La cessione da parte di TIM e, in seguito, di Open Fiber di tutta la rete di comunicazioni italiana a un fondo americano è una operazione finanziaria che avrà ricadute industriali, politiche e persino sociali. Su tutti questi piani è una operazione rivoluzionaria, che ha una sua logica.

Il piano finanziario

Sulla tenuta finanziaria dell’operazione fidiamoci: è stata concepita da menti raffinate che hanno ribaltato sia il piano indicato dalla maggioranza che sosteneva Draghi, sia quello presentato da Fratelli d’Italia, entrambi i quali, almeno a parole, miravano a un controllo pubblico della rete. Ora le carte sono cambiate, dando vita a un patto di ferro fra tre contraenti: gli azionisti vendono la rete e gran parte del debito a un fondo statunitense (aperto a una partecipazione di Abu Dhabi) e il Governo dà tutte le garanzie necessarie al buon esito dell’operazione. Innanzitutto, aggiunge 2 e miliardi e mezzo di risorse pubbliche che colmano il gap tra compratore e venditore; poi il Governo italiano garantisce che non verrà usato il golden power e che anzi userà tutti i suoi strumenti per impedire che qualcuno in Europa o qualche autorità in Italia abbia da eccepire su questa operazione e sui passi successivi.

Il principale obiettivo finanziario del piano consiste nella remunerazione del debito, che negli ultimi 25 anni ha garantito circa 30 miliardi di interessi al sistema bancario e che l’attuale TIM non è più in grado di onorare.

Il piano industriale

A questo punto il piano industriale della società della rete, che ancora non esiste, diventa semplice: l’intero valore della rete pattuito nell’accordo, al lordo del debito, dovrà essere indicizzato all’inflazione. Fonti vicino all’acquirente sostengono che la semplice sostituzione del rame con la fibra sarà sufficiente per alzare i prezzi oltre l’inflazione. In questo modo la società della rete sta in piedi per definizione, tanto più dopo che sarà diventata un monopolio incorporando la sciagurata Open Fiber. Con questo gioco di prestigio tornano a galla non solo i futuri investimenti, ma anche i costi affondati, perché già ammortizzati. Le autorità, per autorizzare questa scala mobile sull’intero costo del capitale, dovranno ingoiare un rospo che contraddice alcuni principi economici e antitrust consolidati. Ma sono tempi rivoluzionari e stanno saltando molti sacri principi, dai vincoli agli aiuti di stato, alle regole del commercio internazionale. Di questi tempi le leggi economiche e antitrust tornano a intrecciarsi con le leggi e i tempi della politica.

Il piano politico

La partita politica ha tempi stretti. Il closing dell’operazione, il momento in cui gli effetti diventano irreversibili, è “atteso entro l’estate 2024”, poche settimane dopo le elezioni europee, poche prima di quelle statunitense.

Nella campagna elettorale europea i partiti di maggioranza italiani sosterranno di aver risolto un problema che era stato creato dai governi precedenti. Nel successivo confronto con la Commissione europea, che certo non vede di buon occhio la vendita ad americani ed arabi di una infrastruttura strategica di un grande paese europeo, il tema sarà una delle tante merci di scambio. Se la Germania intende risolvere i problemi delle sue industrie con gli ingenti aiuti di Stato che ha annunciato, difficilmente può impedire agli altri di vendere le proprie industrie come può e come vuole.

La Germania segue, per quanto può permettersi, la strada tracciata da Biden che ha promesso 380 miliardi di aiuti di Stato alle proprie imprese nazionali.

Nelle scorse settimane Biden ha anche cercato di intestarsi i forti aumenti salariali (per la prima volta da decenni superiori al rendimento del capitale) che i lavoratori dell’auto, del cinema e della logistica hanno strappato con un duro conflitto.

Sul piano economico, Trump ha invece promesso l’innalzamento del 10% dei dazi, con effetti devastanti sul commercio mondiale e sull’inflazione. Un rilancio isolazionista che deve trovare una base sociale.

Il piano sociale. 1 – I risparmiatori

Se l’economia politica è l’allocazione di risorse scarse tra interessi sociali alternativi, è utile prestare attenzione alle parole e alle mosse di alcuni fondi d’investimento, dove si sono acquartierate le teste pensanti della destra. Nulla di strano: un fondo di investimento per definizione è lo strumento per difendere e incrementare i soldi di chi li ha, è politica continuata con altri mezzi. Nei tempi buoni i fondi di investimento redistribuiscono ai risparmiatori di tutto il mondo dividendi e plusvalenze che sono superiori all’inflazione. Non sono più tempi facili e i risparmiatori, grandi e piccoli, hanno paura.

Prendiamo KKR, a cui il Governo italiano ha deciso di lasciar comprare la rete di TIM. Il fondatore Henry Kravis è tra i principali finanziatori di Trump; il responsabile dei rapporti con i governi esteri Ken Mehlman è stato presidente del Comitato nazionale del Partito repubblicano e capo della campagna elettorale vinta da Bush nel 2004; il responsabile per le analisi macroeconomiche e geopolitiche è il generale David Petraeus, ex capo delle forze armate e poi della CIA.

KKR ha deciso di puntare sulle infrastrutture passive fisiche e digitali, con uno strumento societario partecipato anche dal fondo di investimento di Abu Dhabi, le cui attività sono segrete.

