Intervento pronunciato all’Assemblea dei soci del CRS il 05.11.2024.
Ringrazio Maria Luisa Boccia, per il lavoro di direzione svolto in questi anni e per il modo in cui da Presidente dimissionaria ha gestito questa fase di transizione. Una fase delicata e non priva di fibrillazioni che Maria Luisa è stata in grado di affrontare e risolvere, grazie anche all’autorevolezza che ha sempre segnato il suo agire, il suo profilo, la sua persona.
Usciamo da una presidenza importante e influente. Una presidenza di peso. E non mi riferisco solo all’arco di tempo non breve (quasi un intero decennio) nel corso del quale Maria Luisa Boccia ha guidato il CRS. Mi riferisco piuttosto a quelli che sono stati i contenuti e connotati distintivi della sua presidenza. Due in particolare:
a) in questi anni l’esperienza e le culture del femminismo sono divenute parte integrante del modo di essere e di agire del CRS. Profilo che non liquiderei con la banale equazione è accaduto perché Presidente del CRS è stata una donna. Se questo è stato, è perché Presidente del CRS è stata specificatamente Maria Luisa Boccia, un nome prestigioso che nella storia del femminismo italiano ha avuto e ha un suo peso specifico;
b) la difesa dei principi costituzionali è stato il tratto distintivo dell’azione politica del CRS nell’ultimo decennio. Ieri contro il progetto Renzi-Boschi, oggi contro il premierato e l’autonomia differenziata. E il Centro si è, in questi anni, adoperato in questa direzione non solo costruendo autonomamente ripetute occasioni di confronto e di mobilitazione, ma anche partecipando attivamente alla costruzione di piattaforme comuni con altre associazioni (in particolare Salviamo la Costituzione, la Via maestra lanciata dalla CGIL, la Rete dei numeri pari).
Insomma, sono talmente consapevole della delicatezza di questo passaggio, che io stesso ho accettato l’offerta di questa candidatura solo dopo aver ottenuto da Maria Luisa la rassicurazione che non si sarebbe fatta da parte completamente e che, anche in futuro, avrei potuto avvalermi dei suoi consigli e del suo appoggio.
In questo decennio il CRS ha sedimentato la sua presenza sul territorio nazionale (mi riferisco all’istituzione delle due sedi regionali in Toscana e Campania); ha attivato nuovi segmenti di ricerca sui temi dell’ambiente e dello sviluppo, sul regionalismo italiano e sui diritti sociali; ha dato vita alla Scuola critica del digitale; ha fatto formazione culturale (mi riferisco in particolare all’interessante ciclo di lezioni su “Fascismo e antifascismo”); ha riposto al centro della propria agenda le questioni del lavoro (e segnatamente, da ultimo, del lavoro povero); è tornata a riflettere (sospinta dai drammatici eventi che stiamo vivendo) sulla questione internazionale, sulla guerra e sul ruolo dell’Europa.
Un’articolazione talmente ampia di temi e di questioni da indurmi a ritenere che vi sono oggi le condizioni per tornare nuovamente a istituire le sezioni di lavoro. Sezioni già attive in passato e alle quali il nostro stesso Statuto fa espresso riferimento all’art. 12.
Certo, vi sono dei buchi che devono essere riempiti, tematiche dirompenti rispetto alle quali non possiamo mostrarci distratti o inerti. E che richiedono quanto prima l’attivazione di nuove sezioni di lavoro e altri percorsi di ricerca. Mi limito a segnalarne quattro: a) lo statuto dello straniero; b) la critica alla costruzione dell’ordine repressivo; c) lo stato della giustizia e dei rapporti tra politica e magistratura; d) la condizione dei detenuti.
Bisogna tuttavia evitare di costruire delle monadi a sé stanti: le varie sezioni devono interagire, costruire percorsi comuni, parlarsi. E il luogo in cui tutto ciò deve avvenire non può che essere il Consiglio direttivo: il motore culturale della nostra associazione.
Ci aspetta un anno denso di scadenze. Nel 2025 ricorrono i dieci anni dalla morte di Pietro Ingrao, anniversario al quale dovremo dare tutto il risalto che merita; è in cantiere un ciclo seminariale su Mario Tronti; dobbiamo impegnarci nell’organizzazione della nostra assemblea annuale e del relativo convegno che abbiamo deciso di dedicare a Lo stato del mondo. A cinquant’anni dalla Trilateral.
Allo stesso tempo dobbiamo aprirci al mondo esterno. Dobbiamo allargare il bacino dei nostri interlocutori. Dobbiamo guardare fuori, rafforzando e consolidando i rapporti con altre realtà associative. Innanzitutto, con quelle a noi culturalmente più vicine (come la Fondazione Basso, la Casa delle donne, l’ARS, Antigone) e con queste sperimentare o rafforzare esperienze comuni, in taluni casi già avviate, come le scuole di politica (coinvolgendo appieno le competenze universitarie che operano al nostro interno).
