Come recitava un murales dinanzi alla sede del circolo Leoncavallo a Milano qualche anno fa “la nostra crisi è figlia non tanto delle molte sconfitte ma delle discussioni mai fatte”.

L’irruzione della tecnica come componente non solo di servizio ma “coevolutiva” con l’uomo, come scrive un lucido filosofo scomparso precocemente, Paolo Masullo, nel suo testo L’Umano in transito (Pagina, 2008), da ormai almeno un secolo ci richiama a un tema del tutto tralasciato nel dibattito politico contemporaneo che riguarda il modo di governare una tale potenza.

Su questi temi la sinistra già una volta si ruppe i denti, esattamente cento anni fa, nel decennio 20/30 del ‘900 quando, mentre si discuteva di socialfascismo e di industria pesante, la visione naturalistica e reazionaria di Heidegger e dei suoi epigoni imposero una visione apocalittica della téchne che i fascismi tradussero in nichilismo politico.

Ora siamo a un altro tornante, caratterizzato non tanto dai grandi apparati ma dal ruolo formicolante di ogni individuo che accede direttamente alla potenza di calcolo, e alla stessa intelligenza artificiale, come stanno dimostrando ChatGPT e dintorni.

Un decentramento che comporta una indubbia emancipazione sociale, in cui moltitudini di individui si trovano tra le mani strumenti riservati alle élite fino a qualche tempo fa, e dall’altra parte un’asimmetria fra poteri di interferenza e vulnerabilità degli utenti.

La pressione della tecnica diventa così da variante dello Stato, che spinse Carl Schmitt in punto di morte a riconoscere che l’elemento distintivo della potestà statale, insieme alla gestione dell’emergenza, era il controllo delle onde elettromagnetiche, pratica antropologica che segna la stessa evoluzione della specie.

Una diffusione non dissimile dalle malattie, che caratterizzano ogni essere umano, come oggi il software.

Sarebbe interessante tornare sulla constatazione di come Covid e rete abbiano avuto più o meno la stessa diffusione – 5 miliardi di umani coinvolti a vario livello – con la stessa densità – più zone ricche e popolate – e lo stesso linguaggio – virus, contaminazione, viralità. Un processo molecolare e globale fortemente innestato in una ragnatela relazionale.

“La modernità è un patto”, ci dice infatti Yuval Noah Harari, il brillante analista dell’evoluzione antropologica dell’Università di Gerusalemme, nel suo testo Homo Deus (Bompiani, 2017).

Un patto sociale che caratterizza fin dal suo nascere il processo di trasformazione tecnologica, dal primo bastone che l’uomo impugnò da raccoglitore-cacciatore, agli algoritmi generativi di ChatGPT.

Così come fu un patto il capitalismo industriale, fra proprietari e lavoro.

Un patto oggi fra dominanti e dominati, ci dice Remo Bodei nel suo ultimo testo intitolato appunto Dominio e sottomissione (Il Mulino, 2023), pubblicato poco prima della sua scomparsa. Dovendo aggiornare i contraenti di quel patto, che vediamo segnato da calcolanti e calcolati, non potremmo non individuare proprio nella potenza di calcolo la matrice della governance sociale. Si produce potere mediante la potenza di calcolo, avrebbe detto Sraffa.

In questa logica il Manifesto “Liberare la conoscenza per ridurre le diseguaglianze”, promosso dal Forum Disuguaglianza e Diversità, e presentato da Fabrizio Barca sull’ultimo numero dell’Espresso, ci aiuta a uscire dalla sensazione di impotenza e di inerzia che sta paralizzando la politica da tempo, lasciando spazio agli ingegneri biologici e sociali alle dipendenze dei pochi gruppi monopolisti che si contendono il mercato.

Mi pare però che siamo solo all’inizio del percorso e segnalo qui alcuni punti su cui mi piacerebbe discutere con i firmatari.

Il primo aspetto da approfondire riguarda la natura e l’articolazione di questo mondo in cui ci stiamo evolvendo come specie umana.

Il centro di questo sistema di saperi applicati non sono gli apparati industriali che realizzano le soluzioni ma proprio il calcolo in sé.

Una natura autoritaria che prescinda dalla sua proprietà. Come ci dice Galloway, l’algoritmo è “l’unica espressione umana che convertendo il significato in comportamento è inconsapevolmente eseguibile”. È questa la discriminante fra calcolanti e calcolati.

Come scrive ancora più dettagliatamente Paolo Zellini in La dittatura del Calcolo (Adelphi, 2018) “il carattere virtualmente dispotico degli algoritmi sta nella loro struttura prescrittiva”.

Paradossalmente proprio questa forma del sapere umano è quella più socialmente connessa all’insieme della comunità in cui prende forma: l’algoritmo è sempre un divenire sociale, mai un’invenzione privata.

