Capitalismo, Digitale, Lavoro, Temi, Interventi

“Come qualcuno forse ricorderà, in quegli anni si parlava moltissimo di automazione, di produttività, di seconda rivoluzione industriale e di relazioni umane. Pareva che tutti i rapporti, produttivi e umani, dovessero cambiare, mentre poi hanno ricominciato – e forse non avevano mai smesso – a prendere gli operai, senza tante inutili storie, a calci nel culo”.

È un brano tratto da La vita agra, romanzo ampiamente autobiografico di Luciano Bianciardi, uscito da Rizzoli nel 1962, prezzo: 1.800 lire – con dedica al nobile amico Carlo Ripa di Meana (e ora in edizione Feltrinelli). Rileggendolo (il brano e l’intero romanzo), sembra la descrizione delle retoriche del management anche di oggi (le relazioni umane…) e in fondo basta sostituire quarta a seconda rivoluzione industriale per avere la descrizione del mondo anche di oggi, perché ciò che descriveva allora Bianciardi è anche l’oggi; perché sempre e da sempre il tecno-capitalismo ama ingannarci offrendosi come sempre nuovo e diverso (nuove merci, nuove tecniche di marketing e di organizzazione scientifica del lavoro, la nuova quarta rivoluzione industriale, la nuova Fabbrica 4.0 che è in realtà il vecchio taylorismo ma digitale, il nuovo smart/home-working che non è diverso dal lavoro a domicilio descritto da Marx, con un pc invece di un telaio) – un nuovo che in realtà è sempre il vecchio tecno-capitalismo.

E Bianciardi ci porta a ciò che scriveva in quegli stessi anni Raniero Panzieri: “In effetti, le ideologie sociologiche e organizzative del capitalismo contemporaneo presentano varie fasi, dal taylorismo al fordismo fino allo sviluppo delle tecniche integrative, human engineering, relazioni umane, regolazione delle comunicazioni, ecc., appunto nel tentativo, sempre più complesso e raffinato, di adeguare la pianificazione del lavoro vivo agli stadi via via raggiunti […] dalle esigenze di programmazione produttiva, [anche] scaricando sull’operaio – sempre nel segno delle ideologie della partecipazione tecnica – poteri di decisione tecnica, perché questo rende più funzionale la fabbrica – importante è che l’operaio non abbia mai la possibilità di decidere organizzativamente, cioè di decidere sul capitale”1.

E oggi abbiamo ancora più automazione; la produttività è sempre da accrescere, facendo allo stesso tempo crescere il pluslavoro di ciascuno (grazie alle nuove tecnologie) per il plusvalore di pochi; abbiamo anche oggi la promessa (falsa, come allora) di cambiare i rapporti produttivi (e diciamo cambio di paradigma per scrivere di digitale e di intelligenza artificiale); abbiamo ancora oggi la promessa (sempre falsa) di cambiare i rapporti umani grazie alla rete, nel lavoro e non solo. In realtà – oggi come allora, forse peggio di allora – il sistema ha ricominciato a ri-prendere gli operai, senza tante inutili storie, a calci nel culo. E ne sanno qualcosa i lavoratori della Gkn, della Caterpillar, i riders, i raccoglitori di pomodori, i free-lance, i lavoratori della cultura, i 1.300 morti sul lavoro nel 2021, i lavoratori in sub-appalto, ma anche i lavoratori delle Fabbriche 4.0 organizzati, comandati e controllati da un algoritmo.

A La vita agra di Bianciardi – autore allora famoso (con Carlo Lizzani che ne fece un film con Ugo Tognazzi, uscito nel 1964), ma oggi dimenticato – siamo tornati per caso. Era tra i libri di mio padre, ma la sua ri-scoperta – del libro e di Bianciardi – è dovuta appunto al caso, a un articolo di Mattia Mantovani uscito sul sito della Radiotelevisione svizzera2, che lo definisce “scrittore perennemente in fuorigioco […] perché contro tutto e tutti: i conformismi e le ipocrisie civili, i potentati politici ed economico-finanziari, le pavide collusioni della borghesia e, non da ultimo, contro un ceto intellettuale chiuso nell’accademismo e assolutamente (volutamente?) incapace di fornire una lettura altra della realtà e dell’esistente”.

La storia è quella di un intellettuale anarchico e romantico che lascia la provincia (ma anche la moglie e il figlio piccolo) e arriva nella Milano del miracolo economico (dove incontra Anna e con lei vive una storia d’amore e di lavoro), con l’obiettivo di far saltare in aria “il torracchione di vetro e cemento” e vendicare i minatori morti in miniera per la scarsa sicurezza del lavoro (e per la massimizzazione del profitto) attraverso il taglio dei costi (e sembra nuovamente il capitalismo di oggi) – il romanzo facendo riferimento esplicito all’incidente alla miniera di Ribolla del 1954 in cui persero la vita 43 minatori (“e chi li ha ammazzati oggi aumenta i dividendi e apre a sinistra”).

