Diritto, Femminismo, Temi, Interventi

I diritti dei figli e delle figlie

“Su Gpa non servono appelli, ma un dibattito aperto e non precostituito, che guardi alla tutela dei bambini e delle bambine”. Comincia così un documento uscito di recente, in risposta a una precedente lettera aperta rivolta alla segretaria del PD, che la sollecitava a schierare con decisione il partito sul fronte del divieto. L’invito ad abbassare i toni – per aprire un confronto, fra femministe innanzitutto – è ragionevole; così come il tentativo di stabilire come priorità politica e normativa l’introduzione di un quadro giuridico di certezza e parità di trattamento per tutti i figli e le figlie, indipendentemente da come siano venuti alla luce. Anche per Cecilia D’Elia (CRS, 18 maggio) il riconoscimento a tutti i bambini di “status giuridico, genitori e diritti civili” è un punto dirimente, “prima di iniziare qualsiasi discussione sulla gestazione per altri”.

Tanto più di fronte a nuovi gravi atti della maggioranza di destra: la circolare del Ministero dell’Interno che ha fermato nei Comuni la trascrizione degli atti di nascita, la bocciatura da parte della Commissione Politiche europee del Senato del regolamento europeo finalizzato a istituire un certificato di filiazione, che permetterebbe il riconoscimento dei figli delle coppie dello stesso sesso in tutta Europa. Il voto contrario è stato motivato dalla maggioranza in nome di un possibile riconoscimento per via surrettizia della gestazione per altri. In altre parole, l’origine dei bambini diventa un ostacolo al riconoscimento di diritti fondamentali. O per meglio dire: la sottrazione dei diritti ai bambini diventa un’arma nella battaglia contro la Gpa.

Siamo punto e a capo, mi viene da dire. Come ha ricostruito Marisa Nicchi (CRS, 20 aprile), fin dall’inizio, la Gpa è venuta alla ribalta come “emergenza” sociale (e pratica aberrante) in concomitanza e connessione al rifiuto della competenza genitoriale delle coppie dello stesso sesso. Nel 2016, quando si discuteva in Parlamento delle unioni civili, gli allora alfieri del fronte contro la stepchild adoption (Maurizio Sacconi e Carlo Giovanardi in testa) sostenevano che quell’adozione era inammissibile per le coppie omosessuali perché avrebbe incoraggiato, o peggio “legittimato” l’utero in affitto aggirando il divieto della legge 40: una pratica inammissibile per coppie inammissibili come genitori, in quanto non conformi al modello “naturale” di famiglia. Proprio l’allontanamento dalla “naturalità” unisce nel biasimo la sessualità “anomala” (con conseguente anomalia genitoriale) e la Gpa, la più “artificiale” delle pratiche, sdoganata dall’avvento delle tecnologie riproduttive (Grazia Zuffa, Guardare con i nostri occhi, in “Leggendaria”, n. 115, 2016).

Ho ricordato quel dibattito perché bene documenta l’intreccio di più fili di ragionamento (nella visione delle destre, e forse non solo): la famiglia “unica” versus le famiglie al plurale, le Tra nella moltiplicazione delle figure genitoriali, se e come collocare la Gpa nello sviluppo delle Tra, come intendere il “benessere” del figlio e della figlia e la loro tutela. Una trama fitta, che rende non semplice affrontare preliminarmente (e in qualche modo separatamente) la tutela dei minori. Anche perché, a partire dal corpo di donna che li mette al mondo, lo sguardo che mette a fuoco quel corpo e riconosce/non riconosce la tela di figure e relazioni genitoriali intorno al bambino/bambina dà concreto significato al loro “benessere” e sostanzia il loro statuto sociale, prima dello status giuridico.