Non a caso un algoritmo non è un oggetto brevettabile, proprio perché si inserisce sempre e comunque in un’opera collettiva, storicamente documentata. Allora il punto discriminante socialmente riguarda non la capacità di rispondere app su app, dispositivo su dispositivo, come hanno deciso di fare i cinesi in un’economia chiusa che gli permette un’autarchia tecnologica, quanto di sovvertire il carattere riservato e proprietario di questa forma di produzione che è appunto il calcolo. Come il design è un primato che rimane italiano così la creatività matematica difficilmente può essere contesa al mosaico etnico americano.

La potenza di calcolo privata deve essere bilanciata da una forza pubblica almeno equivalente nella sua capacità prescrittiva, così come scrive Frank Pasquale nel suo saggio The Black Box Society (Harvard University Press, 2015): “Gli algoritmi possono essere resi più trasparenti, ma solo se la legge consente a tutti di esaminarli e metterli in dubbio”. Se uno Stato non produce senso come si fa ad avere senso dello Stato? Si chiede Mariana Mazzucato, nel suo saggio Il valore di tutto (Laterza, 2018). Oggi produrre senso vuol dire appunto, come scrive Fabrizio Barca su L’Espresso del 24 aprile 2023 “liberare la conoscenza dalle gabbie in cui viene racchiusa”. Liberarla appunto, non moltiplicare le gabbie. Lo Stato deve essere impresario e non imprenditore dell’incessante azione di meticciato digitale.

Certo, più gabbie sono meglio di poche gabbie, tanto più gestite da pochissimi impresari, ma rimane pur sempre un’asimmetria, fosse anche lo Stato democratico a esercitarla.

Il nodo che proprio la rivoluzione informatica alle sue origini – dal free speech di Mario Savio, al free software di Richard Stallman – esibì con forza sta nel carattere di bene comune delle progettazioni digitali, e prioritariamente, dei dati. Noi perdemmo politicamente quella partita a metà degli anni ‘70, quando fu imposta la privatizzazione del software, nell’indifferenza di chi marciava al grido di “centralità operaia”.

In questo campo di nuova architettura sociale e istituzionale delle relazioni digitali il legame fra utopia e concretezza è strettissimo, come ci mostrano i provvedimenti della stessa vituperata Unione europea. Il DGPR, e il DMS o il DSA, e ancora la carta dell’etica digitale, sono strumenti che intralciano il dominio unilaterale dei padroni delle piattaforme, come l’esile intervento del garante sulla privacy italiano è riuscito a dimostrare.

Proprio in queste ore il commissario al mercato interno dell’Unione europea Thierry Breton ha messo sotto stretta sorveglianza 19 compagnie digitali, fra cui i giganti come Google e Amazon, Apple e Facebook, per valutare l’uso distorto e minaccioso che fanno dei dati pubblici.

Diventa centrale qui l’aforisma del pedagogo cattolico Jean Baptiste Henri Lacordaire, della prima metà dell’Ottocento, secondo il quale “fra il forte e il debole è la libertà che opprime e la legge che libera”, con buona pace anche di molti libertari di sinistra che oggi si ritrovano sotto l’ala protettrice di Google o di Microsoft.

Ma la legge è presupposto, non risolve.

Se mi permettete una battutaccia, gli interventi sollecitati dal Manifesto promosso dal ForumDD sono in qualche modo l’equivalente dello Statuto dei lavoratori del 1970, ma il problema è capire chi è che fa la FLM. chi prolunga sul territorio, nelle comunità, nelle aziende o nelle scuole la lotta contro il dominio monopolista del sapere molecolare?

Proprio l’iniziativa dell’Unione europea che abbiamo citato ci dice che senza una forte iniziativa sociale anche la migliore intenzione delle istituzioni in questo campo diventa burocratismo, se non viene adeguata e rinnovata da una pratica negoziale.

Intendo che le norme in questo campo sono sempre inadeguate, nel migliore dei casi preliminari, mentre solo una spinta sociale è in grado di ingabbiare, questo sì, gli istinti animaleschi del capitalismo predatorio, come si vide appunto dopo l’autunno caldo, quando se non ci fossero stati i consigli di fabbrica e di zona quelle prerogative fissate dallo Statuto sarebbero rimaste sulla carta.

E allora eravamo in una fase in cui i processi industriali si misuravano in decenni, o quinquenni. Oggi si realizzano con un ritmo trimestrale. Per questo la pervasività di tecnologie neurali che interferiscono individualmente in ogni ambito della nostra esistenza, insieme alla velocità frenetica del cambiamento dei paradigmi tecnici rendono le norme inadeguate. Come recita un vecchio proverbio africano: per cacciare i giaguari non si deve inseguirli nella savana, ma aspettarli agli stagni, quando vanno a bere.

Gli stagni sono la ricerca, nel passaggio da quella di base a quella finalizzata, dove si indirizza e si ingabbia il sapere, privatizzandone i fini e le applicazioni, dove il dominio psicosociale si realizza intervenendo nei nostri linguaggi.

In questi due ambiti, le nuove vere fabbriche dove si produce valore, si interviene solo mediante interfacce negoziali.

