Democrazia, Politica, Temi, Interventi

Pensieri nel tempo

Abbiamo alle spalle un secolo in cui la centralità della politica per la storia umana è stata compresa a fondo. Decisivo in tal senso fu lo sviluppo di pensiero politico di Antonio Gramsci, ora quel pensiero trova sempre più attenzione nel mondo. Ne ha fatto una ampia e penetrante esposizione Giuseppe Vacca, traendo un bilancio degli studi gramsciani (Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, 2017).

La costituzione politica del “nuovo principe”, soggetto collettivo in forma di partito organizzato – nella visione di Gramsci – doveva consentire di integrare masse di donne e uomini nella vita pubblica, renderle partecipi delle decisioni sul proprio futuro. Naturalmente la dimensione di massa era determinante per questa idea della politica. Ma non c’era solo questo in quel nuovo pensiero di inizio secolo. C’era anche una attenzione inusuale per le mutazioni molecolari che è possibile scorgere negli individui nel corso di cambiamenti decisi dall’alto da classi sociali dominanti. S’intende che tale attenzione fosse decisiva per acquisire capacità egemoniche. Vedremo meglio più avanti. Intanto va subito segnalato che quella indicazione è stata alquanto trascurata e incompresa a lungo dal partito di cui proprio Gramsci fu fondatore.

Credo che questo limite della cultura del Pci e della sinistra in genere derivasse da una contraddizione interna, anzi da una serie di contradizioni, ciascuna delle quali innervava quella successiva. La prima contraddizione è che il rapporto con le masse non si riesce a volgere a esiti di profondo cambiamento se si prescinde dall’autonomia sociale diffusa, che è una esigenza imprescindibile della democrazia. Se anzi si assume l’idea di sovranità popolare – il fondamento più radicale della democrazia – la contraddizione maggiore è nella configurazione del potere dei partiti come potere di contenimento, se non addirittura contrasto a diffusi orientamenti popolari non conformi alle direttive di partito. La storia politica della Prima Repubblica italiana porta molti segni di questo scontro tra sovranità popolare, indicata dalla Costituzione, e sovranità dei partiti per sé stessi. Ridurre questa osservazione critica a problema di chiusura partitocratica di una casta di politici per professione è insufficiente, c’è una contraddizione culturale più profonda, che ha riguardato tanto il ceto politico che gli attivisti e i semplici militanti.

Questa contraddizione deriva dalla scarsa importanza attribuita al vissuto dei singoli, delle persone comuni, quando si ha un’idea astratta e retorica del processo “di massa”: c’è un diffuso luogo comune che taccia di “individualismo” e cioè di spirito antipolitico qualsiasi insistenza sugli aspetti concreti dell’affermazione di ragioni e intenti individuali. Ritroviamo questo argomento anche nella storia delle vicende di isolamento e emarginazione nel Pci – fino alla radiazione – di quei suoi dirigenti che più hanno mostrato convinzioni “fuori dal coro”, etica della responsabilità e libertà di pensiero.

Ma bisogna andare ancora più a fondo: in che cosa affondano le loro radici questi diversi limiti, che intrecciandosi tra loro alfine hanno reso sempre più evidente l’insufficienza di quella costituzione collettiva della politica? È tempo di riconoscere che non solo la forza degli interessi avversi spieghi la sconfitta della politica comunista nella stagione del mondo che abbiamo alle spalle, ma anche le contraddizioni culturali e i limiti loro propri nel tradurre in prassi condivisa un progetto di cambiamento legato a istanze di liberazione, emancipazione e uguaglianza tra tutti.

Conviene tornare molto indietro per darsi ragione di questa storia di ascesa e poi declino di una idea politica progressiva, ma non abbastanza: mancava, come si suol dire, “l’altra metà del cielo”.

Politica e mutazioni sociali

Negli anni Trenta del Novecento Antonio Gramsci, dunque, designava come mutazioni molecolari quei comportamenti adattivi a ingiustizie e sofferenze sociali, cui gli individui si piegano senza alcuna volontà e/o capacità di dare forma a una soggettività politica oppositiva. Dicendo molecolari egli non dava scarsa importanza alle mutazioni, ché anzi esse erano indicate come segnale di una possibile crisi sociale, la quale svolgendosi nel tempo avrebbe portato a squilibri incomponibili dell’ordine generale. In tal caso si sarebbe prodotta una frattura storica, diceva Gramsci, e cioè una ‘crisi organica’.