Dobbiamo espandere la nostra rete associativa, sedimentare la nostra presenza nelle città, tra le persone. Non pretendere di convocarli solo e sempre qui, in Via della Dogana. Andiamo noi dove si trovano, dove si riuniscono: per portare le nostre iniziative e per discutere con loro delle questioni che intendono sottoporre alla nostra attenzione.
Dobbiamo rafforzare gli strumenti editoriali a nostra disposizione. La rivista è oggi una realtà viva nel dibattito culturale e accademico, ha conseguito la fascia A, e ciò spinge tanti giovani a inviare i loro contributi. E non era scontato che ciò accadesse: in questi tempi, come tutti voi sapete, non è agevole esercitare il sapere critico e disporre di spazi di riconoscimento accademico. Democrazia e diritto riesce ancora miracolosamente a essere tutto ciò. Allo stesso tempo dovremo però rafforzare i nessi e i momenti di interazione con il CRS. Perché Democrazia e diritto è la rivista del Centro per la Riforma dello Stato. Se molti ci chiedono di pubblicare sull’uso alternativo del diritto, sulla centralità del Parlamento, sui rapporti tra Stato e capitalismo. È perchè da qui sono passati Ingrao, Barcellona, Tronti. Il CRS, ai loro occhi e alle loro menti, richiama tutto ciò.
Ma la rivista non basta. E non bastano nemmeno le Carte Ingrao che pure rivestono sul piano culturale e simbolico un valore inestimabile. Risulta, altresì, deficitaria anche la nostra presenza sui social media e particolarmente deboli sono gli strumenti della comunicazione dei quali ci avvaliamo, nonostante i notevoli progressi, in questi anni, ottenuti con il nuovo sito e con la collana editoriale sessismoerazzismo.
Il CRS dovrebbe dotarsi di altri strumenti editoriali. La fine delle pubblicazioni della collana Citoyens ha prodotto un grave vulnus. I suoi contenuti e il suo formato erano riusciti a penetrare in un bacino di lettori spesso lontano anche da noi e dal nostro pubblico tradizionale. Oggi in tanti ci chiedono notizie e non si rassegnano alla sua scomparsa. Io proverei, già nei prossimi mesi, a verificare se esistono le condizioni contrattuali per lanciare una seconda serie.
Dico questo perché è necessaria una nuova offensiva comunicativa. E questa deve avvenire non solo attraverso i social e le nuove realtà prodotte dall’innovazione tecnologica, ma anche attraverso gli strumenti più “vetusti” (le riviste cartacee, le collane editoriali). Solo impiegando e rinnovando questo mix di strumenti comunicativi il CRS può ambire a esprimere il proprio punto di vista sulla riforma dello Stato, sulla società e sul mondo.
Insomma, dobbiamo tutti contribuire per fare del CRS un luogo in cui si pratica e si esprime la critica del potere, delle nuove forme del dominio, dell’egemonia capitalista.
Un’egemonia che passa e si realizza anzitutto attraverso il diritto. Perché non è vero che il diritto è oggi in crisi. La questione è un’altra. E concerne la rottura consumatasi in questi tempi tra democrazia e diritto (ecco perché preservare e valorizzare il titolo della nostra rivista mi pare importante).
Chi dispone oggi delle leve del diritto, non sono più i soggetti democratici, i partiti, la politica organizzata. Le masse popolari sono state private di quelle straordinarie leve di trasformazione sociale che per una lunga fase storica sono stati gli strumenti giuridici del consenso. Gli stessi elettori hanno oggi a disposizione solo poche e spuntate occasioni per incidere sullo stato delle cose.
Se così è perché stupirsi, allora, se oltre metà dell’elettorato (in prevalenza donne, giovani e precari) nell’impossibilità di cambiare, o quanto meno di incidere politicamente sulla realtà, rinuncia ad andare a votare?
Insomma, è vero che in questi decenni il contesto storico, sociale, politico è profondamente cambiato. Ma i termini della questione sono rimasti immutati. E sono sempre gli stessi: masse e potere. Da qui non se ne esce.
Tocca allora a noi che di questa cultura siamo eredi continuare a cercare. E cercare ancora. Immaginare altre soluzioni e altri percorsi. E costruire un nuovo ordine del discorso in grado di connettere le pratiche del conflitto con la questione istituzionale, l’agire giuridico con le istanze di trasformazione dell’ordine economico e sociale. È questa la sfida chi ci spetta. E a questa sfida non possiamo sottrarci.
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