Il buco nero che ci sta ingoiando in questo universo digitale, dove ogni nostra attività vitale viene tracciata, elaborata e confiscata da pochi oligopolisti, che possono così ridimensionare ogni attitudine alla resistenza e all’autonomia individuale, non è tanto la mancanza di campioni nazionali o europei dell’informatica, ma di luoghi, pratiche e culture conflittuali che ridisegnino il processo innovativo. Non ci manca un’IRI dell’algoritmo ma semmai una Legacoop che riprogrammi e riadatti le soluzioni del mercato. Ci manca la percezione degli interessi comunitari nel mettere mano ai corredi etici e linguistici dei dispositivi che usiamo.

Viviamo in un deserto sociale, in cui non ci sono forme dialettiche fra calcolanti e calcolati. La téchne senza polemos è un inferno, lo spiegava già Eraclito.

Bisogna innovare l’innovazione, ci dice ancora Harari, modificando le geometrie produttive e distributive dei processi digitali.

Questo vale anche per il mondo sanitario. Barca, nell’intervento che abbiamo citato, ricorda lo strangolamento che abbiamo subito con i vaccini. Eppure, quelle erano aziende anche europee. Mancava una presenza pubblica che imponesse vincoli e regole, da una parte, e dall’altra che intervenisse nell’elaborazione e verifica dei protocolli dei farmaci. Ricordiamo cosa fu la lotta contro la nocività in fabbrica, l’esperienza di Giulio Maccacaro, le pratiche di massa delle 150 ore per alfabetizzare i delegati sui ritrovati scientifici.

Nella pandemia noi abbiamo perso clamorosamente l’occasione di usare la tragedia e il dolore di decine di migliaia di vittime per rendere trasparente e condiviso il sistema di ricerca e di applicazione dei vaccini. Una sconfitta politica, subita da parte della stessa sinistra che governava in Europa e in Italia.

La stessa inerzia la vediamo oggi: i congressi della CGIL, o del PD, o, per citare una realtà certo non marginale sul tema, dei giornalisti, hanno ignorato completamente l’impatto sociale e gerarchico del fenomeno di un decentramento di massa dell’intelligenza artificiale all’individuo gestito solo dai proprietari.

Il punto, dunque, riguarda il soggetto negoziale. Chi deve aspettare agli stagni i giaguari?

Il dibattito su questo deve ancora partire. Niente delle esperienze del passato ci può aiutare: i lavoratori, i consumatori o gli utenti, sono categorie inefficaci. Il presupposto è che bisogna trovare soggetti in grado di far male all’avversario, altrimenti non si siede al tavolo negoziale.

Io vedo tre possibili soggetti.

Il primo sono le città, le grandi e medie metropoli, che stanno gestendo con le smart city il trasferimento dalla sfera pubblica a quella privata di servizi e poteri. Gran parte dei fatturati degli OTT proviene da questa strategia globale. Le città potrebbero essere controparti, come lo furono negli anni ‘60 al tempo dello scontro con la speculazione immobiliare. Allora furono inventati i piani regolatori del territorio. I partiti cominciarono ad acquisire saperi e competenze, gli architetti diventarono dirigenti politici. Oggi si deve parlare di piano regolatore delle intelligenze e delle memorie, adeguando partiti e movimenti a queste priorità, con una trasformazione dei profili organizzativi e dei gruppi dirigenti.

Il secondo soggetto sono le università, comunità di peso che rappresentano sia gli utenti dei sistemi digitali sia i validatori. Le università possono diventare centri di controllo e di verifica della ricerca e di supporto alla riprogrammazione degli algoritmi. Certo per fare questo non possiamo accettare che i principali atenei italiani siano finanziati e sponsorizzati proprio dai brand che dovrebbero essere da loro controllati. Non a caso il ‘68 nacque proprio per la rivolta delle università contro il complesso militare-industriale che colonizzava i campus. Negli USA le università, persino quelle private, sono oggi in prima linea, sostenendo le vertenze dei dipendenti del settore etico cacciati dai principali gruppi tecnologici – Microsoft, Google, Amazon e Facebook – per i loro rilievi critici. Questo è un conflitto moderno.

Il terzo soggetto sono per me le categorie professionali, a livello europeo e nazionale: giornalisti, medici, giuristi, ingegneri, pubblici funzionari. Sono loro nella trincea dell’automatizzazione di decisioni e di valutazioni discrezionali. In particolare nella sanità. È proprio lì che si gioca la vera partita, come dice Craig Vender, “nella riprogrammazione della vita umana, altro che social”.

In questa logica non solo avremmo una bonifica della giungla digitale, ma si arriverebbe a una reale distribuzione di ruoli e funzioni, rendendo i calcolati protagonisti e non sudditi. Come scrive Michael Lind in La nuova lotta di classe (Luiss University Press, 2021) “se alla ridistribuzione dei redditi e dei beni non si accompagnasse la ridistribuzione del potere, i sentimenti di impotenza che scatenano buona parte della rabbia dei ceti popolari resterebbero ad alimentare le ondate populiste”.

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