L’aggettivo molecolare, preso in prestito dalla fisica, non voleva quindi dire scarsa rilevanza e poca incidenza di questi cambiamenti a misura di singoli individui, ma al contrario voleva attirare l’attenzione sull’ordine di grandezza in cui si manifestano primi fenomeni di crisi, cui la politica di opposizione delle forze antagoniste alla borghesia deve guardare con particolare attenzione. Se vuol competere per l’egemonia.

L’avvertimento era tanto più importante, poiché indicava chiaramente che occorre produrre strumenti di ricerca nuovi, adeguati, capaci di attrezzare percorsi di analisi delle contraddizioni, da cui quelle microscopiche mutazioni nascono: e si tratta di analisi allo stesso tempo puntuali e differenziate, data la varietà di campi e di forme in cui fenomeni di crisi possono manifestarsi.

Questo pensiero si formò tra il ’30 e il ’34 in carcere e colloca la questione dei cambiamenti sociali, quelli consapevoli e voluti, e quelli inconsapevoli e passivi, in una ricca trama teorica di categorie di analisi storico-politica. Di cui fanno parte egemonia e rivoluzione passiva, guerra di posizione, cesarismo o bonapartismo: di recente Marcello Musté ha ricostruito con grande cura il formarsi di questo pensiero (Rivoluzioni passive. Il mondo tra le due guerre nei Quaderni del carcere di Gramsci, 2022).

Il partito fondato nel ’21 da Gramsci e altri scoprì solo molto tempo dopo questo pensiero complesso, articolato e potente con cui il suo fondatore rifletteva anche autocriticamente sulle ragioni della sconfitta del movimento operaio che, nel biennio rosso 1919-21 in Italia, voleva “fare come in Russia”. Il Pci conobbe il pensiero gramsciano solo nel secondo dopoguerra, con la pubblicazione dei Quaderni del carcere, prima edizione 1948-51. Fu però con la pubblicazione critica dei Quaderni a cura di Valentino Gerratana nel 1975 che presero forza studi tali da proporre le categorie, di cui stiamo parlando, come chiave di interpretazione storico-politica di tutto il Novecento. Fabio Frosini, uno degli studiosi contemporanei più attenti, ad esempio, ha segnalato qualche anno fa (Stato delle masse ed egemonia: note su Franco De Felice interprete di Gramsci, in “Studi storici”, 4/2017, pp. 987-1014) come la lettura di Gramsci proposta dallo storico Franco De Felice nel 1977, basata appunto sulla pubblicazione critica dei Quaderni, avesse indicato una via in questo senso a tutta la ricerca successiva.

La formulazione con cui De Felice aveva riassunto l’analisi storico-politica gramsciana nel saggio del ’77 è la seguente: “trasformazioni molecolari delle forze in campo; assorbimento e decapitazione dell’antagonista da parte dei gruppi dominanti che in tal modo sviluppano una iniziativa egemonica; scarsa e disorganica consapevolezza di sé della forza antagonista” (Rivoluzione passiva, fascismo, americanismo in Gramsci, in Politica e storia in Gramsci, a cura di F. Ferri, Istituto Gramsci, 1977, vol. I, pp. 161-220: la frase qui citata è a p. 165).

Come si vede la questione delle trasformazioni molecolari fu allora proposta come centrale e segnalò anzi il punto necessario di partenza della riflessione se si vuol capire la politica.