L’operazione italiana è un test esportabile. Consiste nel comprare un debito collegato con una infrastruttura fisica inestricabilmente collegata con il territorio, per poi indicizzare il rendimento del capitale con un valore superiore all’inflazione.

Per un’ampia base sociale di risparmiatori di tutto il mondo è un affare, è la fine di un incubo.

Piano sociale. 2 – I lavoratori

Le prime vittime della operazione TIM saranno i suoi dipendenti. Sia quelli che finiranno nella società della rete, che saranno progressivamente incentivati all’esodo, sia soprattutto quelli che resteranno intrappolati nella società dei servizi, che d’ora in poi dovrà affittare la rete alle stesse condizioni dei suoi concorrenti, che hanno un terzo dei suoi dipendenti.

Ma l’effetto negativo sui consumatori e sul lavoro si rifletterà su tutti i settori industriali, in termini di aumento dei prezzi e dei costi di produzione. Rispetto agli altri paesi europei le industrie italiane hanno perso competitività, per minori investimenti innovativi e maggiori costi dell’energia. L’aumento dei costi della rete di comunicazione digitale aggraverà il divario.

Ormai questo esito non è evitabile con il ritorno allo status quo, senza un contropiano di segno opposto a quello confezionato da KKR e avvallato dal Governo, ma con lo stesso livello di ambizione finanziaria, industriale, politica e sociale.

Appunti per un contropiano. 1 – Il campione europeo

Nelle scorse settimane il Governo spagnolo ha aperto una indagine per bloccare o condizionare l’annunciata cessione del 10% delle quote di Telefonica al fondo di investimento saudita. Germania e Francia mantengono solide quote di controllo pubblico su DT e Orange, operatori verticalmente integrati. All’esempio tedesco e francese si richiamano tutti i sindacati italiani, da sempre contrari alla separazione di TIM in due società, scorporo che non è stato mai realizzato in altri paesi europei. Bisogna però riconoscere che, anche se in misura meno drammatica di TIM, tutte le aziende europee di telecomunicazione sono in sofferenza, perché gran parte del valore della rete è stato cannibalizzato dagli Over the Top e in particolare da un pugno di giganti internet americani e cinesi. Da anni Orange e DT (e i rispettivi governi) stanno discutendo della possibilità di creare un campione europeo delle telecomunicazioni, con una forza e un numero di clienti tali da ribilanciare i rapporti di forza con i giganti internet nella ripartizione delle risorse, nell’accesso ai dati e negli investimenti in ricerca e sviluppo.

Anche la creazione di questo campione europeo, come in altri settori in cui è ormai evidentemente necessario, è rallentata dalla ritrosia dei governi nazionali a perdere il controllo su infrastrutture strategiche e dalle difficoltà di negoziare garanzie e rapporti di forza tra Germania, Francia, Italia e Spagna.

Purtroppo, la crisi di TIM non può attendere e i numeri finanziari non possono essere ignorati. Gran parte del debito e una quota persino maggiore del personale devono essere scorporati dalla società dei servizi e assegnati alla società della rete, con una soluzione nazionale che non chiuda le porte a una successiva evoluzione europea.

Appunti per un contropiano – 2. Una società pubblica della rete

Lo Stato italiano possiede già, direttamente o indirettamente, quote di società infrastrutturali legate al territorio: Ferrovie, Anas, Terna, Snam o, per restare alle comunicazioni, Open Fiber, TIM, EI Towers, RaiWay.

Tutte queste società sono investite dall’internet delle cose (IoT) che sarà gestito con architetture 5G. Nei prossimi anni i dati generati dagli oggetti e prodotti da milioni di sensori nel territorio saranno molto più numerosi di quelli generati dalle persone, la miniera che ha arricchito gli OTT che hanno dominato la prima fase di internet. Settori verticali quali automobilistico, agritech, sanitario, logistico, ambiscono a non lasciare agli OTT i dati generati dai loro sensori, ma di utilizzarli in proprio rivolgendosi a una rete neutra. A questi si aggiungeranno i milioni di sensori necessari per i gemelli digitali delle città metropolitane o che saranno distribuiti su tutto il territorio per monitorare, prevedere e prevenire i rischi climatici, idrici, geologici e la tenuta degli edifici e infrastrutture critiche. Si tratta di una domanda pubblica aggiuntiva che dà un senso nuovo a una rete di comunicazione che è oggi è usata prevalentemente per streaming video e messaggistica interpersonale.

Leonardo, una società saldamente controllata dal Tesoro italiano, ha una capacità rilevante nella ricerca, sviluppo e produzione di sensori, sinora dedicati quasi esclusivamente a usi militari.

In questo contesto una società pubblica della rete di comunicazione ha un valore e una missione che va oltre l’affitto della rete alle varie TIM, Vodafone, Wind, Iliad, Fastweb che poi la rivendono alle famiglie e alle singole imprese.

Una rete neutra a controllo pubblico è il tessuto connettivo per un piano di politica industriale. Difficile immaginare che sarà possibile un domani, se e quando i fondi americani e arabi decideranno di uscire monetizzando una plusvalenza.

Lo scorporo di TIM va quindi fermato prima del closing estivo, per dar modo di riorganizzare le partecipazioni pubbliche nelle comunicazioni, coinvolgendo, se necessario, quelle in altre aziende pubbliche legate al territorio.

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