L’appello alla forza simbolica del penale

Dico questo non certo per scoraggiare gli sforzi in direzione dei diritti dei bambini/e, ma per cercare di capire meglio gli ostacoli e poterli aggirare. Gli ostacoli non sono pochi, visto che alla presa di posizione da me citata in apertura del pezzo (“sulla Gpa non servono appelli”) è seguito, guarda caso, un nuovo appello della rete NoGpa (firmata da centinaia di vari personaggi, intellettuali, ex parlamentari, molte femministe, politici). Dietro il titolo “La maternità surrogata offende la dignità delle donne e i diritti dei bambini”, si chiede alla politica e al Parlamento “di confermare il divieto di maternità surrogata” e di “spingere a livello Ue e Onu per una messa al bando di tale pratica in sede internazionale”. Come sottolinea l’Avvenire (30 maggio), l’iniziativa “ha presa soprattutto nel centro sinistra e nel Pd”; ed è uscita in contemporanea all’avvio in commissione alla Camera dell’esame del provvedimento governativo per l’introduzione del “reato universale” di gestazione per altri/e.

Per la cronaca lontana, in parallelo con quella presente. Anche nel 2015, mentre nell’ambito del già citato provvedimento sulle unioni civili infuocava la discussione in parlamento sulla stepchild adoption (la possibilità per uno dei partner di adottare il figlio/a dell’altro, se adottabile) usciva un appello senza mezzi termini: «Noi di Se non ora quandoLibere rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore». Anche quel testo invocava la proibizione oltre i confini nazionali (non potendo richiederla in Italia poiché già proibita). I due dibattiti, sulla legittimità genitoriale delle coppie dello stesso sesso e sulla gestazione per altre/i si sono dunque mescolati fin dall’origine: con un filo chiaro di pensiero della destra, con una incertezza di pensiero di altri/altre non di destra, mi pare.

Oggi, di nuovo, come si è detto, l’appello a favore della “dignità delle donne e i diritti dei bambini” segna l’avvio della discussione parlamentare. I firmatari/e di questo appello non si pronunciano nel merito del provvedimento governativo, il che è singolare e al tempo stesso ambiguo. È probabile che si voglia “segnare il campo” rispetto a Meloni, nella più favorevole delle interpretazioni; nella peggiore rispetto a Schlein, in un poco commendevole gioco infra-partito. Solo che il terreno della concorrenza in campo proibizionista è assai scivoloso. Specie quando si sceglie il penale, soprattutto in funzione simbolica: è questo che accomuna il “reato universale” (del governo) e la “messa al bando internazionale” (delle/degli appellanti). Un penale “rafforzato”, “ipersimbolico”, si potrebbe dire. Ne è implicita prova la scarsa praticabilità, giuridica e sociale, del divieto urbi et orbi. A parte il contrasto coi principi costituzionali e con la Carta dei diritti dell’Ue (Riccardo Magi, L’Unità, 1° giugno), non si vede, ad esempio, come possano essere credibilmente perseguite le madri sociali, etero o lesbiche che siano, al rientro dall’estero. “Restano i neonati degli uomini, gay o etero che siano, a meno che non siano i padri biologici. L’unica vera punizione per chi torna dall’estero con un neonato e viene in qualche modo beccato riguarda il neonato stesso, il quale rischia di essere dato in adozione”, scrive Pitch in un articolo in uscita su Studi sulla questione criminale.

Osservo che né le argomentazioni giuridiche, né le possibili discriminazioni, né le conseguenze sfavorevoli per i bambini, hanno avuto la forza di contrastare la terribile forza simbolica del divieto e della punizione. Soprattutto quando la dimensione “sovranazionale” serve con evidenza a segnalare la condanna senza appelli dalla pratica “criminale”: con inevitabile criminalizzazione di chi vi ricorra, con inevitabile stigmatizzazione dei figli di pratica illegittima.

Il desiderio di essere madre e non madre

Se provo a “guardarmi dentro”, a partire dai miei pensieri e sentimenti di donna, di femminista, mi balza agli occhi l’immagine del corpo di donna come campo di incursione: della logica mercificatrice del mercato da una parte, ma anche della “pre-potenza” del penale, con le sue armi affilate, dall’altra. Qualcosa di più e forse di diverso dalla nota critica al “populismo penale”. L’invocazione al penale è sempre più in sintonia con i “toni alti” e assertivi del dibattito pubblico, per fronteggiarsi senza davvero parlarsi: caratteristiche indesiderate ma vincenti del moderno discorso politico. Forse però nella proiezione verso il “penale rafforzato” – in cui il femminismo anti-surrogata incrocia pericolosamente il conservatorismo autoritario – gioca un ruolo l’ ansia per un “non risolto” circa il corpo di donna, che si vorrebbe evitare di discutere. Il penale è utile in questo senso perché chiude il discorso prima ancora di aprirlo.