Il maschilismo del Pci

Non si può dire che la cultura politica del Pci abbia fatto tesoro di questa indicazione. Per radicarsi nel paese come partito popolare di massa, secondo le direttive togliattiane per il partito nuovo, i comunisti guardavano piuttosto a fenomeni larghi di politicizzazione e mobilitazione. Dare rilievo a fenomeni limitati, a espressioni anche individuali di disagio, sofferenza sociale, magari voglia di cambiamento, era considerato sbagliato: occorreva che tutto questo fosse “illuminato” da una adesione alla “linea” del partito, oppure se ne denunciava subito la subalternità alla cultura borghese: individualismo appunto. Gli aspetti consci nel formarsi di soggettività individuali riguardavano la psicologia – si riteneva – non la politica, e quelli inconsci riguardavano la psicoanalisi: ma la cultura dei comunisti del secondo dopoguerra diffidava di entrambe, soprattutto della seconda (anche se per la verità Gramsci ne era stato subito interessato, cfr. Livio Boni, Gramsci e Freud tra i Quaderni e le Lettere: i due versanti di una ricezione Indiretta, in “Critica marxista”, n. 4/2022, pp. 38-49).

Lo “stigma” antipolitico dell’individualismo è stato a lungo così forte, che anche una scrittrice del primo femminismo, Carla Lonzi, ne scontò il peso. A lungo infatti aveva esitato a “ricongiungere quello che accadeva a lei nel corso degli eventi e quello che avveniva dentro di lei” ha scritto Maria Luisa Boccia (L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, 1990, p. 31). Lonzi infatti aveva annotato nei suoi diari:

“… l’immagine di una ragazza, di una donna, che dedicava la maggior parte del suo tempo a scrivere privatamente di sé nell’ambito delle sue relazioni private con altri mi avrebbe suscitato sospetto, per questo trattenevo fuori dalla coscienza il fatto di scrivere”.

Sdoppiamento della personalità quindi, subalternità e timore del giudizio esterno (maschile: “questioni di donne”), confessione di “debolezza”. Fino a quando l’autocoscienza non ha posto a fondamento del femminismo “l’io in rivolta” (bel titolo di Boccia), cioè una costituzione propriamente politica della soggettività femminile. Irriducibile alla costituzione politica dell’immaginario maschilista, centrato sulla forza, sul potere.

Sulla scorta dei primi approcci al pensiero politico gramsciano, negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, l’attenzione maschile privilegiava infatti l’osservazione dei saperi egemonici della rivoluzione “dall’alto”, di cui erano capaci le classi dirigenti borghesi al fine di conquistare consenso di massa. Le mutazioni molecolari, individuali, restavano nel cono d’ombra del potere di rivoluzione passiva: conseguenze, non causa del cambiamento imposto. Si studiavano le mosse dell’avversario di classe, piuttosto che i ripiegamenti individuali da esse indotti. Il momento primo della formazione di un io politico (“non ci sto”) sfuggiva a questo approccio. E quando, come tra poco si dirà, si sono diffusi movimenti spontanei molto rilevanti, autonomi dai partiti ma “contestativi” dell’intero ordine esistente, neppure allora il Pci ha capito che una nuova costituzione del politico si stava manifestando.

Questo atteggiamento culturale in certo senso era schizofrenico. Poiché opposta era l’indicazione della prassi politica che occorreva mettere in campo. Il partito nuovo togliattiano, infatti, già dagli anni Quaranta sapeva che doveva radicarsi nelle strade, nei quartieri, “aderire alle pieghe della società” quindi rapportarsi alla dimensione quotidiana del vivere della gente comune: questo avrebbe dovuto espandere le conoscenze sulle difficoltà e preoccupazioni diffuse, anche quelle singolari e molecolari dunque. Ma la fascinazione dell’idea di costituirsi come classe dirigente dotata di pensiero strategico superiore procurava – tra i suoi dirigenti e i suoi funzionari “rivoluzionari di professione”, e tra i suoi “attivisti” e militanti – una sorta di presunzione, un sentirsi “predestinati” alla direzione politica, con atteggiamenti che si connotavano come pedagogismo autoritario.

Si trattava dei limiti culturali profondi del tempo, comuni peraltro a ogni altra forza, originati dal maschilismo dominante, in base al quale il pensiero strategico si concentrava sul potere, sulla forza organizzata, sulla “visione dall’alto” delle cose. C’era quindi più che una somiglianza con la connotazione culturale del pensiero dominante borghese. Ce ne era una replica. Questo credo sia stato il maggior limite che troppo a lungo ha segnato dirigenti e militanti comunisti maschi. La questione del resto, in vari modi, suscitava fin dall’inizio una riflessione critica tra le donne.