A Milano “mi ci aveva mandato Tacconi Otello, oggi stradino per conto della provincia, con una missione ben precisa, tanto precisa che non occorse nemmeno dirmela. E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? […] Posso dirgli, guarda, Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta [come oggi], e la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, lassù”. Eppure, era la Milano del miracolo economico, e “sembra che tutti ci credano a questo miracolo balordo: quelli che lo dicono già compiuto e anche gli altri, quelli che affermano non è vero, ma lasciate fare a noi e il miracolo ve lo montiamo noi” – e sembra appunto di ascoltare i retori e i propagandisti della Fabbrica 4.0 di oggi, del virtuoso cambio di paradigma portato dal digitale, dell’essere finalmente imprenditori di se stessi e non più proletari, dell’intelligenza artificiale che in realtà non è intelligente e neppure artificiale3.

Miracolo economico, crescita economica invece di sviluppo economico e sociale. Perché “è aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale cumulativo e pro capite, l’occupazione assoluta e relativa, il numero delle auto in circolazione e degli elettrodomestici in funzione, la tariffa delle ragazze squillo, la paga oraria, […] il consumo di pollame, l’età media, la statura media, la produttività media e la media oraria al giro d’Italia. Tutto quello che c’è di medio è aumentato, dicono contenti. E quelli che lo negano propongono però anche loro di fare aumentare, e non a chiacchiere, le medie […]. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico […] il bidet e l’acqua calda. A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera”. A tutto questo, scriveva Bianciardi, “Io mi oppongo”.

Era la società dei consumi, la società del benessere crescente, dell’edonismo offerto dalla televisione; era la società dei bottegoni (i primi supermercati) “fatti di stanze enormi e senza finestre” mentre “dal soffitto cola una musica calcolata per l’effetto ipnotico” (come oggi) e dove, entrando, “ti danno un carrettino di fil di ferro, che devi riempire di merce, di prodotti”, e “la fila delle cassiere è sempre attiva ai calcolatori e le dita saltabeccano di continuo sui tasti, come cavallette impazzite […] fissano i numerini con le pupille dilatate e ogni giorno hanno il viso più smunto, e occhiaie più bluastre, il collo più vizzo, come tante tartarughe”. Consumismo per tutti anche oggi e sempre di più (e oggi c’è Amazon, ci sono le casse automatiche – e sembra tutta un’altra cosa): purché tutti lavorino oggi h 24, tutti devono desiderare l’ultimo smart-phone, tutti devono essere pronti a farsi le scarpe pur di sopravvivere (il tecno-capitalismo la chiama competizione), continuando a tafanarsi l’uno con l’altro. Come allora, anche se oggi è tutto digitale e sembra tutta un’altra cosa.

Ancora Bianciardi: “Lo so, potrei andare in sezione […] ma qui dove mi hanno chiuso, ai piani alti di via Meneghino 2, come si fa? Non lo sa nessuno dov’è la sezione, se lo domandi per strada ti guardano come se tu fossi matto. E se anche la trovassi, che cosa credi che dicano, là dentro?” Ora so “che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana”, perché verrebbero subito sostituiti “da altri specialisti della dirigenza. Non puoi scacciarli perché questo è il loro mestiere e si sono specializzati [come oggi] sugli stessi libri di quelli che dirigono adesso, ragionano con lo stesso cervello di quelli di ora, e farebbero le stesse cose”. Ma allora “la rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine”. Ma dov’è oggi l’interiorità dell’uomo, se ormai la nostra vita è delegata (organizzata, comandata e controllata passo dopo passo) a un algoritmo; e se, pur di farci consumare sempre di più hanno inventato il low cost e il Black Friday, se sono riusciti persino a farci lavorare gratis (cioè a pluslavoro totale) – e mai il tecno-capitalismo era riuscito a tanto?

Io mi oppongo, scriveva Bianciardi. Sono passati cinquant’anni dalla sua morte prematura (1971), e all’apparenza – come conferma Mantovani nel suo articolo – “è cambiato tutto, ma nella più profonda sostanza delle cose non è cambiato nulla, e tutte le speranze nutrite da Bianciardi in una maggiore equità sociale – e conseguentemente in una vita meno disumana e disumanizzante – sono andate completamente deluse”. “Il mondo va così, cioè male”, aveva scritto Bianciardi a un amico, negli ultimi mesi di vita. “Ma io non posso farci nulla. Quel che potevo l’ho fatto, e non è servito a niente”. E siamo così appunto arrivati alla Vita agra 4.0 di oggi (e speriamo che Bianciardi perdoni questa banalità), ipertecnologica ma ancora più alienata e alienante di allora, ancora più sfruttatrice dell’uomo e della biosfera. Dove la crisi climatica si fonde con la crisi sociale. Ma dov’è la sinistra – e non tanto una sezione (il contenitore), ma soprattutto un pensiero (il contenuto) di sinistra – o di quello che ne resta?

Rileggere La vita agra è dunque caldamente consigliato. Come rileggere Panzieri. O Marcuse. Confrontando i processi tecno-capitalistici di ieri e quelli di oggi. Perché, come scriveva Theodor W. Adorno: “Solo chi capisce che il nuovo è identico all’antico, opera al servizio di ciò che sarebbe diverso”4.

Note

1 R. Panzieri, (1994), Spontaneità e organizzazione, Biblioteca Franco Serantini, Pisa, pag. 81.

2 M. Mantovani, L’anarchico in fuorigioco, https://www.rsi.ch/cultura/focus/Luciano-Bianciardi-14986959.html

3 K. Crawford (2021), Né intelligente, né artificiale. Il lavo oscuro dell’IA, il Mulino, Bologna.

4 T. W. Adorno (1976), Scritti sociologici, Einaudi, Torino, pag. 334.

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