E invece la Gpa, quando si rinunci a espungerla come “negazione del materno”, costringe a confrontarsi col nucleo del pensiero e della pratica del femminismo: l’essere madre, non più legato al destino di donna. Al posto dell’istinto materno (con il suo onere di schiavitù, ma anche con la sua certezza), il discorso delle donne ha messo a tema il desiderio di essere madri, e di non essere madri: il desiderio, lo sottolineo, nelle sue oscillazioni, con relativa “incertezza” nel decifrarlo. Così da un lato la maternità è ancora “un temibile risucchio di soggettività” (prendo a prestito un’espressione di Maria Luisa Boccia); dall’altro, lo smarcamento dal destino materno mette di fronte alla “debolezza” simbolica dell’essere donna. Cosicché, restando al tema delle tecnologie della riproduzione e della Gpa, l’insopportabilità dell’incertezza simbolica della donna può spiegare l’accanimento con cui molte difendono la “certezza della maternità”. Col rischio di rimanere attaccate al dato biologico della maternità, di nuovo esaustivo della differenza femminile (Maria Luisa Boccia, Grazia Zuffa, L’eclissi della madre, Pratiche, 1998).

Credo che la ricerca sul desiderio (di essere madre/di non essere madre) sia ancora attuale e perturbante. E che in qualche modo si rifletta nelle modalità del dibattito, rendendo più complicato trovare “la misura”. Leggo in questa prospettiva le parole di Fulvia Bandoli e Franca Chiaromonte (il manifesto, 22 aprile) quando segnalano “l’imbarbarimento dei toni” e il pronto passaggio alla scomunica”. È facile (per loro, e anche per me) essere “etichettate come sfruttatrici del corpo delle donne”. Diversi anni fa, anche Bia Sarasini, in uno scritto significativamente intitolato “Se la madre divide”, chiedeva lo spazio del ragionamento e la pratica del dubbio: “il dubbio che chi non firma la proposta di divieto universale della Gpa, non per questo sia sostenitrice dei più loschi traffici di corpi di donne, un’adepta del neoliberismo (Mamma Non mamma, suppl. a “Leggendaria”, n. 123, 2017).

Cerco anch’io di fare uno sforzo di “misura”, argomentando il più possibile la mia contrarietà al divieto e rispondendo a quella che mi appare come una preoccupazione reale, seria e trasversale: come tutelare le donne più deboli, economicamente e socialmente, dall’invadenza del mercato.

Segnalo in premessa qualcosa che manca per trovare uno spazio di ragionamento: oltre all’esperienza delle figure concretamente coinvolte, anche il sapere, condiviso fra donne, che in passato è scaturito dalla pratica del femminismo (Caterina Botti, Riproduzione, soggettività e relazioni, in “Leggendaria”, n. 115, 2016). Perciò il primo sforzo da fare è di creare lo spazio del confronto e dello scambio: cercando di non sovrastare la voce delle donne che portano in grembo il bambino/a; di non sottovalutare i pericoli del loro sfruttamento e i possibili vissuti di espropriazione, ma al tempo stesso evitando di inchiodarle al ruolo di “vittime”.