Teresa Mattei ad esempio, la più giovane deputata comunista eletta alla Costituente – poi radiata nel 1955 per dissenso sulla linea del partito – in una intervista del 2006, con ironia appena accennata, ha dipinto con precisione questa caratteristica degli uomini comunisti: posizionarsi dall’alto, a specchio delle posture dominanti quindi (ma questo Mattei non arrivava a dire…).

Le donne hanno, rispetto agli uomini, un atteggiamento e un modo di agire differente, hanno una mentalità che definirei “orizzontale”, guardano quello che le circonda e si rimboccano le maniche per fare; gli uomini guardano al potere e questo li porta ad avere un atteggiamento verticistico (sottolineatura mia).

Livia Turco ha ripreso di recente quell’intervista (Compagne. Una storia al femminile del Partito comunista italiano, 2022, p. 70) poiché sente che c’è stata una continuità in questo delle donne nel Pci. Lei è la dirigente comunista che a fine anni Ottanta ha creduto di contribuire, con la Carta delle donne, “al superamento del Pci e alla costruzione della nuova formazione politica della sinistra” voluta da Occhetto (p. 190), a partire dal tentativo di introdurre nel partito comunista il diverso modo di far politica cui le donne “intuitivamente” aderiscono: “Nelle diverse fasi che hanno scandito la storia del Pci le donne ci sono sempre state svolgendo un ruolo fondamentale. Sono state ‘popolo’ e hanno contribuito a costruire il popolo comunista come comunità, introducendovi la pratica della vita quotidiana, facendo vivere legami umani e passione civile. Sono state ‘sentinelle del cambiamento’, quelle che percepivano per prime i mutamenti della società e volevano capirli, elaborarli […] Hanno praticato il ‘riformismo della vita quotidiana’ con lo sguardo lungo sulla vita e sul mondo” (pp. VIII-IX).

Con l’autoscioglimento del Pci quel generoso tentativo fu travolto dal fallimento dell’impresa occhettiana. Né le vicende dei partiti che si sono susseguiti hanno avuto nulla di simile.

Essere sentinelle del cambiamento, percepire per primi i mutamenti della società: è una figura della politica gramsciana, cui la gran parte degli uomini della sinistra non è stata mai in grado di corrispondere. Immersi nel “fare organizzazione e acquisire potere”, impegnati a battere l’individualismo delle culture borghesi, essi hanno trascurato e frustrato sempre i moti psichici immediati, le ragioni e la creatività delle persone.

La cifra di una direzione politica collettiva intellettualmente severa era data, come si è detto, dal maschilismo, coi suoi corollari di paternalismo e pedagogismo autoritario.

La politica orfana dei partiti di massa

Perché insistere tanto su questo limite culturale di quella che è stata la maggior forza politica di opposizione del paese (nonché in Occidente il maggior partito comunista)?

Perché, col radicamento della democrazia in un paese la cui Costituzione programmatica è molto avanzata e segna la via di uno sviluppo progressivo del disegno originario cui tutti i cittadini possono concorrere, la “dialettica delle mutazioni molecolari” ha segnato un balzo in altra dimensione: dall’agire individuale, isolato e frammentario, all’agire diffuso solidale e creativo. Non si può parlare più soltanto di adeguamento passivo a direttive dall’alto: con la sconfitta storica di fascismo e nazismo la passivizzazione di massa degli stati totalitari in Occidente non è stata più possibile. Allargati gli spazi dell’autonomia sociale, individuale e collettiva, non tutto quello che non confluisce in posizioni politiche decisamente oppositive al potere capitalisticosignifica passività e rassegnazione. Movimenti politici e culturali sempre più “creativi” e autonomi hanno segnato la scena, sperimentando altri percorsi del cambiamento. C’è stata una grande varietà di forme e esperienze (dai primi movimenti extraparlamentari del ’68 al nuovo volontariato sociale dal 1975, alle esperienze di attivismo civico in crescita alla fine di quel decennio, poi le attività non prive di contraddizioni definite di “terzo settore” negli anni Novanta, fino alle lotte più recenti per i disabili, o per l’identità sessuale, o per la libertà di scegliere l’eutanasia).

