessità di sganciare il reddito di cittadinanza da ogni tipo di condizionalità. Prima di ritornare più avanti su questo importante punto, occorre operare una distinzione in materia di salario minimo tra le posizioni del PD e quelle delle altre formazioni che prendiamo in esame: UP, Verdi-Si e M5S. Nel caso di queste ultime, l’accento è nettamente posto sull’introduzione di un salario minimo legale, equivalente, per il M5S, a 9 euro lordi orari, e per UP e Verdi-Si a 10. Più o meno esplicitamente a seconda dei diversi schieramenti, la richiesta di introduzione di un salario minimo (legale) così chiaramente formulata riconosce le conquiste acquisite attraverso le lotte sindacali da quei settori del lavoro la cui retribuzione supera la soglia minima prevista, mettendo al contempo al riparo dalla povertà lavorativa tutte le sezioni del lavoro i cui salari sono invece al di sotto di tale pavimento, incluse quelle coperte dai cosiddetti accordi ‘corsari’. Va notato tuttavia che soltanto Verdi-Si affronta esplicitamente il tema della rappresentanza sindacale e di conseguenza quello dei contratti pirata e degli accordi separati. Sembra importante rilevare, invece, nella proposta di UP, un rinvio all’utilizzo della maggiore forza salariale della classe lavoratrice non soltanto in quanto elemento di redistribuzione e giustizia sociale ma anche come leva per la transizione del Paese a produzioni a più alto valore aggiunto (dunque non esclusivamente tarate sul basso costo del lavoro).

La proposta del PD in materia di salario minimo risulta assai meno definita e per alcuni versi contraddittoria. Da una parte, in luogo di un salario minimo legale predefinito, si ripropone l’idea del “valore legale erga omnes del trattamento economico complessivo dei contratti collettivi firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative”. Una misura così concepita mette sì al riparo dalla realtà dei contratti ‘pirata’ – ove venga chiarito cosa si intenda per “organizzazioni maggiormente rappresentative” – ma non a quella, pur esistente, dei contratti ‘corsari’ cui si faceva riferimento sopra. Dall’altro lato, il richiamo a un salario minimo legale di 9 euro lordi orari, inteso in un senso più simile a quello proposto dagli altri schieramenti, è circoscritto ai “settori a più alta incidenza lavorativa” sulla scorta del modello tedesco e in riferimento alla recente direttiva europea in materia. In questi settori si delega cioè alla proposta delle parti sociali la definizione di una soglia minima, nel rispetto però dei parametri europei. Tralasciamo qui la scarsa plausibilità di una importazione nel nostro Paese del modello tedesco in virtù delle enormi differenze di assetti interni tra Italia e Germania dal punto di vista legale e sindacale. Ci sembra invece interessante sottolineare come se la proposta di 9 euro lordi orari è il risultato di un calcolo che effettivamente risponde ai parametri indicati dalla direttiva europea, di per sé quest’ultima non impone all’Italia di definire un salario minimo, rientrando tra i Paesi in cui almeno l’80% della forza lavoro è coperta dai Ccnl.

Proponiamo infine alcune notazioni sul Reddito di Cittadinanza. Risulta pressoché inesistente nei programmi analizzati qualunque indicazione relativa alla necessità di sganciare il RdC da ogni tipo di condizionalità; un orientamento, questo, che, come si anticipava, è stato invece sostenuto con forza dal nostro Centro. Se il Pd si ferma alla commissione Saraceno, Verdi-Si aggiungono qualche misura di ulteriore non discriminazione. Lo stesso M5S, che prova a recuperare un suo originario cavallo di battaglia, non lo fa in modo integrale. Sostanzialmente, per il grosso delle formazioni prese in esame, il RdC rimane concepito in quanto misura di contrasto alla povertà e non già in un senso più ampio e a sostegno del mondo del lavoro – e del non lavoro – tutto. Si distingue parzialmente la posizione di UP che menziona il tema dell’eliminazione delle penalizzazioni, tuttavia senza ulteriori (e necessarie) specifiche salvo che per la questione relativa al quoziente familiare (rilanciata anche dal PD). Non intendiamo addentrarci in questa sede nel merito della grande quantità di modelli sperimentabili e sperimentati in varie parti del mondo ispirati al principio appena richiamato (si veda la relazione di Simone Furzi al convegno succitato).Nell’economia di questo contributo, vale invece la pena di notare come il modo in cui è concettualizzato ereso operativo il RdC abbia un immediato valore per quel tema dei rapporti di forza tra capitale e lavoro che menzionavamo in apertura quale principale chiave di lettura dei programmi elettorali. Se già, pur concepito in modo riduttivo, il RdC ha consentito un parziale contrasto alla corsa al ribasso dei costi del lavoro, una sua estensione garantirebbe un’ulteriore possibilità di affrancamento di lavoratrici e lavoratori dalla necessità di accettare qualunque condizione di lavoro purché si lavori, nonché spazi di manovra assai più ampi per la ricucitura delle frammentazioni e per l’organizzazione del conflitto. Vale la pena di rimarcare la profondissima differenza tra un orizzonte di questo tipo e un’idea di sostegno al lavoro – quale quella avanzata dal PD – che prevede un’integrazione pubblica alle retribuzioni a basso reddito (cosiddetto in-work benefit). Un’idea che punta non già su un qualche ritorno alla centralità del lavoro intesa nel suo senso più profondamente politico – ossia di spostamento dei rapporti di forza nella società – ma sulla preservazione dello status quo, qui nello specifico attraverso ciò che di fatto si configura come un sussidio all’azienda (pagato dai lavoratori stessi) e una tiepida redistribuzione ai margini.

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