L’autonomia riproduttiva della donna

Ritengo che il gancio (etico e giuridico) della questione Gpa sia l’autonomia riproduttiva della donna. Il rispetto dell’autonomia della donna non ha niente a che fare con la cosiddetta concezione proprietaria del corpo, né con “derive individualiste”, come si sente dire. Al contrario, rappresenta il riconoscimento della differenza femminile, del potere di generare del corpo di donna. La scelta di procreare/non procreare non può che essere rimessa nelle sue mani: a meno di non considerarla (ancora una volta) un “corpo a disposizione” di un potere altro da lei (del marito nella famiglia patriarcale, dello Stato nell’ordine patriarcale): un corpo storicamente sottomesso alla maternità come ruolo, obbligato a generare tramite il divieto di aborto. Il divieto alla Gpa si pone in continuità con la storia di “reificazione” del corpo della madre.

Al contrario, dare valore alla donna che mette al mondo, cercando di individuare norme calibrate sulla sua soggettività può offrire un valido strumento di difesa anche contro lo strapotere del mercato. In più, una normativa di tal genere può assicurare una bussola di orientamento nel tessuto di relazioni affettive che si dipanano intorno al bambino/a nato da Gpa (costituito perlopiù da figure femminili, visto che prevalentemente ricorrono all’aiuto di un’altra donna coppie eterosessuali in cui le donne non sono in grado di portare avanti una gravidanza). In ultimo, si evita la discutibile contrapposizione fra gestazione per altri altruistica e retribuita: la gravidanza è un processo faticoso, a volte rischioso per la salute. Una donna può decidere di portarla avanti per altra/o sulla base di un legame speciale; ma in linea generale, se accettiamo la pratica, si deve accettare che sia retribuita adeguatamente.

Vale la pena ripeterlo: non sottovaluto i rischi di sfruttamento in un mercato globalizzato. Tuttavia, dietro l’idea che non sia possibile tutelare le donne deboli se non col divieto, vedo una inquietante oscillazione nella visione del mercato stesso e dei suoi meccanismi. Da un lato si sottovalutano i rischi della clandestinità; dall’altro, sembra quasi che qualsiasi regolazione sia ritenuta vana contro tanto strapotere. La fuga verso il penale simbolico può anche assumere il significato della resa alla globalizzazione neoliberista. Né va dimenticato che per reprimere il mercato globale dello sfruttamento, in cui la donna è oggetto di abuso, esistono già leggi contro la tratta di esseri umani, leggi che peraltro – guarda caso – non sono sufficientemente applicate (Maria Grazia Giammarinaro, Domani, 1° giugno). Di sicuro, non è nuova l’idea di tutela che si impone ai soggetti che si vorrebbe tutelare, in nome di un “bene” che prescinde dal loro sentire e volere (anzi spesso vi si contrappone): chi come me si occupa di soggetti vulnerabili – detenute, persone con sofferenze mentali, con problemi di droga etc. – ha ben presenti i rischi di questa forma di tutela: particolarmente insidiosa per le donne, poiché ne ribadisce la posizione tradizionale di dipendenza.

Riprendo dunque le linee di una possibile regolazione intorno al principio dell’autonomia procreativa, come suggerite da due giuriste, Maria Grazia Giammarinaro (Domani, 1° giugno) e Laura Ronchetti (CRS, 4 maggio). In primo luogo, la madre gestante dovrebbe conservare il diritto a tenere con sé il bambino o la bambina fin dopo il parto, insieme al diritto a interrompere la gravidanza divenuta indesiderata e alla facoltà di stabilire le regole di comportamento nel portare avanti la gestazione; potrebbe anche avere un ruolo nel decidere se mantenere rapporti con il bambino o la bambina che ha messo al mondo.

In una delle poche ricerche basate sull’ascolto delle madri gestanti (Amrita Pande, Wombs in Labour, 2014), si leggono racconti di relazioni positive, continuate dopo la nascita, fra le madri gestanti e le intended mothers, di gesti di riconoscimento reciproco, al di là del contratto (insieme peraltro a esempi contrari, di brusche interruzione di rapporti dopo la nascita che le madri gestanti vivono con dispiacere). Sono racconti importanti, perché testimoniano i tentativi spontanei di riconoscere i vissuti e di “nominare” le “nuove” relazioni fra le diverse madri che hanno contribuito a quella nascita. Contro il “vissuto unico” dell’“espropriazione” del corpo; contro l’ideologia della “vera madre”.

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