Una quantità impressionante di studi analitici, condotti da diverse discipline sociali, è stata prodotta su tutto ciò negli ultimi cinquant’anni. Ma un pensiero strategico capace di cogliere le differenze e proporre una prospettiva di cambiamento che assuma tali forze come protagoniste prime; questo la sinistra non l’ha mai prodotto.

Si sono lasciati così tempo e spazio alle forze conservatrici, che hanno condotto una politica culturale e pratiche legislative di “addomesticamento” dell’effervescente mondo della cittadinanza. La cosa è visibile in tutto l’Occidente, ma è paradigmatica in Italia. Le contraddizioni che tale processo presenta lasciano aperti tutt’ora gli esiti. Come ha mostrato una recentissima ricerca sul nostro paese, tesa a formare “una mappa” di tutto ciò (Giovanni Moro e altri, La cittadinanza in Italia, una mappa, ricerca Fondaca 2022), non è più significativo ribadire che sono i poteri pubblico-statuali a conferire la cittadinanza e regolarla, quanto invece prendere atto che i processi dialettici, avviati da lotte di cittadinanza, nelle varie loro declinazioni e esperienze, si pongono come un “magma lavico” inarrestabile, capace di trascinare e trasformare la politica e gli Stati.

C’è dunque un deficit molto grave di “intelligenza degli avvenimenti” che segna, per tutta questa storia, la posizione maggioritaria nella cultura della sinistra, quella comunista e quella degli epigoni che le sono succeduti. Da una parte c’è un processo storico imponente di “nuova costituzione” politica in forme anche non partitiche, che è durato alcuni decenni. Processo costituente inedito, avevo provato a dire fin dagli anni Ottanta (Giuseppe Cotturri, Processo costituente? in “Democrazia e diritto”, n.1-2/1987, pp. 141-79).

Dall’altra parte c’è la sistematica sottovalutazione della rilevanza politica di tale processo. Ora, con la scomparsa nell’ultimo decennio dello scorso secolo dei partiti di integrazione sociale di massa, il dilemma si pone con tanta più ragione e forza. Rassegnarsi, perché la politica non può più nulla per un cambiamento capace di salvare il mondo dalla autodistruzione cui lo condannano forze capitalistiche? O fare tesoro di quel che i mutamenti molecolari hanno inventato negli ultimi quarant’anni: reinventare quindi la politica a partire da essi. Questo significa prendere sul serio la capacità storicamente dimostrata da forze non partitiche, nella progettazione, realizzazione e cura della costituzione politica diffusa di persone singole e gruppi minoritari. Perché la “cittadinanza attiva” è la sola esperienza attraverso cui si sperimentano nella storia poteri di minoranza, arrivando sul piano costituzionale a integrare o correggere indirizzi di governo di maggioranza.

La cittadinanza attiva infatti mette in questione immediatamente i caratteri della costituzione democratica e dei suoi sviluppi. La invenzione e sperimentazione di un potere sussidiario circolare tra cittadini e istituzioni prospetta una possibilità di governo finora inedita, di cui i cittadini possano essere detti coautori, coprogrammatori: a vent’anni dall’inserimento in Costituzione dell’art. 118.4, su cui si fonda questa interpretazione, la Corte Costituzionale ha ribadito con nettezza che di questo si tratta (sentenza 131/2020).

La costituzione politica di un “moderno principe”, soggetto collettivo titanico capace di contenere e comprimere ogni contraddizione sociale, è uscita dall’orizzonte. Ma la lotta di una miriade di formazioni politiche, ciascuna minoritaria, ma collettivamente indicative del formarsi di una “costellazione” politica nuova estesa in ogni ambito e strato sociale – che non esclude i partiti, ma neppure si esaurisce nel loro sistema – questo è sotto gli occhi di tutti.

E anche questo scenario riporta a Gramsci: ci sono momenti della storia in cui il vecchio muore – diceva – ma il nuovo stenta a nascere. Quello cui assistiamo in Italia e nel mondo è la morte della vecchia politica, senza che altre forme di vita politica siano pienamente affermate. E tuttavia, per i disastri climatici, gli adolescenti chiamano a rispondere i potenti del mondo.

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2 commenti a “Pensiero inattuale?”

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